sabato 25 aprile 2015

25 APRILE

Un'interpretazione

Letteratura italiana #1

 



Cari lettori,
stiamo vivendo la giornata in cui ricorre l'anniversario della Liberazione. Quest'anno si tratta di una ricorrenza particolarmente importante, perché sono 70 anni da quella che viene considerata da tutti la data ufficiale della fine della Seconda Guerra Mondiale.


Ognuno di noi avrà già ricevuto almeno un volantino di invito per un'occasione di festa o di celebrazione; molti canali televisivi stanno proponendo da giorni dei film “a tema”; persino i social network da qualche anno si riempiono di foto e di commenti in proposito. Credo che, trattandosi di un tema così importante, sia naturale che tutti noi comunichiamo, in qualche modo, la nostra partecipazione.



Per quel che mi riguarda, io ho sempre amato una poesia di Alfonso Gatto, "25 aprile". La condivido sui social network praticamente ogni anno; tuttavia, non ho mai spiegato perché questa composizione è per me così significativa, e perché quelle parole mi tornano in mente ogni volta che celebriamo questa ricorrenza.



La chiusa angoscia delle notti, il pianto

delle mamme annerite sulla neve

accanto ai figli uccisi, l’ululato

nel vento, nelle tenebre, dei lupi

assediati con la propria strage,

la speranza che dentro ci svegliava

oltre l’orrore le parole udite

dalla bocca fermissima dei morti

liberate l’Italia, Curiel vuole

essere avvolto nella sua bandiera”:

Come già detto in un'altra occasione, mi ritengo fortunata, per svariati motivi. Uno di questi è che né io né altri della mia generazione abbiamo visto in prima persona gli orrori che qui si raccontano. Per molti di noi, la guerra è semplicemente il mostro cattivo che compariva ogni tanto sullo sfondo dei racconti dei nostri nonni, quando eravamo piccoli. Anzi, persino alcuni di loro erano troppo giovani per capire fino in fondo che cosa significasse un conflitto di ideologie.

Quella che però a me è stato sempre raccontato è proprio quella che il poeta chiama la chiusa angoscia delle notti, soprattutto durante i bombardamenti. Non riesco davvero ad immaginare come potrebbe essere vivere in allerta costante, con la paura di quella sirena che annuncia che una bomba sta per cadere o su casa tua o su quella di un tuo amico. Sono io stessa così preoccupata quotidianamente – spesso per niente – per i miei beni materiali da non riuscire a comprendere come si possa vivere ogni minuto con l'ansia che la tua casa e la tua famiglia potrebbero venire spazzate via.

Il poeta si riferisce, in questi primi versi, soprattutto alla lotta finale tra i partigiani e gli ultimi fascisti che si erano nascosti, avendo ormai capito la sconfitta.

Io abito in provincia di Milano, e non ho ereditato molti racconti sui partigiani, forse semplicemente perché non è questa la zona dove trovare le storie che cerco. Così, circa un anno e mezzo fa, quando mi è capitato di fare una vacanza con delle amiche in una casa tra la Liguria e la Toscana, sono andata a Sant'Anna di Stazzema.

Per chi non ci fosse mai stato, si tratta di un paesino minuscolo in bassa montagna, raggiungibile in macchina (a prezzo di grandi sofferenze per i deboli di stomaco). In passato, i fascisti hanno ucciso gli abitanti di Sant'Anna perché colpevoli di aver nascosto ebrei e partigiani. Storie come questa, purtroppo, si sono ripetute in diverse zone di montagna, proprio perché, con ogni probabilità, era più facile nascondersi.

Non rimane più molto, se non una piccola Chiesa, un museo ed una lapide commemorativa. Basta però leggere le storie dei sopravvissuti per meravigliarsi di quanto coraggio abbiano avuto queste persone, che conducevano una vita modestissima, non avevano quasi niente da condividere, eppure sono riusciti a compiere qualcosa di eroico ed a pagare per questo.

Credo che anche i partigiani fossero persone così: uomini comunissimi, che, ad un certo punto, hanno deciso di difendere quello che era loro rimasto, come potevano.


tutto quel giorno ruppe nella vita

con la piena del sangue, nell’azzurro

il rosso palpitò come una gola.


Mi piace molto l'accostamento dei due colori che utilizza il poeta, ed il fatto che, in qualche modo, essi si contrappongono.

Personalmente, avrei scelto il nero o il grigio per un contesto di guerra. Il colore azzurro, almeno ad una prima lettura, può sembrare una tonalità più allegra e rilassante.

