lunedì 31 maggio 2021

I PREFERITI DI MAGGIO 2021

 Tutto quello che mi è piaciuto in questo mese




Cari lettori,

eccoci arrivati all’ultimissimo giorno di maggio!

Questo mese è stato intensissimo per me, ma ancora pochi giorni e potrò finalmente rallentare i ritmi. Ormai intravedo un’estate che spero sarà di relax e svago per tutti, e quindi, anche se la stanchezza è tanta, l’ottimismo mi sostiene.

Nel frattempo, ricapitoliamo insieme tutto quello che mi è piaciuto in queste settimane, dai libri ai film, dalla musica alla poesia!



Il libro del mese


Sono davvero contenta di parlarvi nuovamente di un’autrice alla quale ritorno sempre con grande piacere: Federica Bosco. Il mio romanzo del mese è Non perdiamoci di vista, una delle sue uscite più recenti.


La protagonista di questa storia, che sarebbe troppo semplicistico definire “rosa”, è Benedetta, una fisioterapista di quarantasette anni che vive a Mantova. Benedetta è un’ottima professionista e l’affettuosa madre divorziata di un’adolescente e un preadolescente, Vittoria e Francesco. Da quando era al liceo ha sempre frequentato la medesima compagnia di amici, che non si è mai persa di vista e, all’alba del quarantasettesimo anno di età, si è ritrovata per l’ennesima volta a festeggiare Capodanno a casa del più ricco e viveur di loro, Andrea, con seguito di consorti, figli, nuovi/e compagni/e post divorzio.


Benedetta, tuttavia, non riesce ad essere spensierata. Da qualche mese, grazie ai social, ha ritrovato il suo primo grande amore dei tempi dell’Università, Niccolò, che ai tempi l’aveva lasciata malamente trasferendosi a studiare a Londra e dimenticandosi della “provinciale” Mantova e di tutto quello che la riguardava. Niccolò, proprio come lei, è divorziato ed esausto a causa delle troppe incombenze lavorative e delle difficoltà che la vita adulta porta inevitabilmente con sé. Chattando con lui, Benedetta si isola da una quotidianità davvero pesante, tra un ex marito soggiogato dalla nuova compagna e sempre più assente nella gestione dei figli, la sua primogenita Vittoria che è in piena fase di ribellione, il suo “piccolo” Francesco che è timido e mangia troppo, una madre che sembra più che altro un generale in pensione che non ha mai smesso di dare ordini.


Benedetta ed i suoi storici amici sono ancora in cerca del loro “sabato sera indimenticabile”, come facevano negli anni ‘80, quando sopportavano tutta una settimana di scuola per poi ritrovarsi dalle nove a mezzanotte in uno scantinato dei loro genitori a non fare assolutamente nulla di speciale, se non bere, ascoltare la musica del tempo e chiacchierare di ciò che era successo a scuola, di nuovo.

Per Benedetta il “sabato sera dei sogni” è l’incontro con Niccolò, che, giorno dopo giorno, riaccende la fiamma del loro vecchio amore promettendo un ritorno a Mantova, forse per liberarsi finalmente dal giogo del padre imprenditore e tiranno… forse, stavolta, per sempre.


Mentre, però, la tanto sospirata “svolta che cambierà la vita” si fa attendere, la vita reale subisce dei bruschi scossoni… e degli inaspettati assestamenti. Grazie alla sua forza d’animo ed al suo coraggio, Benedetta si renderà conto che la sua vita adulta, per quanto imperfetta, non è tutta da buttare, non è poi quel mostro da cui fuggire e basta. E, al di là dei sogni che si continuano tenacemente ad inseguire, ciò che fa davvero la differenza è la realtà.



Non perdiamoci di vista è un romanzo che mi ha toccato profondamente perché nella mia mente è stato una sorta di personale “E se…?” Come credo quasi tutti noi, anche io, gli ultimi anni di liceo ed i primi dell’Università, ho condiviso la mia quotidianità con grandi compagnie legate al paese. Anche io ho provato l’attesa per i “grandi sabati sera”, che andavano proprio come quelli descritti nel romanzo, o addirittura per certe vacanze. Poi però… si cresce, si cambia, e si scopre che certe dinamiche che regolano quei gruppi sono ancora piuttosto adolescenziali, e quando qualcosa, in te, ti spinge a diventare davvero adulta, non ne sopporti più neanche mezza, e prediligi poche amicizie ma buone, basate su un sincero interesse, su una vera condivisione.


I protagonisti di Non perdiamoci di vista, invece, hanno fatto una scelta diametralmente opposta alla mia: sono rimasti amici non solo come giovani adulti, ma anche in età matura. Solo che “amici” è davvero una parola grossa. 

