lunedì 13 novembre 2023

IL PASSATO

 Novecento in poesia #3




Cari lettori, 

terza tappa del nostro viaggio alle scoperta del Novecento in poesia! 

Insieme abbiamo letto di poeti a contatto con la natura, poi di emozioni e sentimenti. Oggi esploriamo una terra molto cara ai letterati di ogni epoca: il passato. Luoghi del cuore, momenti dell'infanzia, familiari ed amici perduti, amori lontani nel tempo: mi sembra che nulla manchi in questo piccolo inventario che ho cercato di fare. 

Oggi ci lasciamo un po' prendere dalla nostalgia... 



Paesaggio, di Riccardo Bacchelli


Perduta in boschi chiari d’Appennino,

sotto dai faggi e in mezzo a castagneti,

so la verde rovina di un mulino:

la ruota è infranta e rotto è il tetto, lieti


già d’opera frequente e d’abbondanza

finché la mola macinava il grano

come un cuore si nutre di speranza.


Forte ferveva e suscitava il vano

e blando polverio della farina,

che bianca sopra ogni oggetto tornava

nell’antro alacre. Sù la mugnaina

alla finestra al sole s’imbiondiva


fra garofani rossi. E pei sentieri

dell’alpe some di grano alla mola

del padre conducevansi, e pensieri

alla finestra di quella figliuola.


Finestra e valle ora deserte; e mina

il rio marcida ruota, che aggiaccata

or tacita si guasta e va in rovina

a valle insieme all’acqua umiliata.


Così gli affetti inceneriti in cuore

cadono e vanno, vanno i sensi umani,

cadon le voglie, simili al vigore

del rio fiaccato fra le macerie inani.



A mio fratello, di Angelo Barile


Ricordo un’ora vermiglia d’estate

che la sorella era al piano, le note

come da gronda cadevano: gocce

rotolavano chiare in una vasca

incandescente. Io l’ascoltavo, i sensi

in me già quasi svaporati.


E vedo

nel volto di ventanni la tua bocca

sporgere dolorosa, la tua anima

vedo che ti cammina per le labbra

a ghermire la musica. Alle soglie

trepidava dell’estasi.


Respinta

nutriva ancora di canto negato

una mestizia che sgorgò già adulta

intorno agli occhi del fanciullo. Un’ombra

vagò, li cinse di un alone; e fosti

ai confini del canto un’altra volta

mio fratello per la malinconia.



Le briciole nel taschino, di Maurizio Cucchi


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E va bene, io forse ce l’avrò per fissazione, d’accordo,

sarò testone, d’accordo, ma porca madocina mi ricordo sempre

del nonno in questi casi, della nonna,

del casotto (dell’orto) tutto ruggine,

riempito di badili, pezzi di legna, tolle,

bellissime cianfrusaglie tenute dacconto,

sacchetti di plastica con cordine fatte su, elastichini, lucchetti, palline

di gazosa (verdi), chiodi, bulloncini, cacciavite, cerotti: così come

in casa al primo piano, in basso i detersivi nell’armadio a muro

e le bottiglie dell’olio e dell’aceto e sopra

scatolette zeppe di roba che chissà

potrebbe servire a qualche cosa

e così correre ravanare

bottoni pennini

e la boccetta dell’inchiostro, tutto asciugato, i tacchetti per le scarpe da

pallone, naftalina, immaginette, la coroncina del rosario dello scout e:

contagocce, bottiglini, turaccioli, la macchinetta

per forare i biglietti

del tram (vecchio cimelio). Tutto, tutto,

tutto potrà servire chi lo sa.


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Io sono proprio di quelli che tengono le briciole nel taschino del gilè.


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Costa sangue costa sudore soldi.

Non si sa mai, teniamolo.



Questa pioggia, di Libero de Libero


Questa pioggia di città

(saluto all’inverno con acqua

leggera come un sognato canto

nella stanza e vuota sera)

mi riporta alla collina

amata per un viaggio di cavalli:

al paese in collina

abbrancato nei castagni,

al tempo e all’odore

dei giorni contadini:

a mia madre rimasta

nei figli e nel pane

e nell’amore di mio padre,

e con lui fu morta:

a tutta la mia gente antica

mandriana di palude.

