Spazio Scrittura Creativa: settembre 2023
Cari lettori,
benvenuti all’appuntamento con lo “Spazio Scrittura Creativa” del mese di settembre!
Dopo la pausa di agosto, iniziamo insieme una nuova annata di racconti. Spero di cuore di riuscire ad essere costante e di potervi proporre regolarmente questo appuntamento. Purtroppo sappiamo tutti che quel che si dice a settembre è una cosa e quel che si riesce a fare già a novembre inoltrato è un’altra, ma sappiate che io ci metterò del mio meglio, perché questa è una delle rubriche più impegnative per me, ma anche più soddisfacenti.
Settembre, un mese sempre diverso. L’anno scorso è stato un mese di passaggio tra la mia vecchia rubrica di scrittura creativa in collaborazione (Storytelling Chronicles) e la nascita di “Spazio Scrittura Creativa”. Due anni fa vi ho parlato di ritorno a scuola. Tre anni fa del mio desiderio di tornare a danzare dopo il primo lockdown (purtroppo non avevo previsto che mi sarei dovuta accontentare delle videolezioni per molti mesi).
In un modo o in un altro, settembre porta sia dei ritorni che dei cambiamenti. Per questo motivo oggi ho pensato di parlarvi di una protagonista che decide di fare un bilancio e di rivalutare tutte le cose della sua vita che ormai le vanno strette.
Forse è una storia più riflessiva di altre che ho scritto, ma spero che apprezzerete comunque.
Vi lascio con La lista!
La lista
Odio darti una soddisfazione
chiedendoti come stai ora
com’è il castello che hanno costruito le persone
di cui fai finta di interessarti?
Proprio quel che volevi!
Guardati, ragazzo in gamba, ce l’hai fatta
“…
15) Non dovrai cercare di ridere a sciocche battute, altrimenti si offende.
16) Il calcio sarà di nuovo fuori dalla tua vita!
17) Basta una volta per tutte con quel terribile ristorante da nouvelle cuisine.
18) Potrebbe essere la volta buona che finisci il blister delle pastiglie per la gastrite e non lo ricompri più.
19) ???”
Irene si bloccò, indecisa su cosa aggiungere a quella nota del cellulare che stava già diventando più lunga del previsto. No, per quel giorno non le veniva in mente nient’altro. Eppure sarebbe stato facile aggiungere altre voci, sia su argomenti frivoli che su altri molto seri. Si stava ancora spremendo quando un rumore improvviso dall’altra parte del corridoio fece vibrare la porta. Irene la fissò, sperando che non si aprisse da un momento all’altro. Ti prego, non un’altra collega in pausa pranzo, non oggi, non mi va.
E dire che lo aveva ripetuto per mesi in tutte le salse agli stagisti di belle speranze che era stata costretta a torchiare, a quei pochi che erano riusciti a raggiungere il tanto desiderato status di “dipendenti a tempo indeterminato” (per quanto teorico), ai candidati che aveva sottoposto a verbosi colloqui. In azienda si fa squadra, il team è tutto. Non ci si deve isolare, non si deve pensare solo al proprio compito, e soprattutto si deve approfittare dei momenti destrutturati per fare team building.
Che simpatiche sciocchezzuole, eh? Per essere educati. Se la se stessa di tre anni fa, ambiziosa e determinata, l’avesse vista dalla (sporca) finestra in quel momento, non la avrebbe riconosciuta. Con i capelli raccolti alla bell’e meglio ed il trucco colato, del tutto dimentica della sua postazione, chiusa a passare la sua pausa pranzo nella stanzetta/magazzino dove sostava brevemente solo chi era in arretrato con il lavoro, intenta a trafficare con il cellulare dopo aver piluccato di malavoglia un panino. La maggior parte dei suoi colleghi non sopportava quell’angusto stanzino ingombro di vecchi computer mai smaltiti in discarica – perché si sa che il buon impiegato aziendale rampante non si sporca le mani con questi lavori da plebei -, cartelloni utilizzati per le presentazioni nell’era pre-digitale – vedi sopra - e tanta polvere, così quasi nessuno ci metteva piede… a parte lei, ogni tanto. Negli ultimi mesi quell’ogni tanto era diventato spesso. Sapeva che lì era un luogo sicuro. Lui, con tutta la sua ingombrante presenza, i suoi discorsi a voce alta ed i look ai quali inspiegabilmente teneva, non si sarebbe mai azzardato a mettere piede in questo posto. E comunque, di lì a poco non sarebbe più stato un suo problema.