Federica Bosco è stata molto lucida nel delineare il ritratto di questi quarantacinque-cinquantenni che non hanno affrontato le difficoltà socio economiche dei loro genitori, ma neppure quelle delle generazioni successive (tipo la mia), schiaffeggiate dalla crisi un minuto dopo la laurea. Essi sono diventati “adulti” sulla carta, senza particolari difficoltà nell’inserirsi nel mondo del lavoro e nel diventare indipendenti, ma hanno finito per fare scelte di comodo, come sposare l’unico rimasto single della storica compagnia… o continuare a vedere i medesimi amici dopo decenni, anche se quello che li lega è solo un’infinita sequela di “Ti ricordi che...” e “Come si stava meglio quando...”. In realtà, la compagnia di Benedetta è un gruppo di bambinoni che non esita a tagliarsi i panni addosso quando qualcuno è assente, proprio come si faceva ai tempi delle superiori, e, tra uomini maturi che escono solo con ventenni perché sono milionari e fanno i finti giovani, donne fragili che continuano a scegliere il compagno sbagliato (e sposato) pur di non restare sole, pessimisti cronici che si piangono addosso invece di guardare a tutto quello che hanno, professioniste di bell’aspetto che si rifugiano nella chirurgia e nell’alcool, ognuno ha i suoi problemi.


Paradossalmente, Benedetta imparerà molto dai suoi figli adolescenti e dai loro più cari amici: una generazione precarissima, erede di tante crisi economiche ed esistenziali, sempre connessa e del tutto priva di “sacro timore” per l’autorità, ma in grado di prendere la realtà per quello che è ed accettarla, molto più dei propri genitori.


Un romanzo davvero profondo e ricco di riflessioni, come già altri dell’autrice, con uno stile scorrevole ed ironico come sempre. Ve lo consiglio di cuore!



Il film del mese


Il protagonista di questa storia ambientata a New York nel 1962 è un italo americano di mezza età, Tony Vallelonga, detto “Lip” perché con la sua abilità nel parlare riesce sempre a risolvere le situazioni difficili. Egli lavora come buttafuori nel club di New York Copacabana, ma quando il locale chiude per una ristrutturazione che durerà mesi ha assoluto bisogno di un lavoretto temporaneo per mantenere la sua famiglia.


Dal momento che Tony è anche abile come autista, viene raccomandato per un lavoro on the road: egli dovrà accompagnare il pianista afroamericano Don Shirley in tour negli Stati Uniti del Sud, dove ci sono ancora molti problemi di segregazione razziale. All’inizio i due non si piacciono moltissimo, non solo per i pregiudizi che hanno l’uno nei confronti dell’altro, ma anche perché sono proprio due uomini diversi: tanto Tony è spontaneo, un po’ grezzo, alla buona ed estroverso, tanto Don è colto e raffinato, ma anche chiuso in se stesso.


Nonostante le premesse non proprio favorevoli, i due decidono di fare un tentativo e di provare a sopportarsi, ed il loro viaggio ha inizio.


Tony, che ha sempre vissuto nella democratica New York e non ha mai avuto problemi nella vasta comunità italo americana di cui fa parte, ben presto si rende conto del modo paradossale in cui Don Shirley viene trattato: finché è sul palcoscenico, egli è un divo stimato ed ammirato, ma appena scende, nessuno gli parla e le autorità lo costringono a pernottare negli hotel “per neri”, dove, solo ed impaurito dai possibili rischi, egli passa le serate con una bottiglia di vodka.


Oltre che autista, Tony finisce per essere una sorta di tuttofare per il suo capo: lo salva da situazioni che rischiano di diventare pericolose, facendo sfoggio della sua faccia tosta e della sua parlantina, e raccoglie da lui delle inaspettate confessioni. Don, a sua volta, inizia a vedere il lato migliore del suo compagno di viaggio, come, per esempio, il fatto che sia un marito innamorato ed un buon padre di famiglia, e, giorno dopo giorno, abbandona il suo atteggiamento altezzoso.



Green book è un film che avevo in mente di recuperare da decisamente troppo tempo, e finalmente in questo mese ci sono riuscita. Devo dire che è stato all’altezza delle mie aspettative: una pellicola tratta da una storia vera, che ha raccontato senza molta retorica e senza luoghi comuni la nascita di una sincera amicizia tra due uomini tutt’altro che perfetti e profondamente umani. È un film che tratta tematiche serie, ma, al contempo, è davvero godibile, anche in quelle sere in cui si pensa: “Non ho voglia di guardare qualcosa di pesante o di triste”. Ci sono scene divertenti, il tono resta in bilico tra dramma e commedia senza mai sbilanciarsi troppo, e sono certa che l’evoluzione dei personaggi vi sorprenderà.


So che è un film che forse molti di voi conoscono già… nel dubbio, però, non posso far altro che consigliarvelo!



La musica del mese


Come saggiamente canta Cesare Cremonini in Maggese, “Per qualcuno la prima rosa di maggio è una scoperta...”


Concludiamo il nostro ciclo musicale primaverile, dopo aver parlato di arrivo della primavera in marzo e di farfalle in aprile, oggi ho pensato di proporvi tre brani il cui simbolo, secondo me, potrebbe essere benissimo una rosa rossa.



Per quanto riguarda la musica classica, vi consiglio una delle più celebri arie dell’opera lirica (il pm Manrico Spinori, nato dalla penna di Giancarlo De Cataldo, approverebbe): L’amour est un oiseau rebelle , uno dei brani più famosi della Carmen. Ricordo quando, nel 2007, ne abbiamo messo in scena un piccolo medley con la scuola di danza (una vita fa ormai! Sarebbe ora di riproporla, quando finalmente riusciremo a tornare sul palco…) Io ero una delle “amiche”, mentre una mia compagna, che interpretava proprio Carmen, si è esibita con questo brano come sua variazione, tenendo in mano una rosa rossa. La protagonista è un personaggio passionale, quindi mi è parso appropriato! Allego anche una mia foto di quell'anno, con tanto di rosa (di carta) appuntata ai capelli. Trovate il brano a questo link (interpretazione della Callas).




