giovedì 30 aprile 2020

I PREFERITI DI APRILE 2020

Tutto quello che mi è piaciuto in questo mese




Cari lettori,
ultimo giorno di aprile: è di nuovo il momento dei “Preferiti del mese”!


Come già successo a marzo, anche questo mese è stato molto particolare per tutti noi. Il periodo difficile che stiamo vivendo, purtroppo, non è ancora terminato, e non ci resta che sperare che il prossimo futuro ci porti qualche buona notizia.

Nel frattempo, vi racconto tutto quello che mi è piaciuto nel mese di aprile, dai libri ai film, dalla musica alla poesia!



Il libro del mese


Siamo a Genova, anno scolastico 2018/2019. L’estate segnata dal crollo del Ponte Morandi è terminata, e lì, dove ci sono ancora i due monconi che ricordano ai genovesi la tragedia, è tutto transennato e non si può passare. Alla ferita collettiva della città, che è tagliata in due, si uniscono tanti dolori personali dei cittadini.

La protagonista del romanzo, Giada Pastorino, è una sedicenne che sta affrontando con poco impegno e motivazione il terzo anno di liceo. Da poco tempo ha trovato il coraggio di ammettere a se stessa che le piacciono le ragazze e si è fidanzata con Erica, una sua compagna di scuola. 

I suoi genitori, Paolo e Simona, non sanno come comportarsi a proposito dell’orientamento sessuale della figlia.
Paolo, che è poliziotto da sempre, come suo padre prima di lui, sotto sotto vorrebbe lasciar libera la figlia di fare quello che vuole, ma spesso gli capita di sorvegliare i pride e le manifestazioni a favore dei diritti umani e spera sempre di non trovare Giada, sia per la sicurezza della ragazza, sia perché non è ancora pronto a “mettere in piazza” questo segreto di famiglia.
Simona, invece, tenta di autoconvincersi in ogni modo che si tratti di una fase: ella è segretaria e portavoce di un imprenditore che sta per entrare in politica e che incarna tutti i valori della destra conservatrice e della “famiglia tradizionale”, e con una figlia lesbica ella rischia di non essere conforme all’immagine del suo capo e quindi di perdere il lavoro.
In più, i due sono da tempo in crisi matrimoniale, e questo di certo non rende sereno il clima in famiglia.


L’unico sfogo di Giada è la savate, una sorta di boxe di origine marsigliese. Combattere è la sua passione, ma anche la sua debolezza: dopo più di un’intemperanza a scuola ed in palestra, ella rischia di venire cacciata dalla società. Il padre, però, conosce il maestro De Roma, il fondatore dell’associazione sportiva, e, dopo avergli parlato, riesce a trovare con lui una soluzione: Giada potrà continuare a praticare la savate, ma solo se, per un po’ di mesi, il suo allenatore sarà De Roma stesso.

Giada non è molto convinta, perché l’uomo è piuttosto anziano ed ha fama di essere burbero e solitario, senza considerare che preferirebbe di gran lunga non essere sola ed allenarsi con le sue compagne, ma capisce di non avere scelta ed inizia l’allenamento con il maestro.

A dispetto delle premesse, tra i due si instaura ben presto un rapporto di fiducia. Tra un combattimento ed una corsa in salita vicino al Ponte Morandi, Giada riuscirà a confidare a De Roma il vero motivo della sua grande rabbia interiore: ella, infatti, è stata vittima di bullismo a scuola. Anche il maestro De Roma, però, è tormentato da un’ombra del passato che non gli dà tregua.


Avevo Colpo su colpo sul comodino da un po’. Era stato acquistato durante un firmacopie che faceva parte di una manifestazione sportiva di febbraio, praticamente l’ultima prima che, a poco a poco, prima la Regione Lombardia e poi il governo annullassero tutto per via dell’emergenza sanitaria che stiamo vivendo. Mi aspettavo una lettura interessante e formativa, ma questo romanzo si è rivelato molto di più.
Innanzitutto, è una storia incredibilmente attuale, che racconta la Liguria com’è oggi: appesa ad un filo sia fisicamente che metaforicamente, come se il crollo del ponte nel 2018 ed i numerosi disastri dell’autunno 2019 avessero lasciato crepe profonde anche nel cuore di chi ci abita.
Inoltre, i temi del bullismo e dell’omosessualità sono affrontati in modo tutt’altro che banale: lo sport del cuore, che è sfogo e passione ma anche un mezzo per apprendere, diventa la chiave di volta per risolvere i più spinosi problemi personali.
La scrittura di Riccardo Gazzaniga, infine, è scorrevole e delicata. 

Un romanzo da leggere, non soltanto per gli appassionati di sport!



Il film del mese


Con i cinema chiusi, ho pensato di parlarvi di una piacevole commedia che avevo visto mesi fa e della quale poi non vi ho più parlato.

Diego, il protagonista, interpretato da Claudio Bisio, è una persona apparentemente di successo: un avvocato affermato, divorziato ma con una figlia e degli amici, proprietario di una bellissima casa. Negli ultimi mesi, però, la sua depressione ha cancellato tutto ciò che c’è di piacevole nella sua vita. Una sera egli tenta di suicidarsi assumendo sonniferi, infilandosi nella vasca da bagno e sperando di sprofondarci dentro, ma una casualità lo salva: il tappo della vasca è difettoso, l’acqua sparisce in breve tempo, e tutto quello che Diego fa è una gran dormita, riuscendo a spaventare pure la sua governante, che lo trova addormentato in bagno il mattino dopo.

Anche se triste e sconfortato, egli decide di ignorare l’accaduto ed andare comunque al lavoro, ma sulla strada che lo conduce allo studio si accorge che c’è un bar, la cui insegna recita “Chiacchiere”, al quale egli non aveva mai fatto caso.