* * *
Vedo le feste ed i diamanti
qualche volta quando chiudo i miei occhi
sei mesi di tortura che mi hai venduto come
una specie di Paradiso proibito
ti ho amato veramente
dovrei ridere al pensiero della mia stupidità
Lo aveva letto sulla quarta di copertina di uno di quei romance che sua cugina Ludovica collezionava in una libreria Ikea, un tempo bianca ed ovviamente ridipinta di rosa. Su una copertina nera satinata, tra un trionfo di glitter argento, campeggiava il sottotitolo Mai innamorarsi del proprio capo. Ma i romanzi sono una cosa. La realtà, si sa, è un’altra storia.
Mattia non era esattamente il capo di tutta la baracca, semplicemente il responsabile del settore HR dell’azienda, quello in cui lavorava Irene. Era subentrato lì circa un anno fa, dopo che il suo predecessore, l’uomo che l’aveva assunta, era andato in pensione. Un anno che per Irene si era rivelato uno dei più difficili della sua carriera.
E sì che Mattia le aveva fatto una così buona impressione, all’inizio. Era piaciuto subito a tutti i colleghi, sia quelli più d’esperienza che i novellini come lei. Serio, determinato, preciso, pieno di nuove idee arrivate fresche dai corsi d’aggiornamento che non mancava mai di frequentare. Nonostante l’aria da professionista affermato, riusciva ad essere anche ironico, estroverso, socievole con tutti.
Ecco, stava di nuovo facendo l’elenco dei suoi (un po’ gonfiati) pregi. Tutto quello che aveva appena ripetuto nella sua mente era forse importante? Le mirabolanti qualità di Mattia, sia come leader in ufficio che come anima della festa, erano stati rilevanti per lei?
Con il senno di poi, erano state altre le cose importanti per lei. Una costante gastrite e una notevole insonnia, tanto per cominciare. Le mattine passate ad andare al lavoro chiedendosi se sarebbe stato il giorno delle battute ammiccanti o quello dello sguardo giudicante. Serate trascorse a guardare partite di calcio con una birra ghiacciata – difficile dire quale delle due cose le piacesse di meno – perché lui stranamente adduceva qualche scusa per non uscire, dalla stanchezza alla troppa gente in giro… un atteggiamento insolito per una persona che ama stare al centro dell’attenzione. I giorni china sul computer o chiusa nella stanza dove faceva colloqui, con il terrore di intravedere un lembo di quelle giacche colorate che Mattia si ostinava ad indossare per fare il finto giovane, non sapendo se temere di più un’osservazione lavorativa o una provocazione di altro genere. Quella serata passabile che le era parsa fantastica, in un ristorante lontanissimo e con porzioni degne di un gattino con le coliche. Le parole dolci che lui le diceva in privato per poi chiuderle il cancello in faccia, e non in senso metaforico, davanti a tutti.
Una soverchiante confusione che la dominava ogni singolo minuto, la sensazione di essere sulle nuvole ed abbandonata in un angolo buio allo stesso tempo. Il controllo sulle proprie emozioni completamente perduto perché il timone era in mano a qualcun altro.
Qualcun altro che, in definitiva, aveva qualcun’altra. La sua incantevole fidanzata, appena tornata da una trasferta aziendale in Cina durata sei mesi. Se non avesse captato una conversazione casuale al lavoro, se non si fosse fatta forza ed avesse ascoltato il resto del dialogo restando inchiodata sulla sedia davanti al computer e simulando disinteresse, Irene non l’avrebbe neppure scoperto. Era rimasta lì, a fare finta di lavorare, con un peso di ferro sul petto, spiegandosi finalmente perché in quelle ultime settimane si fossero visti sempre nel suo minuscolo appartamento invece che nell’attico superlusso di Mattia.
Manco a dirlo, informazione acquisita, egli non aveva ritenuto opportuno fornirle una spiegazione. È tornata la titolare, la sostituta deve andare, grazie mille. Ed Irene lo aveva preso in parola.