Proseguendo sull’ondata dei ricordi legati alla scuola di danza, una delle mie variazioni a cui sarò sempre legata è il Tango di Mad Manoush (che trovate qui). L’avevo messa in scena nel 2009, con un po’ di difficoltà nell’interpretare la parte della “donna del mistero/affascinante”, ma con tanto divertimento. Nel 2018, in occasione del 40esimo anno della scuola, l’ho riproposta in una nuova versione un po’ più complicata, con tanto di sfondo su cui campeggiava una rosa rossa. 

Ragazzi, che nostalgia delle esibizioni in questo periodo dell’anno… che dirvi, puntiamo all’anno 2021/2022 e restiamo ottimisti!



Non si parla proprio di rose rosse, bensì di abiti fiammeggianti in Red dress della cantautrice country e attrice Lucy Hale, in duetto con il musicista Joe Nichols, un brano che, secondo me, completa bene la nostra rassegna. 

Lo trovate a questo link e vi lascio qua sotto un estratto del testo:


Se chiudo gli occhi e immagino che tu sia qui

passerà un po’ di tempo prima che tu sparisca

quindi chiudo i miei occhi, perché l’unica cosa che temo

è svegliarmi un giorno, dimenticando che tu sia mai stato qua


Cara, sei tu, mi ricordo, con il tuo vestito rosso

ballando alla luce della luna fino all’arrivo dell’alba

sei tu, mi ricordo, che danzavi con il tuo vestito rosso


e caro, sei tu, mi ricordo, quando sento quella canzone

che cantavi il ritornello finché la tua voce era sparita

sei tu, lo ricordo, ogni volta che sento quella canzone



La poesia del mese


Per il mese di maggio e per la Festa della Mamma ho pensato di proporvi una poesia che non smette di commuovermi: Preghiera di Giorgio Caproni, scritta in ricordo di sua madre Anna Picchi.


Anima mia

va’ a Livorno, ti prego.

E con la tua candela

timida, di nottetempo

fa’ un giro; e, se ne hai il tempo,

perlustra e scruta, e scrivi

se per caso Anna Picchi

è ancora viva tra i vivi.

Proprio quest’oggi torno,

deluso, da Livorno.

Ma tu, tanto più netta

di me, la camicetta

ricorderai, e il rubino

di sangue, sul serpentino

d’oro che lei portava

sul petto, dove si appannava.

Anima mia, sii brava

e va’ in cerca di lei.

Tu sai cosa darei

se la incontrassi per strada.



Le foto del mese


Come ogni anno a maggio, non potevo non immortalare la macchia di iris nel giardino di casa di mamma e papà!



...è il momento delle fragole! Quelle dell’orto non saranno le più belle del mondo, ma per me sono sicuramente le più buone!



Lo scorso weekend mi sono occupata un po’ delle mie “nipotine pelose”, Dora e Panna… che, come vedete, stanno benissimo e mangiano alla grande!



Questa foto non ha niente di speciale, lo so. Sono io che proietto la mia ombra sul selciato del parco del paese. Però per me significa tanto, perché ne avevo scattata una simile il 30 dicembre (la trovate qui sotto), in un giorno molto speciale . Come tanti di voi sapranno, in questi anni ho lavorato principalmente come supplente, ma, avendo studiato Lettere, ho avuto a che fare soprattutto con i più grandi, e per materie umanistiche. 

Quest’anno, per tanti motivi che hanno a che fare soprattutto con la pandemia e con la precarietà, avevo accettato, da ottobre a Natale, di lavorare nella scuola dell’infanzia del mio paese, facendo un lavoro molto diverso dal mio solito. Già questa esperienza mi aveva insegnato molto, soprattutto perché mi avevano assegnato un ruolo di potenziamento un po’ “jolly”, e, quando sono arrivate le vacanze di Natale, ero convinta che prima o poi sarei ritornata alla mia comfort zone lavorativa. All’improvviso, invece, proprio in quel 30 dicembre, ho ricevuto una telefonata in cui mi si proponeva un passaggio da infanzia a primaria, sempre in un ruolo di potenziamento e supporto, fino all’ultimo giorno di scuola. Ho ancora ben  presente quella passeggiata, a meno di 48 ore dall’inizio di un 2021 che già si presentava come una grande sfida. Ricordo che ero molto agitata: se alla scuola dell’infanzia avevo già avuto ormai un paio di brevi esperienze (una recentissima ed una nel 2015), la primaria era un mondo completamente sconosciuto per me, soprattutto come organizzazione del lavoro e metodologie didattiche.