Diego entra e, dopo pochi minuti, si rende conto che più che un bar vero e proprio, si tratta di una sorta di rifugio, dall’atmosfera familiare e casalinga: si può ascoltare musica con un vecchio juke-box, giocare a biliardo, sedersi in poltrona vedendo vecchie pellicole, mangiare biscotti appena sfornati. Conosce il proprietario, Massimiliano, e il cliente più assiduo del posto, Edoardo, un aspirante attore che non ha ancora raggiunto il successo, e sulle prime li giudica due persone stravaganti ed un po’ matte. Nei giorni seguenti, però, non può fare a meno di tornare al bar e di parlare con i due, che, a differenza di tanti altri, lo ascoltano attentamente e senza giudicare.

Insieme a loro, egli elabora un piano folle: cercare di migliorare la vita a tutti coloro a cui vuole bene, e con i quali, negli ultimi mesi, per via della sua malattia, è stato veramente insopportabile. Innanzitutto suo padre, che quasi sempre gli chiede di dedicargli più tempo e di giocare a tennis insieme, ma che raramente viene accontentato; poi sua madre, separata dal padre, che nasconde al figlio le sue frequentazioni con alcuni maturi signori; suo fratello, un aspirante pittore i cui quadri non vengono compresi da nessuno; sua figlia, che lavora nel mondo della moda e non si dedica mai a se stessa; l’ex moglie, proprietaria di una libreria indipendente poco frequentata, sempre nervosa e piena di rancore; la sua migliore amica, una madre single che deve destreggiarsi tra tante difficoltà. 
Ma in che modo “sistemare” tutti quanti?


Se mi vuoi bene è una sorta di tragicommedia che pone al centro dell’attenzione uno dei difetti peggiori dell’uomo contemporaneo: quello di guardare solo e soltanto i propri obiettivi personali ed i propri standard spesso troppo elevati, con il risultato di guardarsi allo specchio e ritenersi un fallimento, senza rendersi conto di tutto quello che si ha: salute, affetti, libertà, la possibilità di essere felici. 
Il film, però, per mezzo di tante gag divertenti, sottolinea anche l’occhio critico che spesso abbiamo nei confronti degli altri, giudicati deboli e bisognosi di aiuto, quando sono solo persone con problemi ordinari, che, magari, dopo una semplice chiacchierata di conforto, sanno anche salvarsi da sole. Una pellicola che, in definitiva, fa ridere tra qualche lacrima, e sicuramente spinge alla riflessione.



La musica del mese


Durante il mese di aprile ho partecipato ad un gioco su Instagram dal titolo “30Days Music Challenge”, che consisteva nell’individuare, per ogni giorno del mese, una o due canzoni secondo un tema prestabilito. Dal momento che non tutti voi lettori avete Instagram, ho pensato di riepilogare le mie scelte anche qui!


1) Una canzone che ti piace con un colore nel titolo: My little black wedding dress di Lucy Hale e Red di Taylor Swift;

2) Una canzone che ti piace con un numero nel titolo: 1985 dei Bowling for Soup;

3) Una canzone che ti ricorda l’estate: Summer Paradise dei Simple Plan e, per i nostalgici, Il ballo di Simone di Giuliano e i Notturni;

4) Una canzone che ti ricorda qualcuno che vorresti dimenticare:Wide awake di Katy Perry;

5) Una canzone che ha bisogno di essere suonata forte: The greatest show, dal musical The greatest showman;

6) Una canzone che ti fa voler danzare: La cintura di Alvaro Soler, Save the last dance for me di Michael Bublé ed altre che ho indicato nei preferiti di marzo;

7) Una canzone per guidare: Angeli nel ghetto di Nek;

8) Una canzone che riguarda droghe o alcool: Sober di Selena Gomez;

9) Una canzone che ti rende felice: Hey, soul sister dei Train e Solo una volta (o tutta la vita) di Alex Britti;

10) Una canzone che ti rende triste: Ti ho voluto bene veramente di Marco Mengoni e Per dirti ciao! Di Tiziano Ferro;

11) Una canzone di cui non ti stufi mai: When you say nothing at all di Ronan Keating;

12) Una canzone dei tuoi anni di preadolescenza: dal 2002 con furore, You make me wanna dei Blue;

13) Una canzone che ti piace degli anni ‘70: dal 1971, Stairway to Heaven dei Led Zeppelin;

14) Una canzone che ti piacerebbe avere al tuo matrimonio: A thousand years di Christina Perri per la cerimonia e Sway di Michael Bublè per il ricevimento;

15) Una canzone che ti piace che è una cover di un altro artista: Everybody wants to rule the world di Lorde;

16) Una canzone che è un classico che preferisci: Kathy’s Song di Simon and Garfunkel;

17) Una canzone per cui duetteresti con qualcuno al karaoke: Sally di Vasco Rossi;

18) Una canzone dall’anno in cui sei nato: direttamente dal 1989, Almeno tu nell’Universo di Mia Martini;

19) Una canzone che ti fa pensare alla vita: Pieces dei Sum 41;

20) Una canzone che ha tanti significati per te: Cade la pioggia dei Negramaro e Jovanotti (la canzone che dà il titolo al blog!);

21) Una canzone che ti piace con il nome di una persona nel titolo: Tallulah dei Sonata Arctica;

22) Una canzone che ti spinge ad andare avanti: Famous last words dei My Chemical Romance;


23) Una canzone che pensi tutti dovrebbero ascoltare: Supermarket flowers di Ed Sheeran e All too well di Taylor Swift;

24) Una canzone di una band che vorresti fosse ancora insieme: Leaving New York dei R.E.M.;

25) Una canzone di un artista che non c’è più: Shadow of the day dei Linkin Park;

26) Una canzone che ti fa venire voglia di innamorarti: Quando sarò lontano di Nek;

27) Una canzone che ti spezza il cuore: Pieces of a dream di Anastacia;

28) Una canzone di un artista la cui voce ami: Tattooed heart di Ariana Grande;

29) Una canzone che ricordi dalla tua infanzia: Come mai degli 883;

30) Una canzone che ti fa pensare a te stessa: Lo zingaro felice di Alex Britti.


Se volete ascoltare qualche estratto delle canzoni che ho scelto, andate a dare un’occhiata alle stories in evidenza sul mio profilo Instagram (seguitemi pure qui)!