* * *
Perché ho fatto alcuni errori molto grossi
ma tu hai fatto il peggiore, dare una buona impressione
avrei dovuto sapere che era strano
tu esci solo di notte
ero solita pensare di essere intelligente
ma tu mi hai fatto sembrare così ingenua
il modo in cui mi hai venduta a pezzi
mentre affondavi i tuoi denti dentro di me
succhiasangue, arrampicatore sociale,
mi hai prosciugata come un dannato vampiro
Si era perfino dimenticata di essere in quella graduatoria. Apparteneva ad un passato lontano, ad un’altra Irene: la neolaureata in Filosofia che non si sentiva ancora sicura di attaccare la grande città e le sue aziende e così aveva deciso di seguire il consiglio universale di tutti i parenti d’Italia, ovvero tentare i concorsi pubblici. Pensava che quell’unico elenco in cui era riuscita ad inserirsi avesse una data di scadenza ormai superata, e così non era. Invece poco dopo Ferragosto, quando lei era ancora in spiaggia a riprendersi dalle fatiche di un anno durissimo, era arrivata quella convocazione.
Da ottobre sarebbe tornata al suo primo amore, la cultura. Non sapeva perché avesse accettato subito, ma sospettava che c’entrasse molto quel che le era successo negli ultimi tempi.
Il magazzino inutilizzato era diventato la sua piccola ancora, il suo spazio sicuro per riflettere. Il ritorno dalle ferie non era stato semplice. C’era da concordare con i capi un passaggio di consegne, c’erano conversazioni da sostenere con tutti i colleghi, c’era la burocrazia da preparare per il cambio di lavoro. C’erano, ovviamente, le sciocche frecciatine di Mattia sul sentirsi abbandonato e sulla discutibile scelta di Irene di lasciare l’azienda per un posticino statale anni ‘60. Il tutto ovviamente in pubblico e con grande imbarazzo, perché in privato non aveva più il tempo (o il coraggio?) di affrontarla.
Era per questo motivo che Irene aveva iniziato a scrivere quella nota sul cellulare, che aveva intitolato La lista del vampiro. Voleva mettere nero su bianco tutti i vantaggi del non avere più a che fare con Mattia, perché sapeva che qualche nostalgico giorno d’autunno, china sugli atti amministrativi, avrebbe iniziato ad idealizzare sia lui che la loro cosiddetta relazione. Per il momento aveva scritto solo cose leggere ed ironiche, ma sapeva che le più pesanti premevano dentro la testa per essere affidate alla carta e lasciate andare.
Aveva ancora bisogno di tempo. Stava andando incontro ad una nuova fase della sua vita ed aveva la sensazione che il suo caro Francis Bacon le avrebbe detto: “Bene, con la pars destruens stai andando alla grande, ma ora ti ci vuole un po’ più di pars construens.”
* * *
Oh, che ipnotizzante, paralizzante, sbagliato
piccolo brivido
non capisco come tu faccia
e Dio sa che non lo capirò mai
Anche quella sera aveva fatto tardi, e la mattina dopo avrebbe dovuto iniziare le selezioni per un nuovo stagista, gli ultimi colloqui che le erano stati affidati.
Il resto dell’ufficio non assomigliava al suo caro magazzino: era uno spazio quasi asettico, pieno di bianco, acciaio ed apparecchiature tecnologiche. Irene se n’era sempre sentita un po’ intimidita. Il tragitto obbligato verso l’ascensore prevedeva il passaggio davanti all’ufficio di Mattia, ma Irene sperava che se ne fosse già andato. Speranza vana.
Già avvicinandosi si sentivano sia le voci di Mattia che di uno dei dirigenti. La porta era semichiusa e, quando Irene si voltò per un saluto formale, vide solo Mattia seduto alla scrivania: l’altra persona era al di fuori del suo campo visivo.
Mattia la guardò senza salutarla, poi si voltò. Uno sguardo di vergogna e soddisfazione allo stesso tempo, lo sguardo di una persona che sa benissimo di avere torto marcio ma si prende la ragione perché l’altro non è stato niente per lui se non una bella statuina da usare e buttare. Era troppo, era peggio di mille frecciatine, dei tentativi di confronto che si erano rivelati inutili, era persino peggio di una sfuriata.
Irene schizzò nell’ascensore e corse fuori dalla porta principale.