Dal 7 gennaio ad oggi, come direbbe il buon Renzo Tramaglino, ho imparato tantissimo: ho fatto moltissime sostituzioni, ho dato supporto agli altri docenti apprendendo un nuovo tipo di insegnamento, ho lavorato con piccoli e grandi, ho insegnato in classe tutte le materie, persino quelle scientifiche (e sinceramente non credevo che avrei mai visto questo giorno), ho accompagnato una quinta al "traguardo" di fine ciclo (e ormai ci siamo quasi) e mi sono messa in gioco anche nel sostegno.


Non è stato facile, anzi, è stato spesso impegnativo e complicato. Ma l’altro giorno sono tornata al parco cittadino dopo qualche settimana che non ci passavo e vedere un’esplosione di verde mi ha fatto ripensare a quando tutto era innevato ed io ero piena di dubbi. Ed allora non ho avuto più voglia di pensare alle ultime incombenze scolastiche ed alla stanchezza che mi porto dietro da ormai qualche settimana, e mi sono concentrata soltanto su ciò che, alla fine, conta davvero: quanto tempo effettivamente è passato, quanto impegno ci ho messo, quanto questa esperienza mi ha davvero cambiato… e in meglio.


Una durissima palestra, quest’anno, anche per via della pandemia, della quasi totale assenza di svaghi, della difficoltà nel vedere le persone care. Ma, come direbbe la mia amata Taylor Swift, ormai mancano otto giorni e non dire che sei troppo stanca per combattere, è solo una questione di tempo, laggiù c’è la linea del Finish, quindi corri, e corri, e corri.






Ecco il mio maggio “in breve”!

Per il mese di giugno ho in cantiere una sorpresa, un piccolo progetto al quale finora non mi ero mai dedicata. Non so che cosa ne verrà fuori, un po’ perché si tratta di qualcosa di nuovo e un po’ perché, come vi ho detto, sono piuttosto stanca. Però proviamoci…! Personalmente adoro questo periodo dell’anno a cavallo tra primavera ed estate, e spero tanto che la bella stagione porterà buone notizie a tutti noi.

Nel frattempo vi ringrazio tutti per l’interesse che continuate a dimostrarmi!

Grazie per la lettura, ci leggiamo in giugno :-)


giovedì 27 maggio 2021

STORIA DI UNA "PICCININA"

 Storytelling Chronicles: maggio 2021




Cari lettori,

bentornati all’appuntamento mensile con la rubrica di scrittura creativa “Storytelling Chronicles”!


Per il mese di maggio Lara ci ha proposto una sorta di “ripescaggio” tra le tematiche scartate nei mesi precedenti, ovvero:

1) L’incubo;

2) Protagonista adatto alla notte del 31 ottobre;

3) Ambientazione temporale alla Halloween style;

4) Montagna;

5) Terza persona di narrazione;

6) Immagine di una panchina in un parco di notte;

7) La donna;

8) Una storia d’amore appena finita.


La scelta, questo mese, era davvero ampia, e forse per questo motivo ci ho messo un po’ più del solito a scegliere. Dopo qualche riflessione, ho pensato di optare per l’opzione 7, “La donna”. Quella che vi propongo lei è una storia tutta al femminile, dedicata ad un mestiere che di fatto non esiste più e alla città di Milano, che quest’anno, mentre eravamo tutti chiusi nei nostri comuni, mi è mancata più che mai.


Vi lascio a Storia di una piccinina... buona lettura!




STORIA DI UNA PICCININA


Arrivata con la corriera a San Babila, mi incammino in fretta verso Corso Vittorio Emanuele. Sono partita presto dal mio paese, Trezzo d’Adda, come tutte le mattine, per essere a Milano di buon’ora ed arrivare puntuale al mio lavoro in sartoria. Mi chiamo Nida. Lo so, forse il nome vi sembrerà strano. Mia madre lo ha letto in un libro e lo ha trovato così bello e particolare che ha deciso di darmelo. Nessuno si chiama come me, ma mi piace avere un nome breve e semplice. Sono una piccinina, un’apprendista di sartoria: ho solo 14 anni e ci vorrà del tempo prima che io diventi una sarta a tutti gli effetti, ma il lavoro mi piace, mi appassiona. A Trezzo ho frequentato la scuola di avviamento professionale e poi ho deciso di imparare un mestiere a Milano.


Mi piace la città, anche se torno volentieri a casa, sulle rive dell’Adda, che in questo luglio caldissimo dà un po’ di frescura.

Fa davvero caldo, Milano mi accoglie con una cappa di afa. Quando ho iniziato il mio incarico come piccinina, qualche mese fa, c’era una tiepida primavera: ricordo ancora il mio stupore nel vedere gli alberi di magnolia dietro il Duomo, i boccioli rosa che spuntavano a poco a poco, i fiori che si aprivano lentamente. Ne trovavo qualcuno in più ogni mattina, prendevo in mano qualche petalo che cadeva a terra e mi stupivo che persino nella grande città, nella grigia Milano, potesse esserci una meravigliosa esplosione di rosa. Adesso, invece, gli alberi che fiancheggiano i viali del centro sono ampi e frondosi, e, anche se è mattina presto, cerco di stare il più possibile alla loro ombra. Il sole è già alto e non vorrei avere un capogiro, anche perché so che cosa mi aspetterà in questa giornata di lavoro.