La poesia del mese



Per il mese di aprile e per questo periodo così difficile ho pensato ad un componimento di Pierluigi Cappello dal titolo Risveglio, che racconta con immagini semplici ma efficaci l’inizio di una nuova giornata nel momento in cui qualcosa ci ha cambiati per sempre.


Ci si risveglia un giorno e le cose sembrano le stesse
mentre invece dietro a noi si è aperto un vuoto
dopo che tutto è stato fatto per trattenere la vita
in mezzo a un panorama di pietre sparse e tegole rotte.
Allora uno mette il dentifricio sullo spazzolino
mescola lo zucchero al caffè
con l’attenzione che aveva da scolaro
quando ritagliava dalla carta
file di bambini che si tengono per mano,
piccoli pesci che baciano l’aria.



Le foto del mese



Le camelie di papà quest’anno sono fiorite particolarmente bene!



Dal momento che ho avuto un po’ di tempo a disposizione per cucinare, ho cucinato per la prima volta la torta Pasqualina ai carciofi! E devo dire che mi è venuta proprio buona...



...eh già, questa non è per niente una foto di aprile. In effetti è un ricordo di gennaio, dell’ultima volta che sono stata per qualche giorno a Varazze. Anche se era una giornata invernale, il tempo era splendido e si sentiva già la primavera nell’aria. Il mare mi è mancato durante queste inusuali vacanze di Pasqua, ma sono sicura che presto o tardi ci sarà consentito tornare a salutarlo… e ci rifaremo!




Come sempre, aspetto i vostri commenti!
Com’è andato il vostro aprile? Avete passato bene le vacanze pasquali?
Avete film, libri, canzoni da consigliarmi? C’è qualcosa che vi è piaciuto in modo particolare in queste settimane?
Vi mando un grande abbraccio e spero che il prossimo mese ci porterà buone notizie!
Grazie per la lettura, ci rileggiamo in maggio :-)

lunedì 27 aprile 2020

AVERE 30 ANNI: DISAVVENTURE IN ROSA

Due romance perfetti per i miei coetanei



Cari lettori,
nuovo appuntamento con le nostre “Letture...a tema”!

Oggi ho scelto di parlarvi di romance, e, più precisamente, di romanzi rosa di autrici italiane. Queste due storie, a mio parere, raccontano bene, anche se in modi differenti tra loro, l’amore a 30 anni, tra incertezze e prime decisioni importanti, desiderio di stabilità e batticuori talvolta adolescenziali. Si tratta di letture leggere e scorrevoli, ma non per questo prive di riflessioni importanti. 

Il primo dei due romanzi è di una delle autrici italiane di romance più conosciute ed apprezzate, mentre il secondo è opera di un trio di bloggers che per la prima volta si sono cimentate in un libro. Ecco la mia recensione!



Due cuori in affitto, di Felicia Kingsley


I due protagonisti di questo divertente romance, Summer e Blake, si conoscono per via di uno sfortunato equivoco.

Summer ha ventisette anni, vive in California e da qualche anno insegue il sogno di diventare una sceneggiatrice. Purtroppo ella è ancora in piena gavetta ed è riuscita, al momento, a diventare soltanto l’assistente di produzione di un’importante telenovela. La sua prima trasferta lavorativa è negli Hamptons e, essendo ormai arrivata l’estate, ella decide di affittare una villetta insieme al fidanzato George, un giornalista colto e più vecchio di lei di oltre un decennio.

Blake, trentatré anni, è invece uno dei più famosi ed importanti scrittori del momento. È estate, in novembre deve uscire il suo nuovo romanzo, ed egli non ha scritto nemmeno una riga. Pigro ed amante dei divertimenti, egli passa le sue giornate in frivolezze con la fidanzata del momento, un’attricetta di soap opera. Insieme a lei, che deve girare negli Hamptons, decide di affittare una villetta per trascorrere i mesi più caldi lontano dalla sua amatissima New York.


...c’è solo un piccolo problema: la villetta che hanno affittato entrambe le coppie è la medesima! Essa, infatti, appartiene ad una coppia che è ormai in piena fase di separazione: Summer e George sono amici della moglie, Blake del marito, i due coniugi ormai non si parlano più… ed è così che, ben presto, i quattro si trovano sotto lo stesso tetto!

Essi, tuttavia, non sono destinati a rimanere tutti a lungo negli Hamptons. La prima ad andarsene è la bionda amica di Blake, il cui agente le ha trovato un lavoro in Spagna a fianco di Almodovar. George, dopo pochi giorni, viene invitato da un senatore a seguire la sua campagna elettorale, e rinuncia un po’ troppo di corsa al sogno del suo primo libro ed all’estate con Summer.

Summer e Blake, costretti dall’altissima stagione (che non lascia libero nemmeno un monolocale negli Hamptons) e da pressanti esigenze lavorative, iniziano una curiosa convivenza… che riserverà tante inaspettate sorprese!


Ciò che ho apprezzato di più di Due cuori in affitto è il fatto che l’autrice ci permetta di conoscere i personaggi a poco a poco, svelando al lettore che non tutto è come sembra.

Summer, a prima vista, sembra un'insopportabile precisina che fa colazione con l’avocado, si tiene in forma con lo yoga ed ha scelto di convivere con un uomo di mezza età pedante e un po’ paternalista, ma le motivazioni del suo atteggiamento sono profonde. Dopo aver perso la madre troppo presto, si è ritrovata a dover soddisfare le aspettative del padre, un importante avvocato, che da sempre desidera lasciare il suo studio a lei ed alla sorella. Quest’ultima, una madre in carriera sempre vestita Chanel, è un modello troppo impegnativo con cui confrontarsi per lei, che si sente sempre “seconda” perché cerca di realizzare il suo sogno.

Blake, invece, al di là della propensione per il divertimento, dell’aria da sbruffone e del look che ricorda più un trapper che uno scrittore, si rivela un personaggio complesso, ferito da storie d’amore finite male e da delusioni lavorative precedenti alla sua carriera nel mondo della narrativa.


