Novecento in poesia #1
Cari lettori,
benvenuti ad un nuovo appuntamento con “L’angolo della poesia”… il primo di una lunga serie, mi auguro!
Come sapete, ogni anno a partire da settembre mi piace dare inizio con voi ad un nuovo progetto letterario. L’anno scorso abbiamo visto le tragedie di Sofocle da settembre a febbraio, quindi ci siamo dedicati alla narrativa con la rilettura de L'amica geniale e quattro post di lettura ed analisi.
Visto che l’anno scorso siamo tornati nel mondo classico e due anni fa eravamo in pieno Medioevo con la Commedia dantesca, ho pensato che sarebbe stato piacevole vedere con voi qualcosa di più recente: il Novecento italiano.
L’ispirazione mi è venuta sfogliando nuovamente, a ben dodici anni dall’esame universitario che avevo sostenuto (sì, sono una vecchietta), la raccolta Il canto strozzato, uno dei manuali che avevo utilizzato per Letteratura italiana contemporanea. Dopo una serie di saggi ed atti di convegno, la seconda parte del volume è costituita da un ampio campionario di testi. C’è davvero di tutto: da quegli autori imprescindibili che tutti hanno studiato in quinta superiore ai meno noti che sono stati scoperti recentemente, da personaggi che sono stati noti per una carriera artistica diversa dalla poesia a professori universitari ancora viventi.
Ho riletto con attenzione questa raccolta ed ho pensato di suddividere “a modo mio” le poesie in essa contenute. Ho individuato undici temi chiave, e vorrei vederli con voi mensilmente, in modo che i poeti del Novecento ci possano accompagnare per tutta questa annata di blogging, fino alla prossima estate (è un bel po’ di tempo, lo so… ma fidatevi, volerà fin troppo).
Le poesie che ho scelto di volta in volta saranno accompagnate da alcuni miei scatti. Mi è capitato di associare i miei post di poesie a dipinti famosi, o ad immagini che mi avevano ispirato su internet, ma stavolta ho pensato che sarebbe stato bello farvi vedere con delle foto mie quello che mi è venuto in mente quando ho letto ognuno di questi componimenti.
Il primo tema, forse uno dei più classici e semplici da capire ma per me mai scontato, è il contatto con la natura, declinato in moltissimi modi. Vediamo insieme quali!
Memorie d’adolescenza, di Riccardo Bacchelli
Stanco, felice, abbagliato di meraviglie,
sdraiato tra occhi di sole sull’erba io tocco terra,
ma gli occhi si perdono e entrano per i laghi
di azzurro dove spaziano per il cielo i grandi venti,
e ammassano le nuvole che si salgono incontro,
dove vorrei sprofondare e perdermi.
Vittorio Sereni, di Franco Buffoni
Il sentiero scendeva sulla fronte di Armio,
Lago d’inverno stropicciato solo.
Se ne andava con profondi squarci
Nel ritratto d’acqua dell’acqua che indossava
E il suo cavallo sollevava onde di polvere
Nello sguardo semplice del cielo.
I pini salivano nel buio
- ripeteva a nascondersi
tra stelle decenti
coi soli sorrisi -
E adesso erano proprio tutti uguali.
Su un vecchio appunto, di Giorgio Caproni
(Ora, sazio della città – delle sue tentazioni e dei suoi crimini – mi sono ritirato al limitare del bosco. Ad appagarmi la vista, poco mi basta: lo scintillio del fiume nel sole del mattino, giù a fondo valle. Un albero…)
Un albero…
Com’è leggero
un albero, tutto ali
di foglie – tutto voli
verdi di luci azzurre nel celeste
dell’aria…
E com’è forte,
un albero, com’è saldo
e fermo, «abbarbicato
al suo macigno...»…
Viene
l’autunno, e come
la Fenice s’accende
nel rosso del suo rogo.
Viene
primavera, e splende
d’altro suo verde…
Ma noi,
noi, al paragone,
che cosa e chi siamo, noi,
senza radici e senza
speranza – senza
alito di rigenerazione?
Da “Armonia in grigio et in silenzio”, di Corrado Govoni
- Ne la corte – Tre stracci ad asciugare
sul muricciolo accanto al rosmarino.
Una scala seduta. Un alveare
vedovo, su cui gioca il mio micino.
Un orciuolo che à sete sul pozzale
di marmo scanalato tra le funi.
Dei cocci gialli. Un vaso vuoto. Un fiale
che à vomitato. Dei fogliami bruni.
- Su le finestre – Un pettine sdentato
con due capelli come dei pistilli.
Un astuccio per cipria. Uno sventrato
guancialino di seta per gli spilli.
Una scatola di belletto. Un guanto
mencio. Un grande garofano appassito.
Una cicca. Una pagina in un canto
piegata, da chissà mai quale dito!
- Per l’aria – La docile campana
d’un convento di suore di clausura.
Una lunga monotonia di zana.
Un gallo. Una leggera incrinatura
di vento. Due rosse ventarole
cifrate. Delle nubi bianche. Un treno.
