I PICCOLI POEMI IN PROSA #7
Cari
lettori,
per
la nostra rubrica “Il momento dei classici”, eccoci arrivati
all’ultimo appuntamento con I piccoli poemi in prosa!
Gli
ultimi sei poemetti sono, di fatto, l’epilogo della storia che
Baudelaire ha deciso di raccontarci. Tra poeti mediocri e muse
d’ispirazione, poveri di Parigi e donne perdute, amore per la sua
città e voglia di fuggire, il poeta ripropone tutte le tematiche
principali dell’opera e propone una riflessione conclusiva.
Vediamola insieme!
PERDITA
DELL’AUREOLA
“...ma
come? Voi qui, mio caro? Voi, in un postaccio simile! Voi, il
bevitore di quintessenze! Voi, il mangiatore d’ambrosia! In verità,
c’è da sorprendersi.”
Il
protagonista di questo piccolo poema è un angelo del Paradiso, che
viene riconosciuto da un misterioso interlocutore (forse un
benefattore o un santo).
L’uomo
è esterrefatto nel riconoscere l’angelo e si chiede che cosa ci
faccia in uno dei luoghi più poveri e malfamati della città.
Quest’ultimo afferma che, mentre saltava tra i cavalli, le carrozze
ed i fossi, la sua aureola è caduta nel fango, in una posizione in
cui tentare di riprenderla sarebbe equivalso a rompersi le ossa da
solo.
Dopo
un primo momento di stupore, l’ormai ex angelo si è ritenuto
sollevato, perché non è più tenuto ad essere, per l’appunto,
angelico, ma è improvvisamente libero di compiere tutte le
azioni che i mortali ritengono più divertenti, dal banchettare al
passeggiare in incognito.
Oltre
al tema dell’uomo che perde la sua “innocenza” per essere
iniziato ai piaceri della vita, Baudelaire non si esime dal lanciare
una frecciatina a qualche collega poco amato. Egli, infatti, immagina
che sarà qualche poeta a trovare l’aureola dell’angelo caduto e
ad indossarla, in una sorta di auto-incensazione che a tutti parrà
soltanto un grande atto di stupidità.
SIGNORINA
BISTURI
“Mentre
stavo arrivando all’estremità del viale sotto le luci a gas, ho
sentito un braccio che si infilava dolcemente sotto il mio, ed ho
sentito una voce che mi diceva all’orecchio: voi siete medico,
signore?”
Nel
corso di quella che sembra una serata qualunque, il poeta sta
ultimando la sua passeggiata sotto le lampade a gas di un viale,
quando all’improvviso una signora non più giovanissima, ma di
bell’aspetto e molto curata, lo ferma per strada e gli chiede con
insistenza se è medico.
Egli,
ovviamente, cerca di ripetere più e più volte alla donna che è
tutto tranne che un chirurgo, ma ella, ritenendo che il poeta abbia
comunque “l’aspetto ed i modi” di un medico, lo invita a casa
sua, dove gli offre del vino e lo fa accomodare nel suo salotto.
È
lì che la signora gli svela la sua insana passione: ella, infatti, è
solita invitare a casa sua uomini che svolgono la professione di
medico, farsi raccontare le loro esperienze in sala operatoria e
collezionare le sue fotografie.
In
alcuni casi, ella si è spinta addirittura in ospedale per vedere
all’opera alcuni dei praticanti più giovani, magari con il camice
ancora sporco di sangue.
L’incontro
con questa donna dai gusti così particolari fa nascere nel poeta una
riflessione incentrata su quali e quanti tipi di follia ci siano al
mondo. La signora, infatti, ad una prima occhiata potrebbe sembrare
una persona senza alcuna stranezza, anzi, molto distinta.
Perfino
agli occhi di una persona come Baudelaire, che ha ceduto più volte
al vizio ed alle piccole e grandi follie, alcune perversioni
rimangono dei veri misteri.
NON
IMPORTA DOVE, MA FUORI DAL MONDO
“Questa
vita è un ospedale dove ogni malato è posseduto dal desiderio di
cambiare letto. Uno vorrebbe soffrire di fronte alla stufa, e l’altro
crede che guarirà accanto alla finestra. A me sembra sempre che
starei bene là dove non sono, e questo problema di deragliamento
spirituale è una questione che discuto senza mai smettere con la mia
anima…”
Il
poeta affronta una delle problematiche più comuni dell’essere
umano: ognuno di noi, infatti, vorrebbe sempre ciò che non ha senza
guardare a ciò che già ha, oppure vorrebbe essere in un altro luogo
rispetto a dov’è, o cambiare costantemente qualcosa della sua
vita, senza mai un attimo di tregua.
Baudelaire,
in un soliloquio con la sua anima personificata, pensa di proporle
alcuni luoghi dove forse starebbe meglio. Egli inizia proponendo
luoghi suggestivi, come Lisbona o Rotterdam, ma la sua anima resta
silenziosa.
Egli
allora immagina che in essa qualcosa sia morto, e quindi le
suggerisce dei luoghi che richiamano l’idea stessa della morte,
fino ad arrivare al Polo Nord ed all’estrema solitudine.
La
risposta della sua anima, rabbiosa ed esasperata, è ancora più
angosciante: ella, infatti, vorrebbe andare ovunque, purché al di
fuori di questo mondo.
AGGREDIAMO
I POVERI!