Ho apprezzato anche il linguaggio allegro e colorito e le tante gag, per quanto quella relativa ai guai criminali del miglior amico di Blake (chi ha letto il romanzo capirà) mi è parsa un po’ fantascientifica. Ma ultimamente ho letto troppi noir e thriller, quindi sospendo il mio giudizio.



Hai detto trenta?, dal blog I Trentenni


Andrea, Lea e Viola sono nate all’inizio degli anni ‘80 ed hanno passato i trenta da qualche anno. Nella seconda metà degli anni ‘90 hanno frequentato le scuole superiori insieme, ma sembra passato un secolo da quei tempi.

Andrea, la più estroversa e vivace del trio, da tempo insegue il sogno di diventare una giornalista in ambito spettacoli, ma ha a che fare ormai da troppo con partita IVA, quotidiani che non pagano, lavoretti al di fuori del suo campo per arrotondare, tante incertezze. Almeno, però, il suo lavoro le ha permesso di conoscere Nico, il ragazzo che, dopo tante illusioni, l’ha ricambiata per davvero, e che le ha appena proposto di andare a convivere.

Lea, la più saggia e responsabile, è sposata con Tommi, un uomo estroverso che la aiuta a lasciarsi andare, ma la loro relazione, ultimamente, è messa in crisi da due elementi. Il primo è il fatto che, mesi prima, Lea sia rimasta incinta ma abbia quasi subito perso il bambino. Il secondo è l’ingerenza della sua numerosa famiglia, soprattutto della madre, che ha sempre un giudizio per ogni sua azione e decisione.
Ella lavora nel mondo della grafica, ma è precaria, ed al momento è riuscita a trovare solo un impiego di mezza giornata a tempo determinato.

Andrea e Lea sono rimaste amiche in tutti questi anni, ma ultimamente sono sempre più stufe delle responsabilità, degli impegni relativi a casa e famiglia, del lavoro che c’è e non c’è, ed hanno sempre più bisogno di evadere.

L’ispirazione viene ad Andrea, un giorno che si ritrova nella cantina dei suoi genitori: in una vecchia Smemoranda del liceo ritrova un sacco di ricordi, compreso il buon proposito di fare un viaggio in macchina per l’Italia, senza una meta definita.


Per realizzare il loro sogno, tuttavia, le due hanno bisogno di Viola, il terzo elemento del trio, che si è allontanata da loro durante gli anni dell’Università. Ella vive a Milano, come le altre due, ma in quartiere molto più agiato: ha un bell’impiego da Prada, amiche/colleghe dell’alta società con cui passa il tempo libero ed una relazione con un uomo divorziato e più vecchio di lei, dal quale sta tentando senza successo di avere un figlio. Sembra la più “sistemata” delle tre, ma spesso non è felice e si sente come uno struzzo che nasconde la testa nella sabbia.

Piuttosto svogliatamente, Viola accetta di rivedere Andrea e Lea, e, dopo parecchie rimostranze, dice sì al viaggio. È così che, in un caldo giorno di giugno, sulle note di Cesare Cremonini, ha inizio una grande avventura!


Hai detto trenta? È il romanzo d’esordio di Silvia, Stefania e Ilaria, le tre autrici del blog “I Trentenni”, che sicuramente qualcuno di voi conoscerà. In esso si trattano tanti dei temi che sono presenti nel libro, come l’incertezza lavorativa, i sogni dell’adolescenza che si confrontano con la realtà, il desiderio di indipendenza, la crisi che impone di ricevere ancora aiuti familiari, il rapporto spesso difficile con la maternità, la retorica tra chi “riesce” e chi “fallisce” che alla nostra età fa più danni del buco dell’ozono.

Essendo dell’89, sono un po’ più giovane delle autrici, nate tra l’82 e l’83, ma la mia adolescenza (e preadolescenza) è stata caratterizzata da tante delle cose che sono state nominate nel romanzo: le Smemoranda piene di adesivi e fotografie, Cesare Cremonini con i capelli rossi quando era frontman dei Lunapop, le magliette della Onyx, gli zatteroni di Fornarina, i jeans a vita bassa, gli scooby-doo ed i ciondolini appesi agli zaini, gli Articolo 31 con il Tranqui Funky e tanto altro ancora.

Questo vero e proprio viaggio nei ricordi mi ha fatto sentire piuttosto nostalgica, ma anche, proprio come le protagoniste, consapevole che tutto questo è ormai parte del passato e che ormai la nostra vita da trentenni è un’altra… e, al di là delle difficoltà, va bene così.




Come sempre, attendo il vostro parere!
Conoscete questi romanzi? Li avete letti?
Che cosa ne pensate? Spero di avervi incuriosito!
Grazie per la lettura, al prossimo post :-)

giovedì 23 aprile 2020

LA STAFFETTA

Storytelling chronicles: Aprile 2020



Cari lettori,
benvenuti ad un nuovo appuntamento con la rubrica di scrittura creativa “Storytelling chronicles”, ideata da Lara, del blog "La nicchia letteraria"!

Se per il mese di marzo la regola era la tematica del papà, per aprile abbiamo scelto di lasciarci ispirare da un’immagine, e più precisamente da quella sottostante, che ritrae una foresta di giorno. 

Il mio racconto si intitola “La staffetta” ed è in onore del 25 aprile, Festa della Liberazione. Spero che vi piaccia!



La staffetta



Corri, Marisa, corri!”
Sento dietro di me la voce del comandante della brigata che mi ha affidato il messaggio. Sono consapevole di essere sola, eppure avverto forte e chiaro il suo richiamo, come se egli fosse a un metro da me. Ieri sera mi ha fatto ripetere le stesse frasi dieci volte, ma non deve avere timore: io ho buona memoria e sono molto veloce.

La foresta è immersa in un silenzio irreale. Grandi sempreverdi e bassi arbusti nodosi consentono a malapena il passaggio tramite un minuscolo sentiero di terra. Cammino più rapidamente che posso, quando riesco corro, ma ho tanta paura di inciampare nelle radici, che ad ogni passo sembrano diventare più grosse e minacciose. La strada è in salita, ed all’improvviso diventa ancora più ripida: i miei sospiri affannosi sono l’unico rumore che riesco a sentire. Ho tanta paura di attirare l’attenzione su di me… se solo gli uccellini cantassero! Perfino loro sembrano aver abbandonato questo bosco di montagna che un tempo era un’oasi di felicità ed ora è solo un insidioso percorso obbligato.