Tuttavia, l'azzurro del cielo può rimandare anche ad una situazione di immobilità, di staticità. Non si può decisamente parlare di noia in questo contesto, ma si può pensare ad una sorta di rassegnazione, ad un'attesa...forse della liberazione?

È allora che subentra il rosso, forte ed inequivocabile, perché è il colore di ogni grande passione, positiva o negativa che sia. Il riferimento alla gola squarciata è inevitabile, perché tanti anni di violenza non possono permettere una pace immediata e definitiva.

In ogni caso, credo che il messaggio di fondo sia quello di non arrendersi, di non accontentarsi di un quieto ma ingannevole “azzurro”, ma di cercare sempre quel poco di “rosso” che rende la vita davvero degna di essere vissuta.


E fummo vivi, insorti con il taglio
ridente della bocca, pieni gli occhi
piena la mano nel suo pugno: il cuore
d’improvviso ci apparve in mezzo al petto.


Non nego di avere un debole per la conclusione di questa poesia.

Mi sembra un invito a vivere pienamente, con ogni singola componente del corpo e dello spirito.

Ogni volta che conquistiamo una piccola o grande libertà, ritorniamo ad essere vivi e, in molti casi, il nostro cuore ricomincia a battere.





Io credo che il messaggio di Alfonso Gatto sia: non dimentichiamo il 25 aprile!

Questa giornata ci ricorda una delle nostre libertà più grandi, senza la quale ogni nostra minima e quotidiana scelta forse non sarebbe stata possibile e di sicuro non sarebbe stata la stessa.

Non dimentichiamo il coraggio di chi è venuto prima di noi; nel nostro piccolo, cerchiamo di considerarlo un esempio.

 

Se qualcuno che ha letto questo post vuole condividere qualche altra poesia o pensiero sul 25 aprile nello spazio sottostante...lo faccia senza paura! Io li aspetto!

Nel frattempo... buona festa a tutti!! Al prossimo post :-)

venerdì 17 aprile 2015

LETTERA A UN BAMBINO MAI NATO

Risposte di donne

Scrittrici nel cuore #1





Cari lettori,
dovete sapere che sono una lettrice accanita, anzi, esagerata. Quando ero iscritta all'Università, soprattutto durante i primi anni, ero molto impegnata con gli esami, ma trovavo sempre il tempo per la lettura. All'inizio della Laurea Specialistica ho “scoperto” le meraviglie della biblioteca (non so se mi spiego: libri gratis, che poi devi restituire, senza venire sommersa da ondate di manoscritti in casa tua) e non ho più smesso di farne uso. Da circa quattordici mesi, poi, visto che ho terminato gli studi e devo “solo” lavorare (...scherzavo, dai) la situazione è visibilmente peggiorata. Ormai credo che tutti i bibliotecari mi conoscano e che almeno qualcuno di loro pensi qualcosa come: ecco che torna quella ragazza minuta con tutti quei libroni! Ma come farà a portarseli a casa? E soprattutto, ci ha messo davvero così poco a leggerli?




Il mese scorso, però, ho fatto un'eccezione alla regola: tra i vari volumi la cui mole variava dal grandicello all'enorme ho preso anche un libro piccolo, anzi, piccolissimo: Lettera a un bambino mai nato, di Oriana Fallaci.

Mi è bastata la lettura delle primissime pagine per comprendere che questa storia riveste un'importanza capitale, e non solo per le donne della generazione della Fallaci, anzi, non soltanto per le donne, semplicemente.


Per chi non conosce il libro, si tratta della storia di una misteriosa protagonista, della quale si sa soltanto che non è sposata e che lavora. Ella si trova inaspettatamente incinta e intraprende un lungo monologo rivolto al bambino che si porta dentro. È una vicenda sicuramente forte, a tratti dolorosa, ma che spinge ogni lettore ad interrogarsi su quello che prova la donna che sta raccontando il suo dramma. So che questo libro è stato letto da molte persone, ed anche che ha suscitato reazioni contrastanti, ma devo ancora trovare una persona che lo definisca tiepido o banale. Non si tratta di una lettura che lascia indifferenti: si può essere d'accordo (o meno) con le idee esposte nel corso della narrazione, ma non è possibile chiudere il libro senza aver maturato nessuna opinione in proposito.



Tuttavia, non è mia intenzione parlare della grandezza di questo romanzo, perché sicuramente lo avranno fatto in tanti (molto più esperti, bravi e qualificati di me).

Quello che vorrei raccontarvi oggi, invece, è un fatto curioso che mi è accaduto leggendo, e che ci riporta al tema della biblioteca, perché, se avessi comprato il testo in una libreria, non mi sarebbe mai successo.