Mi piacerebbe potervi dire che in sartoria sono utile con la mia abilità nel cucito e nel ricamo (ho imparato da mia nonna e già a sette anni facevo dei bei quadretti a punto croce!), ma la verità è che di solito servo di più per un altro genere di compiti. Passo la maggior parte della mia giornata girando Milano per le commissioni che mi vengono affidate: cammino di buon passo, porto nella mia cesta piatta rivestita di tela gli abiti che devo consegnare a domicilio, ritiro tutti i vestiti che hanno bisogno di un intervento in sartoria. Persino durante quelle poche ore che passo nell’atelier difficilmente resto seduta: raccolgo spilli, riordino, pulisco, prendo piccoli pezzetti di stoffa che dovrebbero essere buttati e do loro una nuova vita, facendone nastri per i capelli o fiocchetti per le scarpe. “Rubando con l’occhio” il mestiere, sto imparando molto più di quello che avrei creduto quando mi hanno assunta. La padrona della sartoria qualche giorno fa mi ha detto che fra poco comincerò a dare i punti molli dell’imbastitura alla stoffa tagliata, e poi, se sarò brava e diligente, inizierò con gli orli. Per me non è proprio una novità: con mia nonna ho già fatto più volte lavori simili a questo, e qualche volta sono passata anche ai punti sottili della cucitura, ma questa è l’occasione più importante che mi è capitata finora e non voglio deludere nessuno.


* * *


È un buon momento per lavorare: la guerra è finita da nove anni ormai e i milanesi, soprattutto quelli ricchi con una posizione importante, hanno tanta voglia di riprendere a vivere e di divertirsi. Non ricordo quasi niente del conflitto: sono nata nel 1940 ed ero tanto piccola. Ogni volta che i miei genitori ed i miei nonni parlano degli anni della guerra, quando siamo a tavola insieme, tutto quello che mi viene in mente sono immagini confuse: ricordo la fame, tanta fame, e poi le urla e i pianti dei miei fratellini. Più di tutto, mi torna in mente la sensazione di paura quando sentivo mia madre afferrarmi per la vita e portarmi via da casa correndo. Quelle volte sapevo che saremmo finiti tutti, io, mamma, papà, la nonna e i miei fratelli, in un buio sotterraneo insieme a tante altre persone del paese, anche sconosciute, per ore… e allora piangevo anch’io.


Dopo il ‘45 le cose sono migliorate, o almeno così mi è sembrato. Per tanti anni abbiamo dovuto dividere un piccolo cotechino in sei, la domenica, come unica porzione di carne della settimana; io ed i miei fratelli abbiamo fatto per anni un chilometro all’andata ed uno al ritorno pur di finire le elementari, perché non c’erano soldi nemmeno per una bicicletta da usare a turno in tre; ho dovuto imparare a cucire i miei vestitini insieme alla nonna, perché riuscivamo a racimolare pochi spiccioli per delle stoffe (o mettevamo insieme i ritagli), ma non potevamo permetterci niente di più di due vestiti buoni per la Messa, uno per me ed uno per mamma. Sono stati anni duri, ma i terribili notiziari alla radio, la paura di girare per strada, i colpi di fucile, i bombardamenti ora sono alle spalle, e questo è l’importante.


Da un paio d’anni abbiamo iniziato a poterci permettere qualcosa di più: i miei fratelli, che non sono stati bravi a scuola come me, hanno iniziato a lavorare nei campi come mio padre, ed anche io, da qualche mese, do il mio contributo con l’apprendistato in sartoria. Venendo a Milano, però, mi sono resa conto che, se in campagna la situazione è solo un po’ migliore di qualche tempo fa, in città il mondo è cambiato molto rapidamente nel giro di pochi anni: a sentire le signore dell’alta società dalle quali porto gli abiti, si direbbe che nessuna preoccupazione le sconvolga.


Mi piace moltissimo portare gli abiti finiti nei loro salotti, essere accolta con piacere, sentire le governanti che esclamano “Signora, è arrivata la piccola Nida!”, gustare un cioccolatino che mi viene sempre offerto, rispondere brevemente in francese (queste sciure(1) dell’alta società vanno matte per questa lingua, meno male che alla scuola di avviamento l’ho imparata un po’!). Qualche anziana nobildonna mi ha persino preso in simpatia: evidentemente mi vedono come troppo ingenua e sciocca, lontana dal loro mondo.


Io però non mi sento così distante da loro. Amo il mio mestiere e il mondo della moda. Quando vado in giro con il mio cestino, adoro osservare le signore eleganti che passeggiano a coppie ed i loro vestiti. Le gonne ampie, i fiocchi, i pois, i colori accesi, lo stile marinaro… soprattutto ora che è arrivata l’estate, sembra che sia iniziato davvero un nuovo mondo e che la povertà e tutti i sacrifici siano alle spalle. Mi sento lontana mille miglia dagli abiti lunghi e scuri che ancora indossano le contadine a Trezzo.


* * *


Appena arrivata in sartoria, mi rendo conto che l’atmosfera è diversa dal solito. Prima delle otto e trenta, oltre alla titolare ci siamo solo noi piccinine, per le prime consegne: stamattina, invece, non appena entro, vedo un paio di sarte, le più strette collaboratrici della proprietaria, già chine su quello che sembra un catalogo.