Un passo dopo l’altro, sono arrivata all’ultimo spiazzo prima della corsa finale. L’angusta strada che ho percorso finora si è allargata, creando uno spazio quasi circolare. Grandi conifere dai lunghi rami rendono il luogo quasi fiabesco, e la chiara luce del primo mattino filtra tra un albero e l’altro. Io però so che questo è uno dei luoghi più pericolosi, un tratto in cui sono visibile e rischio di essere scoperta. Devo restare il più possibile ai lati, in modo da potermi gettare in qualche cespuglio e nascondermi. Le sterpaglie, le grosse pietre, persino le buche: tutte quelle parti della foresta in cui mi era vietatissimo andare da bambina, quando ero in gita con la mia famiglia ed il mio unico pensiero era giocare, ora sono le mie migliori amiche.


È tutto molto tranquillo, forse anche troppo. Tutto ad un tratto un rumore secco mi gela il sangue nelle vene. Resto paralizzata dal terrore e mi rendo conto che al suono che ho sentito se ne stanno aggiungendo degli altri, sempre più ritmici, sempre più vicini. Dei passi! Cerco disperatamente di raggiungere l’arbusto più vicino, ma più corro, più quello sembra allontanarsi. All’improvviso, con mio sommo orrore, mi rendo conto che le pietre ed i cespugli si stanno sollevando, che la strada stessa si sta scollando da terra, che l’intero spiazzo si sta ripiegando su se stesso, intenzionato ad inghiottirmi ed a lasciarmi sepolta sotto gli alberi e le macerie. Sento un terribile urlo di disperazione e poi è tutto buio.

* * * 


Mi sveglio gridando sul mio materasso, avvolta in una ruvida coperta di lana che mi ha fatto sudare copiosamente. Mi guardo intorno, respirando a pieni polmoni e cercando di recuperare la calma: una camicia da notte bianco-giallognola che aveva ricamato mia nonna e che ha visto giorni migliori; la spessa lana marrone che ancora avvolge le mie gambe; il cuscino che ho gettato via dal materasso mentre mi dimenavo nel sonno, che è finito sul pavimento, dal momento che qui non ci sono letti; la piccola sacca in cui conservo i miei pochi averi; la sedia su cui si intravede la candela che ho spento ieri sera, prima di addormentarmi. 

Tiro più di un sospiro di sollievo: va tutto bene, sono ancora al rifugio. Sicuramente mi sono svegliata urlando, ma nessuno è venuto né a disturbarmi, né ad offrirmi aiuto oppure a chiedermi come sto: sono una delle poche ragazze, mi hanno lasciato apposta questa stanzetta, e qui la notte è popolata da incubi per tutti. Quelle poche volte che riesco ad addormentarmi serena vengo regolarmente svegliata dalle grida altrui.

A giudicare dalla pochissima luce che filtra dalle persiane, forse la notte non è più al suo culmine, ma mancano ancora delle ore prima dell’arrivo dell’alba. Mentre recupero il cuscino e mi infilo nuovamente sotto la coperta, perché il sudore mi si sta raffreddando addosso, mi ripeto che sono una sciocca. 

Avrei dovuto capire che si trattava di un sogno già dal richiamo iniziale, e non solo perché il comandante della brigata non sarebbe mai potuto essere ad un metro da me, ma anche perché, ormai, nessuno, a parte la mia famiglia (che non vedo da tanto), mi chiama più Marisa. Qui ognuno di noi ha un suo nome di battaglia, principalmente legato alle sue origini (militari, studentesche…). Io per tutti sono Mia, una delle staffette partigiane. Questo soprannome mi è stato dato da uno dei membri più anziani del gruppo, che, quando ero appena arrivata sui monti, non mancava mai di prendermi in giro bonariamente per il mio entusiasmo da principiante e per la mia impertinenza: “Vuoi sempre fare tutto tu”, mi diceva ridendo. Ed era vero, nei primi mesi, io desideravo che ogni consegna fosse mia, appunto.


La mia intraprendenza mi ha aiutato molto ad affrontare i primi viaggi nel bosco. Oramai conosco le Langhe, ed in particolare questa zona, come le mie tasche. Ci sono nata quasi diciannove anni fa, in un paese a valle, e nei primi tempi mi sono state persino utili le scampagnate che avevo fatto da piccola con i miei genitori ed i miei fratelli maggiori. Da bambina ero molto serena, adoravo questo luogo. Poi ci sono stati i primi anni della guerra: io ero un’adolescente ed ero chiusa in casa con mia madre. I miei fratelli sono stati chiamati alle armi, ma dopo l’armistizio del ‘43 si sono uniti ai partigiani. 

Mio padre, invece, è piuttosto anziano ed era stato riformato per un problema ai polmoni che si porta dietro fin da quando era ragazzo, ma ha voluto proseguire il suo lavoro di operaio per portare qualche soldo a casa e, dopo gli scioperi del marzo ‘44, è stato incarcerato. Le uniche due volte che sono riuscita a tornare a valle da mia madre ho avuto sue notizie, frammentarie ma consolanti: considerati i suoi problemi di salute, non sta male, nel complesso. Gli hanno consentito di incontrare mia madre due volte e forse prima di Natale lo lasceranno libero. I posti in carcere sono limitati e destinati ad oppositori politici molto più pericolosi di qualche operaio ultracinquantenne finito per sbaglio in mezzo ad una rissa.


Per quanto mi riguarda, quando mio padre è stato messo in carcere, l’unica mia compagna di vita è stata una rabbia sorda e cieca, una incontenibile voglia di ribellione contro chi continuava a farci del male. È stato così che ho deciso di unirmi ai partigiani. Mia madre ha tentato di dissuadermi, spinta dalla paura di perdermi e dall’angoscia di restare sola in un paese che, anche se lontano dalle zone rosse dei bombardamenti, può sempre essere attaccato. In pochi giorni, però, si è rassegnata: secondo me, in fondo, è anche un po’ orgogliosa.