Questa pioggia di città

(dell’inverno fredde radici

l’acqua conduce e pavida

sera nella stanza)

mi riporta alla casa con sedie

tante e della morte sola novità:

al collegio con tanti occhi,

e nel segreto meglio si giocava:

a tutta l’infanzia dal corpo

assediata e dalle stagioni:

e questa è l’acqua attinta

ai pozzi dell’infanzia,

acqua venuta dal mare

e il mare disturba il sonno

al fanciullo che il gatto pianse

lapidato nel bosco coi compagni.



Oltre le Orobie, di Luciano Erba


odore di minestra e mele cotte

o collegio di preti

o meglio che caserma e che bordello

portavo un maglione marronverde

distribuivo mestoli di sboba

tra lettini di ferro

mi davano del cinese dicevano

ancora Cina Budda ancora un po’

mi ero dimenticato della missione

tabacco vettovaglie legna da ardere

conquistato dai provvidi ecclesiastici

dalla parentesi che mi si offriva di gran comfort

seguivo lo svolazzo polveroso

fra gli altissimi stucchi della chiesa

barocca bergamasca di un uccello

prigioniero all’interno della cupola

dove leggevo in lettere dorate

San Matteo capo V° BEATI I PO…

vorticava una canna di sacrista

si annebbiavano i dossi sul sagrato

era questo il silenzio, e senza tromba



Da “Ossi di seppia”, di Eugenio Montale


Godi se il vento ch’entra nel pomario

vi rimena l’ondata della vita:

qui dove affonda un morto

viluppo di memorie,

orto non era, ma reliquiario.


Il frullo che tu senti non è un volo,

ma il commuoversi dell’eterno grembo;

vedi che si trasforma questo lembo

di terra solitario in un crogiuolo.


Un rovello è di qua dall’erto muro.

Se procedi t’imbatti

tu forse nel fantasma che ti salva:

si compongono qui le storie, gli atti

scancellati per giuoco del futuro.


Cerca una maglia rotta nella rete

che ci stringe, tu balza fuori, fuggi!

Va, per te l’ho pregato, - ora la sete

mi sarà lieve, meno acre la ruggine…



Da “Satura”, di Eugenio Montale


L’abbiamo rimpianto a lungo l’infilascarpe,

il cornetto di latta arrugginito ch’era

sempre con noi. Pareva un’indecenza portare

tra i similori e gli stucchi un tale orrore.

Dev’essere al Danieli che ho scordato

di riporlo in valigia o nel sacchetto.

Hedia la cameriera lo buttò certo

nel Canalazzo. E come avrei potuto

scrivere che cercassero quel pezzaccio di latta?

C’era un prestigio (il nostro) da salvare

e Hedia, la fedele, l’aveva fatto.



Il fringuello cieco, di Giovanni Pascoli


Finch… finché nel cielo volai,

finch… finch’ebbi il nido sul moro,

c’era un lume, lassù, in ma’ mai,

un gran lume di fuoco e d’oro,

che andava sul cielo canoro,

spariva in un tacito oblìo…


Il sole! … Ogni alba nella macchia,

ogni mattina per il brolo,

«Ci sarà?» chiedea la cornacchia;

«Non c’è più!» gemea l’assïuolo;

e cantava già l’usignolo:

«Addio addio dio dio dio dio...»


Ma la lodola su dal grano

saliva a vedere ove fosse.

Lo vedeva lontan lontano

con le belle nuvole rosse.

E, scesa al solco donde mosse,

trillava: «C’è, c’è, lode a Dio!»


«Finch… finché non vedo, non credo»

però dicevo a quando a quando.

Il merlo fischiava «Io lo vedo»;

l’usignolo zittìa spiando.

Poi cantava gracile e blando:

«Anch’io anch’io chio chio chio chio...»