“Avevo
dunque digerito – voglio dire, inghiottito – tutte le
elucubrazioni di quegli imprenditori del buonumore pubblico, di
quelli che consigliano tutti i poveri di diventare schiavi, e di
quelli che li persuadono che sono tutti dei re senza più trono. Non
si troverà dunque sorprendente, allora, che io fossi in uno stato
d’animo che si avvicinava alla vertigine o alla stupidità.”
Questo
piccolo poema è l’ultimo in cui Baudelaire sceglie di fare della
satira nei confronti di Parigi e della società. Egli inizia a
raccontare di una sorta di suo “ritiro spirituale”: per giorni
interi si è chiuso in casa per leggere alcuni trattati di sociologia
e di politica che ben spiegavano alcune teorie che per un breve
periodo lo avevano affascinato.
Giunto
alla fine della sua lettura, però, egli ha la sensazione che si
tratti di un cumulo di idiozie. In particolare, trova ingiusta l’idea
che le classi più povere si debbano “rassegnare” ad essere
comandate dai più abbienti, perché il fatto stesso che versino in
una situazione di povertà, secondo queste teorie politiche, indica
la loro incapacità di stare al mondo rispetto a chi è più
abbiente.
Com’è
facile immaginare, Baudelaire ha visto fin troppi poveri inventarsi
qualunque cosa pur di sopravvivere ed ha conosciuto tantissimi ricchi
del tutto viziati, indolenti e fuori dalla realtà. Per questo
motivo, egli decide di fare un “esperimento sociale”.
Uscendo
di casa, infatti, egli incontra un povero che gli chiede l’elemosina
e, con uno stupido pretesto, lo aggredisce. Quest’ultimo, abituato
alla sopraffazione, all’inizio subisce inerme, ma poi reagisce,
riuscendo addirittura a provocare al poeta un occhio nero. Contento
della reazione, Baudelaire congeda con generosità il povero,
definendolo un “suo uguale”.
Come
sempre, il poeta sceglie la via della provocazione per rendere
esplicito un concetto che tanti scelgono di ignorare: più si vessa
il popolo, più lo si porta allo stremo, e più esso, una volta
arrivato all’esasperazione, si ribellerà in modo violento. Questo
è stato il principio della Rivoluzione Francese ed il poeta non
esclude che possa succedere di nuovo.
I
BUONI CANI
“Indietro,
o Musa Accademica! Non so che farmene di questa vecchia pudica. Io
invoco la musa familiare, la cittadina, quella vitale, perché mi
aiuti a cantare dei cani buoni, i poveri cani, i cani infangati,
quelli che ognuno scarta, perché pestiferi e portatori di malattie,
ad eccezione del povero, al quale essi sono associati, ed il poeta,
che li guarda con occhio fraterno.”
Nell’ultimo
poema prima dell’epilogo, Baudelaire pone ancora una volta
l’accento sulla sua poetica, mettendo in luce la sua musa
ispiratrice, le sue tematiche preferite e soprattutto il suo
pubblico.
I
“buoni cani” di cui egli parla sono, fuor di metafora, i liberi
pensatori, spesso esclusi dalla società per le loro scelte di vita,
considerati degli outsider e ignorati dalla maggior parte
delle persone.
Il
poeta si identifica con il cane randagio ed infangato perché
assomiglia molto più ad uno di essi che agli esemplari addomesticati
e ben pettinati che abitano i salotti dei potenti.
In questo senso,
non manca un’allusione (neanche troppo velata) a quei poeti
mediocri che invece hanno scelto di comporre versi su ordinazione per
il piacere delle classi sociali più abbienti. La vera arte e la
letteratura autentica sono libere, proprio come un cane vagabondo.
EPILOGO
“Con
il cuore contento, sono salito sulla montagna
da
dove si può contemplare la città nella sua ampiezza…
...che
tu dorma ancora nei drappi del mattino,
sporca,
scura, bagnata, o che ti pavoneggi
nei
veli della sera intessuti d’oro fino,
io
ti amo, o capitale infame!”
La
chiusura di quest’opera è affidata all’unico piccolo poema in
versi e non in prosa. In esso Baudelaire dichiara il suo amore per
Parigi e rivela al lettore che proprio la sua città è stato il
motore che lo ha spinto a scrivere quest’opera e che lo ha ispirato
ogni giorno (un po’ come ne "I Fiori del Male").
Parigi
viene personificata e vista come una donna che, nelle ore che
separano la notte dall’alba, forse sta dormendo, o forse sta ancora
festeggiando. Questa città è una sola ma riesce ad avere, nello
stesso tempo, moltissimi volti, e, con ogni probabilità, è quello
che la rende ancora affascinante ai nostri giorni.
Con
quest’ultima opera si conclude il nostro percorso alla scoperta dei
Piccoli poemi in prosa. Come ormai sicuramente avrete capito,
il mio amore per questa raccolta, così come quello per Baudelaire e
per I fiori del male, è davvero grande, e questo blog non
sarebbe stato veramente “il mio” se a questo poeta avessi
dedicato soltanto un post.
Spero
con tutto il cuore che questo mio progetto abbia fatto nascere dei
nuovi “fan”!
Vi
lascio il link dei post precedenti, ognuno dei quali ha esplorato un
tema diverso:
Ringrazio
moltissimo tutti voi che avete letto, seguito e commentato questo mio
progetto.
Vi ricordo anche che ho avviato da poco un nuovo progetto letterario per la rubrica "L'angolo della poesia", dedicato ai poeti lirici greci! Trovate il primo post a questo link.
Grazie
ancora di tutto, al prossimo post :-)
Nessun commento :
Posta un commento