Passo dopo passo, la sua camminata diventava sempre più una corsa disperata. Voleva raggiungere il parcheggio (“Dannazione, perché quello dell’azienda era pieno? Proprio oggi dovevo lasciare la macchina così lontano?”), voleva andare a casa, voleva la fine di quella dannata settimana.
Il cielo diventava sempre più buio, preannunciando uno degli ultimi temporali estivi. Un po’ per la fretta, un po’ per la preoccupazione, Irene guardò in alto, del tutto dimentica delle macchine in manovra nel parcheggio aziendale che stava attraversando. E fu così che pochi secondi dopo si ritrovò a terra, con il fianco sinistro dolorante.
“Allora, che ti è successo?”
Ludovica era venuta a prendere Irene fuori dal pronto soccorso dove era stata trasportata di corsa dopo l’incidente. L’autista era un collega di un altro settore che doveva essere più stravolto di lei, dal momento che uscendo in retro non l’aveva proprio vista. Si erano entrambi spaventati, perché con i traumi causati dall’impatto con un’auto c’è poco da scherzare, ma fortunatamente non c’era molto a parte tanta paura e dei lividi.
“Ho preso una brutta botta, Ludo. Ma niente di che. Un paio di giorni a riposo intanto che si riassorbono i lividi.”
“Irene, ma hai il fianco sinistro a strisce bianche e viola!”
“Fa più male quello che è successo prima. Credimi. Avrei potuto evitare questa stupidata, se solo...”
“Se solo?”
“Non avessi pensato ad altro mentre attraversavo il parcheggio.”
“Altro, eh?”
“Il solito.”
Ludovica fece un grande sospiro, continuando a fissare la strada ed immettendo l’auto nel quartiere dove abitava Irene.
“Lo vuoi il consiglio non richiesto della scrittrice di romance?”
“Perché no? Tanto, a questo punto...”
“...a questo punto ci vuole il consiglio dell’esperta? No, non volevi dire questo? Va beh. Secondo me hai sempre dato troppa importanza a Mattia. A sentirti parlare sembrava che tu non volessi lui, bensì diventare come lui… e la cosa ti andava pure stretta.”
“Volevo solo… reimparare con lui la parte bella del mio lavoro. Lo stimavo. Ma quando mi sono resa conto che era un bluff in vari sensi, ho iniziato a farmi tante domande.”
“Domande che ti hanno portato alla decisione di quest’estate?”
“Non so… sai che ti dico? Forse sì. Forse, davvero, sì. Quando ho accettato la convocazione dal Comune, è stata una decisione di pancia. Mi sono detta che era per chiudere per sempre questa brutta parentesi con Mattia. Ma credo che non sia solo quello. Ti ricordi che cosa dicevo sempre quando mi ero appena laureata?”
“Che la Filosofia non era pura teoria? Che poteva essere utile per gli altri? Qualche cosa del genere...”
“Esatto! Mi sono buttata nelle risorse umane perché pensavo che avrei aiutato le persone. Che gestire il personale mi avrebbe aiutato a cambiare il sistema dall’interno, che le persone si sarebbero rivolte a me per i loro problemi, che in azienda si sarebbe diffuso un po’ di benessere anche grazie a me. E poi non so come mi sono ritrovata a dover mettere a disagio qualche fanciullo imberbe su ordine dei miei capi, a rimandare indietro i dipendenti che reclamavano diritti con qualche scusa di facciata, a guardare in volto la gente ed a mentire consapevolmente. Non mi piace come sono diventata. È un mondo per quelli come Mattia, non per me.”
“E allora sai che ti dico? Che hai preso la decisione giusta. Organizzare eventi culturali gratuiti o a ticket ridotto con il budget pubblico mi sembra davvero utile. C’è bisogno di cultura. E di lettura. Vero che inviterai anche qualcuno dei miei autori preferiti? Vero?”
* * *
Tu hai detto che era vero amore, ma non sarebbe stato difficile?
Tu non puoi amare nessuno
perché vorrebbe dire che hai un cuore
ho provato ad aiutarti, ora so che non posso
perché il tuo modo di pensare è un genere di cosa che non capirò mai
La sedia delle torture era già occupata da una ragazza magra ed elegante che si torceva le mani sotto il tavolo. Il curriculum sul tavolo e la camicetta ben stirata davano un’impressione di sicurezza, ma le spalle incassate e le pupille troppo mobili facevano intuire che cosa quella poveretta pensasse davvero dell’essere qui.