Un odore acutissimo di viole.
Un odore acutissimo di fieno.
Da “Madrigale e Cairn”, di Cesare Greppi
Questo pomeriggio è liscio,
la sua piccolezza verrà
difficilmente consumata:
è il rumore e la sua spoglia
dei passi di cui trema
è l’acqua che saliva
e gli stormi come chiama
foglie povere e vento
la tua voce in fiamme.
Mappa del cielo invernale, di Margherita Guidacci
Con la mappa del cielo invernale, che tu hai disegnato per me,
uscirò prima dell’alba in una piazza ormai vuota
d’uomini e alzerò gli occhi ad incontrare
i viandanti stellari che lentamente si muovono
intorno al polo dell’Orsa. Ai più spendenti
chiederò: «Sei tu Rigel? Sei tu Betelgeuse?
O Sirio? O la Capella?», restando ancora in dubbio
(tanta è la mia inesperienza nonostante il tuo aiuto)
su quale sia la risposta. E intanto penserò
a San Juan, perché quella sarà la notte di Dio,
dopo la notte dei sensi e dell’anima; e le stelle,
riconosciute o ignote, saranno per me tanti angeli
il cui volo silenzioso mi conduce verso il giorno.
E penserò anche a te, che da un altro parallelo contempli,
ugualmente assorto, lo stesso firmamento,
sentendo come me un gelo esterno ed un fuoco interiore,
mentre i nostri cuori lontani, che sono ancora imprigionati nel tempo,
lo scandiscono all’unisono.
Libeccio, di Mario Novaro
Libeccio furioso sfrenato
tu che pieghi durevolmente gli ulivi,
che pur nella calma
a te seconde stendan le braccia:
tu vento che l’onde volgi maggiori,
che i moli oltrepassino gonfie
spumeggiando in tumulto,
belle e tremende a vedere:
libeccio, tu che soffi che soffi a gran voce
coprendo la voce del mare
(oh come tu amando lo sferzi!
Fin qui sul colle gli spruzzi ne sperdi!)
bruciando, rapendo
pur le foglie de’ lecci tenaci,
strinando i pini
e alle palme le chiome di serpi
che per te sibilano
e urlano col mare in gara:
non mi sdegnare!
Poi che sempre sempre io ti amai:
soffia, soffia, soffia,
non aver pace nel cuore mio!
Oh non è in pianto
che tu rompi il tuo canto possente:
la pioggia che ti scroscia seguace
lava il cielo e la terra feconda.
Da “Esilio”, di Alessandro Parronchi
Il cielo si richiuse. Alta splendeva
la luna, poi di nubi
rotolò un grigio e denso si diffuse.
Poi da cespi fioriti in terrecotte
un profumo esalò la mezzanotte.
Avvicinatosi a una porta, l’ombra
l’investì, lo sommerse, attraversata
che l’ebbe
era una moltitudine
d’uomini che scalzi lo seguivano
ne sentiva il respiro non osava
guardarli ma sapeva che piangevano.
L’ultimo canto, di Elio Pecora
Forse la prova fu in questo andare per acque
mai ferme sotto i cieli sopra gli abissi
incontro a porti segnati su logore mappe
e ancora in questo snodare funi d’inganni
chiusi dentro l’inganno che tutto include
così seguitando le attese le congetture.
Dunque sostiamo fra le mura e gli arredi
dicendoci eventi remoti grovigli di storie
il colmo amore attimo fulminante
il nostro ultimo loro esteso dolore
un canto accennando breve come un saluto:
«...la segreta allegria
di starsene affacciato
il cammino malcerto
nel percorso tracciato
l’arbusto che s’infoglia
il cielo che imbruna
dentro i vetri la luna… »
Da “Poesie”, di Sandro Penna
Se la notte d’estate cede un poco
su la riva del mare sorgeranno
- nati in silenzio come i suoi colori -
uomini nudi e leggeri che vanno.
Ma come il vento muove il mare, muovono
anche, gridando, gli uomini le barche.
Sorge sull’ultimo sudore il sole.
Il pino, di Camillo Sbarbaro
Si torce il pin rachitico
sulle ferrigne creste,
sotto lo schiaffo o al brivido
di borea che l’investe;
e, sempreverde setola
sulla spelata schiena d’un onagro,
s’abbranca al tufo magro,
che ghigna e fra le barbe arse si sgretola.
E ‘l torrentaccio, torbido
di rovi sassi e mota,
che furibondo avventasi
verso la meta ignota,
urla a borea che ascolta
e che nell’irto crine al pino caccia
le cento ferree braccia:
«Buttalo giù, buttalo giù una volta!»
Ma canta il pin: «M’abbarbico
io solo dappertutto.
Che val se cresco tisico
in apparenza e brutto?
Se la mia foglia è un ago?
Se per tronco mi diede il tufo stitico
la spina d’un rachitico?
Anche così di vivere son pago.