Girandomi verso il bancone, vedo che anche le commesse, che di solito si preparano con più calma a ricevere i clienti e le loro richieste, sono già in posizione e confabulano animatamente. L’aria sembra elettrica e non servono grandi indagini per capire che c’è una novità che bolle in pentola.

In un angolo scorgo Pina, un’altra delle apprendiste, che sta pulendo per terra con una ramazza. Non appena ella alza gli occhi e incrocia il mio sguardo dubbioso, mi fa segno di avvicinarmi.

Nida! Vieni qua! È successa una cosa bellissima!”

Che cosa? Perché corrono tutte?”

Sembra che un gruppo di signore ci abbia affidato un lavoro grosso! Tanti vestiti… una festa, boh.”

Beh, e allora? È estate. Queste sciure fanno solo feste.”

Sì, ma questa è una festa speciale! È qui dietro al Castello Sforzesco! E ci sarà una premiazione per l’abito su misura più bello!”

Signorine, vogliamo smetterla di parlare e iniziare a lavorare?”

Io e Pina ci voltiamo, improvvisamente ammutolite. Alle nostre spalle è arrivata la signora Brambilla, la titolare della sartoria. Capelli bruni raccolti in un severo chignon, occhiali a mezzaluna, la figura magra infilata in un tailleur scuro, veloce persino sui tacchi, mi ha sempre un po’ intimidito. Io e Pina arrossiamo sotto il suo sguardo severo.

Vedo che la notizia della Rassegna della moda estiva milanese è arrivata anche a voi.”

Sì, signorina Brambilla” ammetto con cautela. Non capisco se voglia sgridarci o alludere a qualcosa.

Si tratta di una serata importante, signorine, e abbiamo solo due settimane di tempo. I responsabili della Rassegna hanno organizzato una sfilata con le giovani signore più in vista della città, che mostreranno le nostre creazioni in una serata al Castello Sforzesco. Hanno voluto noi ed altre due sartorie della città, che saranno nostre concorrenti in questa serata.”

Che bella idea, signora Brambilla!” risponde Pina che, come al solito, fatica a contenere il suo entusiasmo.

Bene, sono lieta di sentirtelo dire” replica lei, con un tono freddo che sembra lasciare qualcosa in sospeso. “Dal momento che tu, Nida e le altre due apprendiste lavorerete con le mie sarte nei prossimi giorni.”

Per qualche secondo io e Pina restiamo in un silenzio attonito. Che cosa dovremmo fare noi con le sarte?

Signora Brambilla, lei si riferisce alle imbastiture ed agli orli?”

Sì” replica lei con decisione. “Ma non solo. Ognuna di voi assisterà una delle mie sarte nel confezionare un vestito. Non perché abbiate fatto grandi progressi, eh. Semplicemente non ho scelta. Dobbiamo riuscire a rifinire tutti gli abiti, se non vogliamo che la prossima volta si rivolgano al Paradiso delle signore”.

Vestiti già confezionati? Oh no! No, no, no! Ci daremo da fare, signora Brambilla! Glielo promettiamo!” è la replica accorata di Pina, che risponde anche per me, tirandomi la manica, incapace di contenere il suo entusiasmo.


Io in verità non sono così contraria all’idea di un vestito già confezionato. Trovo il Paradiso delle Signore un posto un po’ strano, ma affascinante, e qualche volta, prima di prendere la corriera per tornare a casa, mi è capitato di allungare il tragitto e di andare a sbirciare le vetrine. C’è una fantasia di colori incredibile!


Tuttavia continuo a pensare che gli abiti fatti a mano restino il meglio del meglio. E da oggi inizierò a lavorare ad uno tutto mio… insomma, mio, della sarta che assisterò e della signora che lo indosserà. Ma che importa? La mia grande occasione è finalmente arrivata!


* * *


Mi hanno affidato a Tecla, una delle più anziane ed esperte della sartoria. Ci è stato commissionato il colore rosso, uno dei miei preferiti, e da quando l’abbiamo saputo non facciamo altro che guardare incantate le stoffe a nostra disposizione: tinta unita, pois, fiori, righe… è davvero difficile scegliere!

Fosse per me, le userei tutte. Tecla, invece, da qualche minuto soppesa la stoffa a tinta unita strizzando gli occhi con aria critica.

Questa qui è buona” soggiunge infine con convinzione. “Fresca per l’estate, ma non trasparente. Un abito classico fa sempre una bella figura. Usiamo questa.”

Non posso dare torto a Tecla: in effetti con la tinta unita non si sbaglia mai. Però sono un po’ delusa. Ci sono così tante belle fantasie su questo tavolo!

Ma se usassimo qualcosa di più… inaspettato?” chiedo timidamente.

Che cosa vorresti usare tu?” mi risponde lei con aria di scherno. “Vuoi che la nostra cliente faccia fiera(2)?”

No, ma…” osservo nuovamente le stoffe, cercando di concentrarmi. L’idea c’è, lo so, lo sento; è ‘in fondo alla mia testa’, in un angolo dimenticato, che aspetta di essere tirata fuori. E all’improvviso ricordo di aver visto una bella foto nel salotto della sciura dove sono stata ieri mattina.

