lunedì 14 ottobre 2019

L'EPILOGO DI UNA LUNGA STORIA

I PICCOLI POEMI IN PROSA  #7




Cari lettori,
per la nostra rubrica “Il momento dei classici”, eccoci arrivati all’ultimo appuntamento con I piccoli poemi in prosa!

Gli ultimi sei poemetti sono, di fatto, l’epilogo della storia che Baudelaire ha deciso di raccontarci. Tra poeti mediocri e muse d’ispirazione, poveri di Parigi e donne perdute, amore per la sua città e voglia di fuggire, il poeta ripropone tutte le tematiche principali dell’opera e propone una riflessione conclusiva.
Vediamola insieme!



PERDITA DELL’AUREOLA



...ma come? Voi qui, mio caro? Voi, in un postaccio simile! Voi, il bevitore di quintessenze! Voi, il mangiatore d’ambrosia! In verità, c’è da sorprendersi.”


Il protagonista di questo piccolo poema è un angelo del Paradiso, che viene riconosciuto da un misterioso interlocutore (forse un benefattore o un santo).

L’uomo è esterrefatto nel riconoscere l’angelo e si chiede che cosa ci faccia in uno dei luoghi più poveri e malfamati della città. Quest’ultimo afferma che, mentre saltava tra i cavalli, le carrozze ed i fossi, la sua aureola è caduta nel fango, in una posizione in cui tentare di riprenderla sarebbe equivalso a rompersi le ossa da solo.

Dopo un primo momento di stupore, l’ormai ex angelo si è ritenuto sollevato, perché non è più tenuto ad essere, per l’appunto, angelico, ma è improvvisamente libero di compiere tutte le azioni che i mortali ritengono più divertenti, dal banchettare al passeggiare in incognito.


Oltre al tema dell’uomo che perde la sua “innocenza” per essere iniziato ai piaceri della vita, Baudelaire non si esime dal lanciare una frecciatina a qualche collega poco amato. Egli, infatti, immagina che sarà qualche poeta a trovare l’aureola dell’angelo caduto e ad indossarla, in una sorta di auto-incensazione che a tutti parrà soltanto un grande atto di stupidità.



SIGNORINA BISTURI



Mentre stavo arrivando all’estremità del viale sotto le luci a gas, ho sentito un braccio che si infilava dolcemente sotto il mio, ed ho sentito una voce che mi diceva all’orecchio: voi siete medico, signore?”


Nel corso di quella che sembra una serata qualunque, il poeta sta ultimando la sua passeggiata sotto le lampade a gas di un viale, quando all’improvviso una signora non più giovanissima, ma di bell’aspetto e molto curata, lo ferma per strada e gli chiede con insistenza se è medico.

Egli, ovviamente, cerca di ripetere più e più volte alla donna che è tutto tranne che un chirurgo, ma ella, ritenendo che il poeta abbia comunque “l’aspetto ed i modi” di un medico, lo invita a casa sua, dove gli offre del vino e lo fa accomodare nel suo salotto.

È lì che la signora gli svela la sua insana passione: ella, infatti, è solita invitare a casa sua uomini che svolgono la professione di medico, farsi raccontare le loro esperienze in sala operatoria e collezionare le sue fotografie.

In alcuni casi, ella si è spinta addirittura in ospedale per vedere all’opera alcuni dei praticanti più giovani, magari con il camice ancora sporco di sangue.


L’incontro con questa donna dai gusti così particolari fa nascere nel poeta una riflessione incentrata su quali e quanti tipi di follia ci siano al mondo. La signora, infatti, ad una prima occhiata potrebbe sembrare una persona senza alcuna stranezza, anzi, molto distinta. 

Perfino agli occhi di una persona come Baudelaire, che ha ceduto più volte al vizio ed alle piccole e grandi follie, alcune perversioni rimangono dei veri misteri.



NON IMPORTA DOVE, MA FUORI DAL MONDO



Questa vita è un ospedale dove ogni malato è posseduto dal desiderio di cambiare letto. Uno vorrebbe soffrire di fronte alla stufa, e l’altro crede che guarirà accanto alla finestra. A me sembra sempre che starei bene là dove non sono, e questo problema di deragliamento spirituale è una questione che discuto senza mai smettere con la mia anima…”


Il poeta affronta una delle problematiche più comuni dell’essere umano: ognuno di noi, infatti, vorrebbe sempre ciò che non ha senza guardare a ciò che già ha, oppure vorrebbe essere in un altro luogo rispetto a dov’è, o cambiare costantemente qualcosa della sua vita, senza mai un attimo di tregua.


Baudelaire, in un soliloquio con la sua anima personificata, pensa di proporle alcuni luoghi dove forse starebbe meglio. Egli inizia proponendo luoghi suggestivi, come Lisbona o Rotterdam, ma la sua anima resta silenziosa.

Egli allora immagina che in essa qualcosa sia morto, e quindi le suggerisce dei luoghi che richiamano l’idea stessa della morte, fino ad arrivare al Polo Nord ed all’estrema solitudine.


La risposta della sua anima, rabbiosa ed esasperata, è ancora più angosciante: ella, infatti, vorrebbe andare ovunque, purché al di fuori di questo mondo.



AGGREDIAMO I POVERI!