Ma il dì ch’io persi cieli e nidi,

ahimè che fu vero, e s’è spento!

Sentii gli occhi pungermi, e vidi

che s’annerava lento lento.

Ed ora perciò mi risento:

«O sol sol sol sol… sole mio?»



Ai fratelli Cervi, alla loro Italia, di Salvatore Quasimodo


In tutta terra ridono uomini vili,

prìncipi, poeti, che ripetono il mondo

in sogni, saggi di malizia e ladri

di sapienza. Anche nella mia patria ridono

sulla pietà, sul cuore paziente, la solitaria

malinconia dei poveri. E la mia terra è bella

d’uomini e d’alberi, di martirio, di figure

di pietra e di colore, d’antiche meditazioni.


Gli stranieri vi battono con dita di mercanti

il petto dei santi, le reliquie d’amore,

bevono vino e incenso alla forte luna

delle rive, su chitarre di re accordano

canti di vulcani. Da anni e anni

vi entrano in armi, scivolano dalle valli

lungo le pianure con gli animali e i fiumi.


Nella notte dolcissima Polifemo piange

qui ancora il suo occhio spento dal navigante

dell’isola lontana. E il ramo d’ulivo è sempre ardente.


Anche qui dividono in sogni la natura,

vestono la morte e ridono i nemici

familiari. Alcuni erano con me nel tempo

dei versi d’amore e solitudine, nei confusi

dolori di lente macine e di lacrime.

Nel mio cuore finì la loro storia

quando caddero gli alberi e le mura

tra furie e lamenti fraterni nella città lombarda.


Ma io scrivo ancora parole d’amore,

e anche questa è una lettera d’amore

alla mia terra. Scrivo ai fratelli Cervi

non alle sette stelle dell’Orsa: ai sette emiliani

dei campi. Avevano nel cuore pochi libri,

morirono tirando dadi d’amore nel silenzio.

Non sapevano soldati filosofi poeti

di questo umanesimo di razza contadina.

L’amore la morte in una fossa di nebbia appena fonda.


Ogni terra vorrebbe i vostri nomi di forza, di pudore,

non per memoria, ma per i giorni che strisciano

tardi di storia, rapidi di macchine di sangue.



Risanamento, di Giovanni Raboni


Di tutto questo

non c’è più niente (o forse qualcosa

s’indovina, c’è ancora qualche strada

acciottolata a mezzo, un’osteria).

Qui, diceva mio padre, conveniva

venirci col coltello… Eh sì, il Naviglio

è a due passi, la nebbia era più forte

prima che lo coprissero… Ma quello

che hanno fatto, distruggere le case,

distruggere quartieri, qui e altrove,

a cosa serve? Il male non era

lì dentro, nelle scale, nei cortili,

nei ballatoi, lì semmai c’era umido

da prendersi un malanno. Se mio padre

fosse vivo, chiederei anche a lui: ti sembra

che serva? È il modo? A me sembra che il male

non è mai nelle cose, gli direi.



Da “Variazioni belliche”, di Amelia Rosselli


Se l’anima perde il suo dono allora perde terreno, se l’inferno

è una cosa certa, allora l’Abissinia della mia anima rinasce.

Se l’alba decide di morire, allora il fiume delle nostre

lacrime si allarga, e la voce di Dio rimane contemplata.

Se l’anima è la ritrosia dei sensi, allora l’amore è una

scienza che cade al primo venuto. Se l’anima vende il suo

bagaglio allora l’inchiostro è un paradiso. Se l’anima

scende dal suo gradino, la terra muore.


Io contemplo gli uccelli che cantano ma la mia anima è

triste come il soldato in guerra.



Da “Autobiografia”, di Umberto Saba


Mio padre è stato per me “l’assassino”,

fino ai vent’anni che l’ho conosciuto.

Allora ho visto ch’egli era un bambino,

e che il dono ch’io ho da lui l’ho avuto.