Ho notato subito che le pagine erano fortemente sottolineate, un po' spiegazzate, vissute. Non mi sarei comunque aspettata, però, dei commenti a margine da parte della precedente proprietaria del libro. Inoltre, non si trattava certo di osservazioni leggere e casuali.





Io so anche questo. Io lo ho vissuto. Benché il ricordo non mi tormenti, mi lascia sempre e comunque perplessa sulla giustizia della vita.”


All'interno del libro, la protagonista sta parlando di quanto, spesso e volentieri, l'esistenza possa essere ingiusta. Fin da quando siamo bambini, ci sono le principessine che hanno dei giocattoli costosi quanto un mutuo, e altre piccole che si accontenterebbero di un cioccolatino ma non riescono ad avere nemmeno quello, e così sono costrette a rimanere in un angolo.


Così, anche crescendo, secondo la protagonista, noi donne non cambiamo (Mi perdonino i signori lettori se faccio un discorso al femminile...il contesto lo richiede.). La narratrice è arrabbiata: ritiene che, ancora una volta, siano sempre le medesime ad avere privilegi (sia nel lavoro che nella vita privata), mentre quelle che più si impegnano si devono accontentare delle briciole. Anche la mia anonima commentatrice probabilmente pensa la stessa cosa, anzi, l'ha proprio vissuta sulla sua pelle.


Quanto a me, non so. Nonostante la fatica nel frequentare una Facoltà impegnativa e non sempre apprezzata in società, il precariato nell'insegnamento e le difficoltà lavorative della mia generazione... mi sono sempre ritenuta molto fortunata.

Tuttavia, sono pensieri che, in questo periodo durante il quale il “merito” è un concetto relativo, molte importanti decisioni sembrano affidate al caso ed ognuno di noi sembra sempre aspettare qualcosa di meglio... beh, sono più che naturali.





Anche io ho cercato la coerenza, non la chiamavo così, ma era simile. Anche io ho pianto.”


Quando il destino interviene e pone fine da solo a dei dubbi che ci eravamo posti, non sempre la reazione è di pace e di sollievo. È in questi casi che si invoca la “coerenza” della quale parla la protagonista, alla quale fa riferimento anche la donna che commenta.

Questi sentimenti si sperimentano, secondo me, soprattutto nel momento in cui è difficoltoso prendersi cura di qualcuno. Può essere il caso di una madre, ma anche quello di una figlia, una sorella, una nipote.


In qualsiasi momento può capitare di sentirsi sbagliate o inadeguate!

C'è l'attaccamento nei confronti di quella persona, certo.

C'è la fatica che occuparcene comporta per noi.

C'è quella punta di sollievo della quale un po' ci vergogniamo, nei momenti in cui la situazione all'improvviso cambia.

Di sicuro, infine, c'è un grande dolore nel vivere tutto questo.

Come possiamo cercare una coerenza? Questa parola appartiene al mondo delle decisioni razionali, ed ogni persona è fatta anche di profondissime irrazionalità. Altrimenti saremmo dei robot, no?!?





Uomini=Eterni bambini e le lori madri che li fanno rimanere tali!”


Mi trovo un po' in difficoltà a parlare di questo commento, in quanto questo non è un blog di consigli sentimentali o posta del cuore. Tuttavia, come lettrice, mi ha davvero colpito la rabbia con la quale questo commento (in maiuscolo e ricalcato rispetto agli altri) è stato scritto.

Forse, oltre all'osservazione un po' scontata che non è mai il caso di generalizzare, ho soltanto un piccolo pensiero. Oriana Fallaci ha scritto questo libro nel 1975, ma tutti noi viviamo nel 2015, ben 40 anni dopo. Il mondo è cambiato.


Non ci sono più soltanto l'uomo e la donna, in una rigida relazione eterosessuale, malvista se non siglata dal matrimonio e con tanto di suocera invadente.

(Sì, lo so, lo so che in Italia spesso è così comunque, ma lasciatemi sognare.)

Ci sono le relazioni “di fatto”, gli omosessuali, le separazioni, i single con o senza figli, le famiglie allargate. Ci sono tante persone che si interrogano, fino all'età adulta, sul loro essere uomo o donna.


Ognuno di noi, a poco a poco, rispetto al passato, sta iniziando a costruire la propria libertà relazionale, e questa non è una limitazione, ma una ricchezza. È un passo in più perché non ci siano più le categorizzazioni di cui sopra.





Tu non sarai più, ed altri tu non ti sostituiranno.”


Ammetto che mi si è spezzato un po' il cuore leggendo questa frase. Che sia per aborto o per una causa naturale, credo che tutte le donne vivano la perdita del feto come un lutto.