Piccola goccia bastami
per essere felice;
e sol se il tufo ruvido
all’avida radice
anche la goccia lesina,
e invano aspetto il generoso fango,
allora solo piango;
e profumate lagrime di resina.»
I, 19
Il mio cuore si gonfia per te, Terra,
come la zolla a primavera.
Io torno.
I miei occhi son nuovi. Tutto quello
che vedo è come non veduto mai:
e le cose più vili e più consuete,
tutto m’intenerisce e mi dà gioja.
In te mi lavo come dentro un’acqua
dove si scordi tutto di sé stesso.
La mia miseria lascio dietro a me
come la biscia la sua vecchia pelle.
Io non sono più io, io sono un altro.
Io sono liberato di me stesso.
Terra, tu sei per me piena di grazia.
Finché vicino a te mi sentirò
così bambino, fin che la mia pena
in te si scioglierà come la nuvola
nel sole,
io non maledirò d’essere nato.
Io mi sono seduto qui per terra
con le due mani aperte sopra l’erba,
guardandomi amorosamente intorno.
E, mentre così guardo, mi si bagna
di calde dolci lacrime la faccia.
Da “I violini del diluvio”, di Toti Scialoia
Sono in attesa da un’ora
sul lungolago – con l’acqua
è facile il pari e patta
per chi annega il suo dolore.
La foglia della magnolia
viene giù dal ramo e batte
sul bordo del dormiveglia
il colpo di una ciabatta.
Lindoro di deserto, di Giuseppe Ungaretti
Dondolo di ali in fumo
mozza il silenzio degli occhi
Col vento si spippola il corallo
di una sete di baci
Allibisco all’alba
Mi si travasa la vita
in un ghirigoro di nostalgie
Ora specchio i punti di mondo
che avevo compagni
e fiuto l’orientamento
Sino alla morte in balia del viaggio
Abbiamo le soste di sonno
Il sole spegne il pianto
Mi copro di un tepido manto
di lind’oro
Da questa terrazza di desolazione
in braccio mi sporgo
al buon tempo
Albero, di Diego Valeri
Tutto il cielo cammina come un fiume,
grandi blocchi traendo di fiamma e d’ombra.
Tutto il mare rompe, onda dietro onda,
splendido, alle fuggenti dune.
L’albero, chiuso nel puro contorno,
oscuro come uno che sta su la soglia,
muto guarda, senza battere foglia,
gli spazi agitati dal trapasso del giorno.
Pastorale, di Rodolfo J.Wilcock
C’è un vetro in questa stanza, una finestra
di vetro opaco e resistente. Il sole
traccia sul vetro l’ombra di una pianta
e il rapido percorso di una mosca
in cicliche figure ricorrenti;
un cane dà la caccia a una gallina.
E dietro il vetro azzurro e verde, io.
Alla mia destra un muro di mattoni,
stipiti, soglia […]
Il sole muove le ore,
la crescita fomenta delle piante,
trascina le ombre, origina tramonti
e dà corso alla notte.
E a mezzogiorno allaga i prati gialli.
Volgo lo sguardo verso la città,
il gesto involontario degli assenti.
Un uomo falcia l’erba del giardino;
romba un motore, tubano colombe,
ruote, invisibili bambini, cani,
e il falciatore; ti amo
come le lente nuvole nel cielo
tranquillamente superiori.
Eccoci arrivati alla fine di questo primo appuntamento poetico!
Che ne pensate? Quale poesia avete preferito?
Conoscete questi autori? Io personalmente… non tutti, alcuni sono stati una scoperta!
Ormai mi conoscete, anche in questa occasione non posso fare a meno di confidarmi con voi. Sfogliando di nuovo le pagine de Il canto strozzato, mi sono fatta prendere dalla nostalgia. Ho pensato alle piccole e grandi felicità di quegli anni che non ci sono più, alle difficoltà della vita adulta. Alle complessità del mestiere dell’insegnamento, che di sicuro ribalta tutte le tue priorità rispetto a quando eri una studentessa universitaria. Ho provato nostalgia e scoramento e la sensazione che il cervello non sia più quello dei 20 anni… non lo nascondo.
Poi, come spesso mi accade quando torno sui miei passi, ho cercato di vedere le cose da un altro punto di vista. Ora che i volumoni universitari sono miei da anni, non sono più qualcosa che – per quanto io abbia amato la mia Facoltà ed i miei studi – non vedo l’ora di torgliermi di torno e portare in cantina perché sono -1 esame alla laurea. Sono miei, ci ho sudato. Mi possono servire per il lavoro, per il blog, anche solo per la gioia ed il piacere di riaprirli e comprendere che, dopo un po’ di anni, è rimasto quel che davvero importa: ciò che hai appreso e che torna sempre dentro di te, perché è un po’ come andare in bicicletta.
Passare da studenti e fruitori ammirati ma un po’ ingenui a possessori consapevoli del proprio sapere: anche questo per me è crescere.
Vi ringrazio già da ora se vorrete accompagnarmi in questo viaggio.
Grazie mille per la lettura, al prossimo post :-)
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