“Dunque, candidata Rinaldi, giusto?” disse Irene guardandola dritta negli occhi.
La candidata Rinaldi la fissò con uno stupore del tutto nuovo. Irene poteva capirlo. Dopo almeno una decina di colloqui passati a sentirsi chiamare Chiara, a sentirsi dare arbitrariamente del tu e ad essere trattata con paternalismo, il tono professionale ed il cognome dovevano essere delle gran sorprese.
“Lei ha presentato domanda di stage qui presso la nostra azienda. Posso sapere come mai?”
Ho bisogno di lavorare, se resto a casa tutti mi vedranno come una fallita, non so che diavolo fare della mia vita, mi piaceva tanto studiare ed ora boh, dentro di me preferirei stare ancora un po’ a riflettere sul post laurea e su cosa mi piace fare ma tutti i miei amici stanno attaccando alla grande col mondo del lavoro, non posso deludere i miei genitori che mi hanno pagato gli studi, sarebbe anche ora di portare qualche soldo a casa, mi hanno già detto un sacco di cattiverie sulla mia laurea umanistica, mi hanno consigliato di buttarmi sul settore HR perché in altri contesti c’è tanta precarietà e “non te la cavi più”.
Irene vide distintamente passare in un secondo tutti i pensieri nella testa della ragazza, quegli stessi che lei aveva avuto 10 anni fa. Alla fine, la candidata Rinaldi fece un bel respiro e rispose: “Sono molto interessata al mondo delle risorse umane e penso che potrebbe essere un’opportunità di crescita professionale e di formazione.”
Irene sorrise lentamente alla giovane.
“Mi rendo conto che questa frase abbia fatto una buona impressione su qualche mio collega selezionatore altrove. Ma facciamo così: lei mi racconti semplicemente perché questa scelta è il meno peggio per lei in questa fase della sua vita. E se il colloquio andrà a buon fine, si ricordi che è comunque libera di prendere le sue decisioni da persona adulta.”
La candidata Rinaldi sorrise a sua volta.
27) Riuscirò finalmente a lasciare andare l’illusione di una vita che non mi appartiene più.
Irene salvò la nota sul cellulare, convinta di essere ormai arrivata all’ultimo punto. Aveva riflettuto molto su quello che lei e Ludovica si erano dette qualche giorno prima. Era arrivata alla conclusione che, vedendo frustrato il suo desiderio di aiutare gli altri, aveva finito per non voler bene più neppure a se stessa. La Lista del Vampiro l’aveva aiutata ad archiviare una storia sbagliata, la lista della graduatoria l’aveva riportata ad una carriera lavorativa che le avrebbe permesso di fare qualcosa di socialmente utile… e per completare la triade era necessaria una terza lista. Una lista di obiettivi da conseguire, di esperienze da fare, di momenti belli da collezionare… esclusivamente per se stessa. Tutto ciò che aveva messo da parte ogni volta che il lavoro la chiamava. Il suo piano per un anno intero di piccole felicità. Dopo un’intera serata, questo era quello che le era venuto in mente:
1) Rinnovare la cucina.
2) Fare una gita autunnale.
3) Preparare dolcetti per Halloween ed invitare le amiche.
4) Andare ai mercatini di Natale.
5) Vedere il mare d’inverno.
6) Riprendere con il nuoto! Senza scuse!
7) Imparare un po’ di giardinaggio.
8) Vedere montagna e lago in primavera.
9) Dedicare più tempo alla famiglia ed agli amici.
10) Fermarsi – davvero – ogni volta che sono troppo stanca.
Era sicura che settembre sarebbe stato un mese fantastico per ripartire.
FINE
Eccoci arrivati alla fine!
Io ho scritto fin troppo, quindi lascio la parola a voi.
I versi che accompagnano il racconto sono di Vampire di Olivia Rodrigo, che trovate qui.
Mi piacerebbe tornare a parlare di questa protagonista, ma non ho ancora le idee chiare. Intanto fatemi sapere che ne pensate voi!
Grazie per la lettura, al prossimo post :-)
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