Tuttavia, non occorre davvero essere una madre per comprendere questo passaggio.

Qualsiasi persona si perda non è sostituibile, perché, come dicevo prima, siamo unici.

Credo che la mia commentatrice avesse capito molto bene questo, e che fosse talmente sconvolta e disperata da non rendersi neanche conto di aver lasciato questa testimonianza a qualcun altro.





In conclusione: avete letto il romanzo? Ne avete parlato con qualcuno? Quali sono i vostri pareri?

Un grazie di cuore, comunque, alla mia anonima collega lettrice e commentatrice, dovunque ella sia!

Al prossimo post :-)

martedì 14 aprile 2015

HO VISTO COSE CHE VOI UMANI...

Un viaggio nella scuola pubblica

 

Cari lettori,
come forse molti di voi già sanno, l’argomento “Scuola pubblica”, in quest’ultimo periodo, è diventato di un’attualità scottante. Al centro della polemica, in particolare, sembra esserci la recente decisione di far detrarre dalle tasse la retta della scuola privata.

In parole più semplici, se un genitore iscrive suo figlio ad una scuola paritaria o privata, potrà detrarre la retta scolastica dalle tasse, non pagando interamente la quota, ma facendo sì che la paghi lo Stato.

In parole ancora più semplici – e scusate la franchezza – in questo momento i genitori che hanno iscritto i figli alla scuola pubblica stanno pagando la retta della scuola privata del figlio di qualcun altro.
La domanda che dovrebbe sorgere spontanea è: senza nulla togliere alle scuole private – molte delle quali splendide, organizzate magnificamente, centro di proposte ed iniziative interessanti – che ne è della scuola pubblica? Visto che il denaro sembra scarseggiare, perché non rendere migliore prima ciò che dovrebbe essere per tutti?



Il disagio, la povertà, le difficoltà della scuola pubblica non sono solo un ritornello inventato da supplenti annoiati e genitori insoddisfatti. Si tratta di una realtà, e, per questo motivo, ho deciso di raccontare la mia esperienza con la scuola pubblica. Si tratta di un dramma in due atti: il primo riguarda la mia (ormai lontana) vita da studentessa, il secondo le mie esperienze di supplenza.




PARTE 1: LE AVVENTURE DELLA STUDENTESSA



  • Sono stata di recente a votare nella mia vecchia scuola elementare, che è seggio elettorale. Inutile dire che, ogni volta che entro in quell’edificio, mi sembra di rivedermi bambina, ormai moltissimo tempo fa, mentre correvo in giardino e scorrazzavo per i corridoi. Certo, forse non sarei così incline alla nostalgia, se, dal momento che sono passati un bel po’ di anni, l’edificio si presentasse come minimo un po’ diverso. Invece no, è tutto tale e quale: le pareti scrostate, le mattonelle mancanti, il legno scheggiato delle porte del bagno… proseguite voi l’elenco. Voi immaginate bene che, avendo finito le elementari quindici anni fa, quello che era un po’ cadente nel giugno del 2000 ora non è propriamente in condizioni ottimali…!
  • Durante gli anni delle scuole medie, la nostra Preside, ad un certo punto, ha deciso di organizzare un Comitato di Protesta di genitori, docenti ed insegnanti. Perché? Perché, a partire dall’anno successivo, il piano seminterrato non sarebbe stato più a nostra disposizione, bensì avrebbe ospitato gli studenti (anche se qui sarebbe più opportuno il termine “sfollati”) di un’altra scuola pubblica che, a detta dello Stato, era “ormai impossibile da gestire”. Quello che la nostra Preside chiedeva era semplice ma non ovvio: la sistemazione e ristrutturazione della Scuola di quei nostri compagni di sventura, in modo da non ritrovarci, il Settembre successivo, in centomila sotto un tetto. Avevamo fortunatamente vinto quella battaglia, ma senza un’azione di protesta non sarebbe stato possibile.
  • In prima superiore (la tanto temuta IV ginnasio), una mattina qualunque, io ed i miei compagni siamo entrati in classe e ci siamo accorti con stupore che non avevamo più un pavimento. O meglio: ce l’avremmo avuto, se solo tutte le mattonelle non si fossero alzate, formando delle crepe così inquietanti da suggerire un terremoto. Risultato: tutti i mesi invernali trascorsi a fare lezione in Auditorium, nel seminterrato, nel gelo più completo, ed una lunga attesa prima che qualcuno si degnasse di ridarci la nostra classe com’era prima.
  • Sempre alle superiori, un’altra mattina, durante una lezione, abbiamo sentito un crac. Voltandoci, ci siamo accorti che nella parete di fondo della classe si era formata un’enorme crepa, che occupava in verticale almeno metà della sua altezza. ….Siamo stati fatti uscire? Il piano è stato dichiarato inagibile? Qualcuno è venuto a stuccare prontamente nel weekend?... Ma quando mai!
    Abbiamo proseguito la nostra lezione come se niente fosse. Anzi, con il tempo, al centro della crepa si è formato un simpatico buchino dal quale potevamo salutare gli amici della classe accanto. Durante la Maturità, la crepa era ancora lì. Chissà se, dal 2008 ad oggi, qualcuno ci ha pensato.