Aveva in volto il mio sguardo azzurrino,

un sorriso, in miseria, dolce e astuto.

Andò sempre pel mondo pellegrino;

più d’una donna l’ha amato e pasciuto.


Egli era gaio e leggero; mia madre

tutti sentiva della vita i pesi.

Di mano ei gli sfuggì come un pallone.


«Non somigliare» ammoniva «a tuo padre».

Ed io più tardi in me stesso lo intesi:

erano due razze in antica tenzone.



Da “Rimanenze”, di Camillo Sbarbaro


La bambina che va sotto gli alberi

non ha che il peso della sua treccia,

un fil di canto in gola.

Canta sola

e salta per la strada; ché non sa

che mai bene più grande non avrà

di quel po’ d’oro vivo per le spalle,

di quella gioia in gola.


A noi che non abbiamo

altra felicità che di parole,

e non l’acceso fiocco e non la molta

speranza che fa grosso a quella il cuore,

se non è troppo chiedere, sia tolta

prima la vita di quel solo bene.

(1932)



Periferia 1940, di Vittorio Sereni


La giovinezza è tutta nella luce

d’una città al tramonto

dove straziato ed esule ogni suono

si spicca dal brusio.


E tu mia vita salvati se puoi

serba te stessa al futuro

passante e quelle parvenze sui ponti

nel baleno dei fari.



Da “I nuovi Campi Elisi”, di Leonardo Sinisgalli


Nessuno più mi consola, madre mia.

Il tuo grido non arriva fino a me

neppure in sogno. Non arriva una piuma

del tuo nido su questa riva.


Le sere azzurre sei tu

che aspetti i muli sulla porta

e avvolgi le mani nei panni,

leggi nel fuoco le risse

che disperdono i tuoi figli

ai margini della città?


Un abisso ci separa, una fiumana

che scorre tra gli argini alti di fumo.

Sono queste le tue stelle,

è il vento della terra

è la nostra speranza

questo cielo che accoglie le tue pene,

la tua volontà, la tua domanda di pace?


Tu vivi certa della tua virtù;

hai vestito i cadaveri variopinti

dei padri, hai trovato ogni notte

la chiave dei nostri sogni,

hai dato il grano per la memoria dei morti.


Noi aspettiamo il tuo segnale

sulla torre più alta.

Tu ci chiami. Sei tu

la fiamma bianca all’orizzonte?

Un’estate di lutti

ha rimosso nel ventre le antiche colpe,

ha cacciato i lupi sotto le mura dei paesi.

I cani latrano al sole di mezzogiorno,

la civetta chiede ostaggi per il lugubre inverno.


Tu ascolti, madre mia,

il pianto sconsolato delle Ombre

che non trovano requie

sotto le pietre battute

dal tonfo di fradici frutti.



La memoria, di Maria Luisa Spaziani


Mangiando allegramente le scorte di pane bianco

nel mio aprile ho vissuto le foreste della favola.

Mille lune riflesse dalle scaglie dei pini

splendono di lontano dentro il mio pane nero.



Caduto giorno, di Giorgio Vigolo


«Del mio caduto giorno

è questo il sole estremo?

Alti bagliori accende

la sera: scenderemo

presto anche noi nell’ombra.


Se tu anche t’oscuri,

ultima luce, al puro

apice della mente,

meglio sarà morire».


Addolorato implorai

quell’ultimo colore:

e d’angeli al cielo vivo

fiammeggiò la guancia.



Che ne dite? Conoscete queste poesie? Quale vi ha colpito di più? 

A me piacciono molto i componimenti di Maurizio Cucchi e Camillo Sbarbaro. Spero di aver trovato degli scatti che risultino ben abbinati alle parole che abbiamo letto. Come avete visto, ci sono anche due  fotografie che mi ritraggono nel 2009 (ormai tanto tempo fa...): in estate in Provenza ed a Natale con mio fratello Stefano. 

Aspetto di sapere quali ricordi hanno rievocato in voi queste poesie! 

Grazie per la lettura, al prossimo post :-)


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