Che ne dici se proviamo a creare uno spezzato?”

Uno spezzato?” replica Tecla, un po’ pensierosa. “Lo spezzato sta bene alle signore davvero belle. Ci vuole una gran figura, per lo spezzato.”

E che problema c’è, Tecla? Le sciure mica si rompono la schiena come noi. Hanno tutto il tempo per farsi belle.”

Tecla mi fissa torva per qualche secondo ed ho la sensazione che mi voglia strozzare. Poi, senza preavviso, scoppia a ridere. “Io l’ho sempre pensato che hai una bella lingua lunga, Nida” dice tra una risata e l’altra. “E va bene, ci possiamo provare. Ma se roviniamo la cucitura tra i due tessuti vai tu dalla signora Brambilla, chiaro?”



Sono state due settimane di duro lavoro. Io e Tecla abbiamo fatto gli straordinari, imbastito fin quasi al tramonto, fatto e rifatto gli orli, corso per prendere insieme l’ultima corriera (anche lei viene dalla provincia). In tutto questo ci siamo accapigliate come zia e nipote sulle questioni più ridicole, ma alla fine abbiamo quasi sempre trovato un accordo… e sono felice di poter dire che qualche volta ho avuto ragione io. Tecla ha insistito per utilizzare comunque la stoffa a tinta unita per la parte inferiore dello spezzato, e ha provato a darmi carta bianca per scegliere la fantasia con cui cucire la parte superiore, ma quando ha visto quella che avevo in mano… beh, credo che non mi abbia mandato al diavolo solo perché la signora Brambilla avrebbe potuto sentirci imprecare. Ha cercato di farmi cambiare idea (“Le righe verticali fanno la figura più magra” “I pois sono all’ultima moda, non sei mica una giovane moderna tu?”), ma la mattina dopo, entrando in sartoria e vedendo le due stoffe accostate alla prima luce del sole, è stata lei a doversi ricredere.


Ora il nostro abito è sul manichino, pronto per essere impacchettato e consegnato alla signora che lo indosserà domani sera. La parte inferiore è costituita da un’ampia gonna a vita alta, fermata da una cintura ricavata sempre dal tessuto rosso a tinta unita, e lunga fino a poco sotto il ginocchio. Quella superiore è il mio orgoglio: il tessuto bianco a grandi papaveri rossi sembra brillare di luce propria, con lo scollo a barchetta e le maniche a tre quarti. La signora Brambilla si è fermata a lungo a fissarlo, poi si è voltata verso Tecla ed ha commentato seccamente: “Audace. Mandiamolo così com’è.”

La sua reazione mi è sembrata troppo fredda, ma Tecla, accorgendosi della mia preoccupazione, mi ha rassicurato: “Quando fa così, il vestito le piace. Sta su de doss!(3)

Che le piaccia o non le piaccia, la signora Brambilla ha ragione nel definire ‘audace’ il nostro abito. Le altre sarte hanno scelto quasi tutte soluzioni più tradizionali, a tinta unita, oppure si sono lanciate su una sobria fantasia, ma senza spezzare la figura.

Mentre spazzo per terra, do un’occhiata all’abito che ha creato Pina con la sarta a cui è stata affidata. È un vestito color acquamarina, senza maniche, con ampia gonna al ginocchio e una sottile cintura color avorio in vita. Il classico abito che completeresti con un filo di perle ed un paio di scarpe modello Chanel, avorio come la cintura. È magnifico e Pina ha grande talento (anche più di me), ma è un po’ … noioso. Come farebbe la moda a rinnovarsi, se ogni tanto qualcuna di noi non si lanciasse un po’?


* * *


È sabato sera. L’ultima corriera passerà un po’ più tardi del solito, posso fare una breve passeggiata prima di raggiungere la fermata… e so esattamente dove voglio andare.


Il Castello Sforzesco è bellissimo nella calda luce del tardo pomeriggio d’estate. Il caldo non è più così impietoso: sembra quasi che i raggi accarezzino i mattoni, di un color rosso-marrone che ormai noi “milanesi” conosciamo bene. Sì, mi sento un po’ milanese anche io. Trezzo è casa, è la quiete, la famiglia, la vita che conosco a menadito; quando però sono qui a Milano mi sento più grande, più libera, più pronta a credere nella forza dei miei sogni.


Anche se in questo momento posso solo limitarmi ad immaginare che cosa accadrà qui domani sera. Non posso restare qui abbastanza a lungo da vedere il sole tramontare sull’ennesima giornata torrida di luglio. Non posso vedere scattare l’impianto di illuminazione notturno, entrare nel cortile mentre i camerieri stanno allestendo tavoli e pista da ballo per la festa, sentire i musicisti che scaldano i loro strumenti, scorgere le sciure che varcano l’ingresso con i vestiti fatti da noi.

Posso solo vedere il cartello all’ingresso, che recita a chiare lettere e in colori variopinti: “Rassegna della Moda Milanese – Edizione del 1954”. Tutto il resto mi è precluso, perché sono povera, e apprendista, e minorenne, e una ragazza sola, e una piccinina(4) con troppa fantasia. Ma lì dentro, domani sera, ci sarà anche il mio vestito. E questo mi basta. Per ora.