PARTE 2: LE PERIPEZIE DELLA GIOVANE SUPPLENTE



Piccola premessa: al momento ho lavorato per quattro Istituti diversi, ma alcuni di essi sono costituiti da più edifici. Per questo motivo ora vi parlerò di sei scuole, numerate in ordine cronologico.

  • Nella scuola n°1 i miei colleghi, in Sala Professori, mi hanno dato subito un utile consiglio: “Questa libreria che vedi è stata comprata da noi, facendo una colletta ed andando all’IKEA. Se senti tremare qualcosa quando togli un libro, allontanati immediatamente, potrebbe caderti addosso!” Credetemi, ho avuto paura!
  • Sempre nella scuola n°1, c’era, per ognuno di noi, un “tetto massimo” di fotocopie. Io cercavo di far stare 2 copie di una verifica in un foglio per risparmiare….
  • Nella scuola n°2 stavamo aspettando i registri del professore ad ottobre inoltrato. Si scrivevano gli argomenti delle lezioni ed i voti dei ragazzi su fogli protocollo con qualche tabella stampata sopra.
  • Inoltre, sempre nella scuola n°2, c’erano classi e corridoi pieni di scritte a pennarello o bomboletta…più o meno simpatiche, ecco. Ovviamente nessuno si era dato la pena di far riverniciare.
  • Nella scuola n°3, a molti armadietti mancava lo sportello anteriore. E, pensate un po’, erano tutti riservati ai supplenti! Io lasciavo lì libri e registri e non sapevo se la mattina dopo li avrei ritrovati…
  • Una mattina, dopo una serata di pioggia fortissima, sono arrivata alla scuola n°3 per la mia solita prima ora. Mi è venuta incontro la bidella dicendomi che la scuola era inagibile. Sono entrata un attimo con lei e ho visto pezzi di soffitto per terra. Mentre io, la bidella e un’altra supplente arrivata lì per la prima ora ci facevamo il caffè, abbiamo sentito rumori inquietanti dal piano di sotto. La bidella ha confortato noi povere docenti sprovvedute: “Ma no, è solo acqua! Il piano di sotto è allagato!” Ah, beh, allora…
  • Sono rimasta nella scuola n°4 per pochi giorni. Però devo dire che l’assenza di una Sala Insegnanti e non dico di un bar, ma anche solo di una macchinetta per acqua e caffè, mi ha colpito.
  • Nella scuola n°5, trattandosi di una Scuola dell’Infanzia, i genitori dei bambini hanno deciso di darci una mano. In alcuni giorni prefissati, infatti, ci hanno portato carta igienica, fazzoletti di carta, salviette umidificate ed altro. Se non ci avessero pensato loro… ci avrebbe rifornito lo Stato?!? Ma via, che pretesa assurda! Ci sono così tanti giovani supplenti fannulloni e dal portafoglio stragonfio…
  • Nella scuola n°6, i lavandini per bambini in formato mignon… beh, semplicemente, ad un certo punto, si sono rifiutati di funzionare. In particolare, uno di essi si è intasato e riempito di acqua fino all’orlo. (I deboli di stomaco si fermino qui!) Inoltre, mentre noi insegnanti eravamo in classe, un bimbo malato ha pensato di star male lì dentro. Credo che per quel povero lavandino si sia trattato del colpo di grazia. Credetemi, quel giorno davvero ho visto cose che voi umani non potete neanche immaginare.





In conclusione… so bene che si tratta di una singola esperienza. È per questo motivo che invito ognuno di voi che vi siete ritrovati a leggere (docenti, genitori, studenti, ex-studenti…) a commentare raccontandomi le vostre esperienze, se vi va. E se non vi va, almeno non dimenticatevele. Non mettiamo in un angolo la Scuola Pubblica, che ha così tanto bisogno di tutti noi.

Come ha detto Crozza qualche sera fa, “non è necessario chiamarla Buona Scuola. Chiamala Scuola Che Non Ci Piove Dentro.”

Sarebbe già un buon traguardo, no?!?
Al prossimo post :-)