In aprile ho raggiunto la base dove prestano servizio anche i miei fratelli e da quasi cinque mesi questa è la mia vita. Altre ragazze come me, tra i 16 ed i 21 anni, del mio paese e di quelli intorno, si sono decise e, come me, hanno scelto di aiutare i partigiani e di far parte della Resistenza.

In questa lunga notte, però, loro non ci sono, e neppure i miei fratelli, che non vedo da due settimane perché sono stati incaricati di raggiungere la zona di Alba. Sono da sola con i miei fantasmi.


La verità è che solo pochi mesi fa ero in uno stato d’animo del tutto diverso. C’era un desiderio di rivalsa, c’era il sangue che ribolliva, c’era un forte orgoglio civico, c’era anche la sensazione, forse utopica, forse no, di stare facendo qualcosa di utile per il mio paese, per un’Italia che forse un giorno sarà libera. Per questo motivo, durante i primi viaggi, mordevo letteralmente la strada ed avevo così tanta energia rabbiosa in corpo che quasi pensavo: “Sono i miei nemici a dover avere paura di me!”

Poi, però, la realtà mi ha duramente colpito. Ho visto compagni partire e non tornare più; mi è capitato di arrivare a destinazione in rifugi dove i fascisti avevano lasciato cadaveri sul prato e pochi resti bruciati; la sera, di fronte al fuoco, ho ascoltato i tristi destini di alcune donne del mio paese che avevano osato, come me, fare di testa loro, e mi sono dovuta tappare le orecchie per non sentire. 

Ora, ogni giorno che passa, ho sempre più paura, sia per me che per i miei cari: siamo tutti divisi ed ormai non mi azzardo nemmeno più ad immaginare un giorno in cui saremo tutti finalmente insieme e felici, perché il solo pensiero mi farebbe piangere. La foresta è diventata il mio personale incubo. Quasi ogni notte sogno di caderci dentro, di venire inghiottita, di perdere la strada. O che qualcuno mi spari alle spalle mentre tento inutilmente di fuggire.

* * *


Credevo che i pensieri negativi non mi avrebbero più abbandonata. Dopo essermi rigirata più volte sul materasso, invece, sono riuscita a riprendere sonno ed a recuperare le energie. Sono stata svegliata da un mio compagno poco dopo l’alba: era il momento di partire. 

Come sempre, quando la notte è terminata e devo passare all’azione, gli incubi sembrano svaniti. L’incertezza nei confronti del futuro e la morsa della paura lasciano il posto alla lucidità ed alla determinazione, e so che devo semplicemente fare un passo dopo l’altro. Così anche stamattina mi sono vestita, ho riempito la mia sacca con qualche provvista e pochi oggetti necessari, ho intinto un po' di pane giallo nel latte ed ho cercato di mangiare con calma. 
Il comandante mi ha salutato, mi ha fatto ripetere il messaggio altre tre volte, mi ha squadrato dalla testa ai piedi e mi ha detto: “Cerca di restare viva”. Potrebbe sembrare un uomo duro, ma io so che è stato così sbrigativo perché vuole il mio bene. Se tutti indulgessimo alla commozione prima di partire per uno dei nostri pericolosi viaggi, le emozioni avrebbero la meglio e ci renderebbero confusi e vulnerabili.


Sto di nuovo percorrendo la strada del mio sogno, ed è tutto uguale: gli alberi, i cespugli, le pericolose radici, la salita. Stavolta, però, si tratta della realtà, e la conferma mi arriva dal canto degli uccelli, che al mattino è particolarmente garrulo, da una lepre che mi ha tagliato la strada zampettando, dagli scoiattoli che, nel momento in cui mi vedono, graffiano rapidamente la corteccia dei pini per poi sparire tra le fratte. 

Solo negli incubi più angoscianti il silenzio ti avvolge come la coperta soffocante sotto la quale stai scalciando. Nella realtà, la natura si disinteressa dei drammi umani. Se non viene toccata personalmente, essa continua a far spuntare meravigliosi fiori in primavera, a far splendere il sole come in questa incantevole mattinata di fine agosto, a far addormentare tutto sotto un placido strato di neve. Anzi, dove gli uomini si sono fatti del male a vicenda ed hanno abbandonato il territorio, la natura, in breve tempo, se ne riappropria, con una sicurezza quasi crudele.

Continuo a camminare spedita, stando all’erta e cercando di non inciampare, né nelle radici né negli animali. Al termine della salita mi prende un puerile desiderio di fermarmi, ma non posso farlo: devo superare lo spiazzo del mio sogno di stanotte. Ancora due passi… ed ecco lo slargo dove sono passata più volte e che tormenta i miei incubi. 

Di nuovo, è tutto come lo avevo sognato: la terra battuta piena di radici ed aghi secchi, le ampie conifere, i raggi del sole, il profumo di pino. È l’ultima zona boschiva prima della corsa nel prato verso il rifugio che devo raggiungere. Lì mi attende una signora, la moglie di un fattore che deve ancora tornare dalla guerra, una donna che si è rivelata utilissima ai partigiani perché ha messo a disposizione la sua casa come punto d’incontro e di ricezione dei messaggi. Almeno, così mi hanno detto. L’ultima volta che sono passata di lì sono andata ad est, in un altro rifugio, ma erano passati prima i fascisti… e preferisco non ripensare a ciò che ho trovato ed al viaggio di ritorno che ho dovuto affrontare per comunicare al comandante l’insuccesso della mia missione.



Mentre attraverso la spianata, sento un rumore secco.
Basta, Mia, ancora con quel sogno?” Mi ripeto, cercando di farmi coraggio.
Ma non mi sto immaginando nulla. Sono dei passi, cadenzati e ritmici, accompagnati da una canzonaccia che conosco fin troppo bene. Devo nascondermi. Per pochi secondi ho la terribile, irrazionale paura che non riuscirò a raggiungere gli arbusti, perché essi, come nel mio incubo, si allontaneranno, ma in poche falcate sono dietro a delle rocce sporgenti, attorniate da cespugli: un perfetto nascondiglio per una ragazza minuta come me.