* * *


Lunedì mattina non faccio nemmeno in tempo ad entrare in sartoria… e sono travolta da quella che sembra una mandria impazzita. Ci metto qualche secondo per capire che non sono entrate delle caprette selvagge in atelier, ma che Pina e le altre piccinine come me stanno litigando per strapparsi di mano una pagina di giornale.

Guarda qui, Nida, guarda qui!” mi grida Pina, sventolando la carta stampata sotto il mio naso.

È una pagina del Corriere della sera, appartenente alla sezione “Milano&dintorni”. È occupata da un lungo articolo di “Costume e società” sulla Rassegna della Moda milanese. E al centro della pagina campeggia il vestito che abbiamo creato io e Tecla, indossato da una donna giovane, bionda e bellissima, la miglior “modella per caso” in cui potessimo sperare: la moglie dell’avvocato Colombo.

Per fortuna alla scuola di Avviamento ho imparato anche a leggere in fretta, se no non capirei quello che c’è scritto in didascalia, dal momento che le altre continuano ad agitare il giornale. Sono solo due righe, ma bastano per trafiggermi il cuore. “L’abito vincitore del primo premio, giudicato il migliore per l’originalità dello spezzato e la scelta delle fantasie.”

Il primo premio…” dico con un filo di voce.

Hai visto Nida?!? E a me e Luisa il terzo! Leggi qui: “Il gradino più basso del podio è spettato all’abito color acquamarina indossato dalla signora Fontana, come simbolo elegante e discreto della tradizione...”

L’emozione è davvero troppa. Corro ad abbracciare Pina, con le lacrime che minacciano di far capolino dagli angoli degli occhi.

Continuiamo a chiacchierare ed a non lavorare, signorine” La voce gelida, questa volta, ha una sfumatura di ironia… anzi, se non conoscessi chi l’ha pronunciata, direi proprio di divertimento. La signora Brambilla è appena entrata nella sartoria, seguita a poca distanza da Tecla, che mi guarda un po’ sorniona ma soddisfatta.

La festa improvvisata sembra spegnersi così com’è iniziata. Siamo tutte in attesa di sapere se la padrona ha saputo di ieri sera e che cosa ne pensa.

Lo sguardo della signora Brambilla sembra abbracciare tutte noi per un lungo minuto. Poi, finalmente, fa un sospiro, come d’introduzione ad un discorso. “Bene, signore, signorine… ieri sera è stato un successo. Successo che oggi è sui giornali e che finirà nella vostra busta paga. Nida e Pina: siete due pettegole indisciplinate, quindi da oggi, dopo la prima consegna del mattino, continuerete ad assistere Tecla e Luisa, non voglio che passiate la vostra giornata a bighellonare per Milano con quei cestini.”


...ce l’abbiamo fatta. Poco importa che la signora Brambilla ce lo abbia comunicato 'nella sua lingua' e che da oggi sarà ancora più esigente con me e Pina. Non importa nemmeno se dovrò ricominciare a bisticciare con Tecla, o se dovrò correre al mattino, con l’afa che già mi prende alla gola, per poter fare tutte le consegne entro un paio d’ore e poter poi lavorare in sartoria: non vedo l’ora. Quel che conta davvero è che quel vestito rosso è stata la mia grande occasione, quella che mi ha fatto fare un balzo in più verso il lavoro dei miei sogni. Quindi oggi tirerò un sospiro di sollievo, al di là di tutte le difficoltà che ogni singolo giorno in sartoria porta con sé, e farò qualcosa che non faccio quasi mai: mi dirò sei stata brava!

Almeno per oggi: ho solo 14 anni e la mia storia in sartoria è appena iniziata…!



FINE




Brevissimo dizionario di dialetto milanese:


1) Sciura: Signora milanese, tradizionalmente ricca, elegante e un po’ snob.


2) Fare “fiera”: accostare troppe fantasie diverse e/o colori contrastanti nel vestirsi, ottenendo un pessimo effetto finale.


3) Sta su de doss: su con la vita!


4) Piccinina: in sartoria, sinonimo di apprendista; in generale, piccolina.




Nel raccontare questa storia mi sono ispirata in parte alla giovinezza della mia nonna materna, che da ragazza ha fatto questo lavoro per qualche anno, cucendo soprattutto abiti per le signore che andavano alle serate eleganti del Teatro alla Scala, e in parte alle atmosfere de Il Paradiso delle Signore, una fiction (ora soap opera) che mi è sempre piaciuta tanto per il modo in cui racconta la Milano del Dopoguerra e la rapida evoluzione della moda al femminile.

Come avrete capito anche leggendo il mio racconto di dicembre, “Il cappotto rosso” (che trovate a questo link), ogni tanto mi piace tornare nella mia Milano e immaginarla nel passato. Vi ringrazio già fin da adesso per tutti i consigli e le considerazioni che mi vorrete lasciare, e sono molto grata a tutti voi che continuate a seguire questa rubrica dopo ormai un buon numero di mesi!

Vi invito, come sempre, a leggere tutti i racconti contrassegnati dal banner “Storytelling Chronicles” di questo mese… anche perché stavolta c’è davvero l’imbarazzo della scelta!

Grazie ancora per la lettura, al prossimo post :-)