Avevo dunque digerito – voglio dire, inghiottito – tutte le elucubrazioni di quegli imprenditori del buonumore pubblico, di quelli che consigliano tutti i poveri di diventare schiavi, e di quelli che li persuadono che sono tutti dei re senza più trono. Non si troverà dunque sorprendente, allora, che io fossi in uno stato d’animo che si avvicinava alla vertigine o alla stupidità.”


Questo piccolo poema è l’ultimo in cui Baudelaire sceglie di fare della satira nei confronti di Parigi e della società. Egli inizia a raccontare di una sorta di suo “ritiro spirituale”: per giorni interi si è chiuso in casa per leggere alcuni trattati di sociologia e di politica che ben spiegavano alcune teorie che per un breve periodo lo avevano affascinato.

Giunto alla fine della sua lettura, però, egli ha la sensazione che si tratti di un cumulo di idiozie. In particolare, trova ingiusta l’idea che le classi più povere si debbano “rassegnare” ad essere comandate dai più abbienti, perché il fatto stesso che versino in una situazione di povertà, secondo queste teorie politiche, indica la loro incapacità di stare al mondo rispetto a chi è più abbiente.

Com’è facile immaginare, Baudelaire ha visto fin troppi poveri inventarsi qualunque cosa pur di sopravvivere ed ha conosciuto tantissimi ricchi del tutto viziati, indolenti e fuori dalla realtà. Per questo motivo, egli decide di fare un “esperimento sociale”. 


Uscendo di casa, infatti, egli incontra un povero che gli chiede l’elemosina e, con uno stupido pretesto, lo aggredisce. Quest’ultimo, abituato alla sopraffazione, all’inizio subisce inerme, ma poi reagisce, riuscendo addirittura a provocare al poeta un occhio nero. Contento della reazione, Baudelaire congeda con generosità il povero, definendolo un “suo uguale”.


Come sempre, il poeta sceglie la via della provocazione per rendere esplicito un concetto che tanti scelgono di ignorare: più si vessa il popolo, più lo si porta allo stremo, e più esso, una volta arrivato all’esasperazione, si ribellerà in modo violento. Questo è stato il principio della Rivoluzione Francese ed il poeta non esclude che possa succedere di nuovo.



I BUONI CANI



Indietro, o Musa Accademica! Non so che farmene di questa vecchia pudica. Io invoco la musa familiare, la cittadina, quella vitale, perché mi aiuti a cantare dei cani buoni, i poveri cani, i cani infangati, quelli che ognuno scarta, perché pestiferi e portatori di malattie, ad eccezione del povero, al quale essi sono associati, ed il poeta, che li guarda con occhio fraterno.”


Nell’ultimo poema prima dell’epilogo, Baudelaire pone ancora una volta l’accento sulla sua poetica, mettendo in luce la sua musa ispiratrice, le sue tematiche preferite e soprattutto il suo pubblico.


I “buoni cani” di cui egli parla sono, fuor di metafora, i liberi pensatori, spesso esclusi dalla società per le loro scelte di vita, considerati degli outsider e ignorati dalla maggior parte delle persone.

Il poeta si identifica con il cane randagio ed infangato perché assomiglia molto più ad uno di essi che agli esemplari addomesticati e ben pettinati che abitano i salotti dei potenti. 

In questo senso, non manca un’allusione (neanche troppo velata) a quei poeti mediocri che invece hanno scelto di comporre versi su ordinazione per il piacere delle classi sociali più abbienti. La vera arte e la letteratura autentica sono libere, proprio come un cane vagabondo.



EPILOGO



Con il cuore contento, sono salito sulla montagna
da dove si può contemplare la città nella sua ampiezza…
...che tu dorma ancora nei drappi del mattino,
sporca, scura, bagnata, o che ti pavoneggi
nei veli della sera intessuti d’oro fino,
io ti amo, o capitale infame!”


La chiusura di quest’opera è affidata all’unico piccolo poema in versi e non in prosa. In esso Baudelaire dichiara il suo amore per Parigi e rivela al lettore che proprio la sua città è stato il motore che lo ha spinto a scrivere quest’opera e che lo ha ispirato ogni giorno (un po’ come ne "I Fiori del Male").

Parigi viene personificata e vista come una donna che, nelle ore che separano la notte dall’alba, forse sta dormendo, o forse sta ancora festeggiando. Questa città è una sola ma riesce ad avere, nello stesso tempo, moltissimi volti, e, con ogni probabilità, è quello che la rende ancora affascinante ai nostri giorni.




Con quest’ultima opera si conclude il nostro percorso alla scoperta dei Piccoli poemi in prosa. Come ormai sicuramente avrete capito, il mio amore per questa raccolta, così come quello per Baudelaire e per I fiori del male, è davvero grande, e questo blog non sarebbe stato veramente “il mio” se a questo poeta avessi dedicato soltanto un post.
Spero con tutto il cuore che questo mio progetto abbia fatto nascere dei nuovi “fan”!



Vi lascio il link dei post precedenti, ognuno dei quali ha esplorato un tema diverso:









Ringrazio moltissimo tutti voi che avete letto, seguito e commentato questo mio progetto. 

Vi ricordo anche che ho avviato da poco un nuovo progetto letterario per la rubrica "L'angolo della poesia", dedicato ai poeti lirici greci! Trovate il primo post a questo link.

Grazie ancora di tutto, al prossimo post :-)

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