Mi sono già trovata in situazioni simili, ed ogni singola volta mi è parso che il tempo si dilatasse all’infinito. Quando vuoi che un pericolo passi, un singolo secondo può diventare lungo quanto un’ora. Anche stavolta, sembra che le camicie nere stiano impiegando una vita ad attraversare uno spiazzo di poche decine di metri. 
Anche se non posso vederli, tutti i miei sensi sono all’erta, e posso sentire ogni singolo dettaglio della loro presenza. Il passo a tratti cadenzato a tratti strascicato, tipico di persone abituate ad una disciplina militare ma per quel giorno in uscita libera; le risate che accompagnano il canto sguaiato, come se fosse appena successo qualcosa di molto divertente; il pungente odore di vino, segno che qualcuno di loro, anche se è mattina, ha bevuto troppo. Ogni dettaglio mi atterrisce, mi immobilizza, mi fa aderire alla roccia con disperazione.

Alla mia destra gli arbusti si diradano appena: non abbastanza perché io sia individuata, ma solo un pochino, in modo da creare uno spiraglio da cui posso vedere quello che sta succedendo. Con la coda dell’occhio, mi rendo conto che i miei lenti e svogliati nemici si stanno allontanando. Ancora qualche minuto e potrò uscire, riprendere la mia corsa, arrivare al rifugio. 

D’un tratto più rilassata, abbasso il braccio, forse un po’ troppo in fretta… e mi rendo conto che non sono l’unica ospite di quel riparo improvvisato. Ritraggo la mano orripilata, ma il contatto con la lucida pelle è stato inequivocabile: lì con me, sotto quelle frasche, accanto alla pietra, c’è una vipera che sta dormendo. Sembra non essersi accorta di me: è arrotolata su se stessa, con la testa reclinata sul corpo.

Un istinto fortissimo di fuga si impadronisce di me, ma mi rendo conto che, anche se i fascisti non sono più in vista, non si sono allontanati da molto: potrebbero sentire i miei passi come ho fatto io con loro e tornare indietro. Non ho altra scelta: devo restare lì, a due passi da un animale che potrebbe colpirmi con un veleno mortale, aspettare, e sperare che il pericolo al mio fianco non si riveli più mortale di quello dall’altro lato della pietra.

Non so quanti minuti siano passati, ma non sento più nemmeno l’eco di una canzonaccia. La vipera di fianco a me non si è mossa: forse è ferita o malata, dal momento che non è ancora il tempo del letargo. Con estrema cautela esco dal mio nascondiglio, mi guardo intorno e, non appena comprendo di essere nuovamente sola, ricomincio a camminare più spedita che posso.


In pochi passi sono fuori dalla foresta, e mi trovo all’inizio di una radura assolata. Inizio a correre verso ovest, cercando di trattenere la paura che mi serra lo stomaco. Non si tratta solo di apprensione, perché il prato non offre i medesimi ripari della foresta, ma anche di preoccupazione per l’immediato futuro, che ho cercato di trattenere finora, ma che ora incombe su di me come una minaccia.

E se il rifugio fosse stato trovato dai fascisti che ho appena incontrato, o da altri? Che cosa farò, dove mi nasconderò? Corro con le lacrime che mi scorrono sulle guance. Più cerco di non pensare al mio recente passato e più i cadaveri riversi sul prato, il legno bruciato, il sangue sull’erba mi accerchiano come spietati fantasmi. Ed all’improvviso non sono più Mia, l’intrepida staffetta partigiana, ma la piccola Marisa, l’ultima di tre figli, la ragazza più minuta del paese.


Tra le lacrime riesco a scorgere un edificio in legno: il mio traguardo! È completamente serrata, ma sembra integra. Con un ultimo sforzo arrivo di fronte alla porta e busso secondo il segnale convenuto. La serratura scatta, la porta si apre di poco, ed intravedo una signora con un fazzoletto in testa. Sgattaiolo dentro e, anche se sto entrando al buio ed al freddo, è come se all’improvviso avessi visto la luce.

* * *


Di nuovo un risveglio nell’oscurità in una stanza. Questa volta, però, sono su un vero letto, dalle persiane filtra la luce del tramonto, e la mia missione è finalmente compiuta. Norma, la donna che abita in questo rifugio, è stata felice di accogliermi. Ovviamente questo non è il suo vero nome: mi ha detto che le è stato dato dal comandante a cui fa riferimento, un ex professore di musica che ha perso il posto durante la guerra e dà a tutte le donne e ragazze dei soprannomi derivanti dall’opera lirica. Le ho riferito il messaggio, ho mangiato un po’ di formaggio e poi credo di essere crollata, perché non ricordo nulla.

Mentre mi alzo e cerco di capire se ho davvero dormito tutto il pomeriggio, Norma entra nella stanza.
Ah, ti sei svegliata! Bene. Tra poco è pronta la zuppa. Puoi cenare con me e restare qui per la notte. Domani farai ritorno alla tua base.”


Poco dopo, siamo entrambe sedute su un piccolo tavolo di legno spesso, in una povera cucina, di fronte a due scodelle fumanti. Norma è silenziosa, ma, anche se sembra una donna dal carattere chiuso, ho l’impressione che la mia presenza le faccia piacere.
A chi verrà consegnato il mio messaggio?” le chiedo in tono quasi casuale.
Tra due giorni arriverà qui un’altra staffetta, da Alba.”
Come mai sempre da Alba? Anche i miei fratelli sono stati mandati lì.”
Hai mai sentito parlare della creazione delle Repubbliche partigiane?”
Sì, certo. Delle zone completamente libere dal nazifascismo, gestite dai nostri comandanti. Mi hanno detto che l’anno scorso ci hanno provato nella zona di Caporetto, ma è stata una faccenda breve.”
A Caporetto si sono fatti cogliere impreparati, erano in una zona isolata” risponde Norma scuotendo la testa. “Ma se riusciamo a formarne due vicine ed alleate… una qui nelle Langhe, ed una ad Alba… uniti possiamo essere più forti.”
Resto in silenzio, non sapendo bene che pensare della novità.
Che c’è, hai paura dei fascisti? Dei repubblichini? I nostri comandanti ne hanno più di noi, stai sicura.”
Sai che al limitare della foresta ne ho trovata una banda? Li ho evitati per un pelo. Erano ubriachi, cantavano sguaiatamente. Mi hanno messo i brividi” le confesso, ripensando ai terribili minuti che ho passato nascosta.
Sono allo sbando” replica Norma, con espressione dura e rabbiosa. “Hanno perso la loro guida. Tanti di loro si sono aggregati al Partito o, peggio, alle camicie nere per poter essere intoccabili. Per fare quello che volevano, per ferire ed umiliare chi era più debole, per essere liberi di uccidere un nemico personale. Ed ora… l’Armistizio li ha distrutti, li ha sparsi per l’Italia come e peggio di noi partigiani. Tocca anche a loro sentirsi braccati, finalmente.” conclude, non nascondendo una certa soddisfazione.

Per qualche minuto nessuno parla. Finisco le ultime cucchiaiate di zuppa e bevo un sorso d’acqua, chiedendomi se è il caso di confidare a Norma quello a cui ho pensato mentre i fascisti si allontanavano ed osservavo il serpente dormire accanto a me.


Alla fine mi decido: “A volte penso che, più delle camicie nere, mi spaventano le vipere.”
Norma mi osserva incuriosita: “In che senso?”
Ho aspettato tra pietre ed arbusti che i fascisti se ne andassero, ma mi sono resa conto che la mia compagna di nascondiglio era una vipera. E quando li ho sentiti allontanarsi, mi sono resa conto di aver avuto quasi più paura di lei.
Quello che voglio dire è che la violenza del prepotente atterrisce, ma non sorprende. Alcuni ragazzi del mio paese si erano uniti alle camicie nere anni fa, ma erano egoisti che cercavano il loro tornaconto anche quando portavano solo degli sbrindellati pantaloni da lavoro. Certo, non lascia tranquilli il pensiero che un gruppo di persone arroganti ed egocentriche si riuniscano tutte sotto una guida, ma non sorprende. Sono quasi prevedibili, con il loro farsi forza in gruppo, le loro ubriacature per recuperare quel coraggio che in fondo non hanno, il cieco richiamo del sangue a cui obbediscono senza farsi domande.
Ma ciò che mi agghiaccia, che mi toglie il sonno, che a volte mi fa perfino dubitare di me stessa, è la vipera. L’animale dormiente che tu consideri inoffensivo e che aspetta che tu ti addormenti ed abbassi la guardia per consegnarti ad un’orribile fine.
Persone che conoscevo, che erano amiche dei miei genitori, che stimavo. Che prima della guerra facevano meravigliosi discorsi contro il Regime, che predicavano la tolleranza, che talvolta aiutavano persino i più deboli.
Prima di decidere di salire qui sui monti, ho visto quelle stesse persone trasformarsi in bestie sotto i miei occhi. Le vedevo stare dietro alle loro finestre, osservare chi si comportava male, denunciare ai fascisti un minimo comportamento sospetto. Non c’erano più i discorsi di ribellione in piazza e nelle taverne: solo una chiacchiera diffidente da balcone a balcone, scrutandosi con astio malcelato, rendendosi conto che la lotta per la sopravvivenza non cessava neanche per un minuto, e poteva essere tra vicini, tra amici, persino tra parenti.”

Mentre mi sfogavo, Norma mi osservava, annuendo leggermente con il capo.
Che cosa ti fa maggiormente paura?” mi chiede, infine.
Ho paura di svegliarmi una mattina e vedere che la vipera non è più di fianco a me, ma dentro di me. Ho paura che esca dal mio cuore e faccia del male a qualcuno. Ho paura della bestia che è dentro di me.”


Norma non ha dato una risposta alle mie angoscianti domande, ma so che ha capito. Sa che sta pensando anche lei a quello a cui penso io: le rappresaglie, le esecuzioni, quella guerra sui monti senza esclusione di colpi che sembra ancora peggiore di quella ufficiale. Ha portato la sua sedia accanto all’ingresso, dove una persiana rotta mostra una minima parte del paesaggio esterno.
Vieni qui a vedere” mi dice infine, alzandosi e cedendomi il posto.
Mi siedo ed osservo fuori dal minuscolo spiraglio, ma vedo solo una porzione di prato ed i primi alberi della foresta che, ora che sta calando la notte, sembra esattamente quel che è: un bosco di montagna, la meta delle gite felici della mia infanzia.

Vedi, Mia?” prosegue Norma. “Quella foresta, oggi, è stato il tuo incubo, vero?”
Annuisco. “Forse lo sarà anche domani” aggiunge lei. “O forse domani ti faranno più paura le vipere, o le camicie nere, o chissà cos’altro ancora. Non possiamo prevedere gli incubi che ci attanaglieranno tra due o tre mesi, ma nemmeno tra due o tre giorni. Dobbiamo pensare a quello quotidiano, ed essere felici se l’abbiamo superato. Ed un giorno dopo l’altro, un incubo dopo l’altro, in qualche modo andremo avanti. Anche se siamo due povere donne chiuse in una baracca e non possiamo nemmeno goderci il tramonto e l’estate, noi stiamo andando avanti. E il mondo con noi. Io non lo so se riusciremo a creare queste Repubbliche partigiane. Magari no. Magari la liberazione verrà da un’altra parte. Ma usciremo da tutto questo.”

Mi volto verso Norma con un briciolo di sorriso. “Sì, dobbiamo crederci. Un giorno sarà tutto finito. E quel giorno saremo finalmente liberi.”



FINE



Come già lo scorso mese, attendo con curiosità i vostri commenti!
Vi invito anche a seguire gli altri post del mese appartenenti alla rubrica “Storytelling chronicles”, in modo da scoprire altri racconti ambientati nella foresta.
Nel frattempo, buon 25 aprile a tutti voi!
Grazie per la lettura, al prossimo post :-)