Novecento in poesia #3
Cari lettori,
terza tappa del nostro viaggio alle scoperta del Novecento in poesia!
Insieme abbiamo letto di poeti a contatto con la natura, poi di emozioni e sentimenti. Oggi esploriamo una terra molto cara ai letterati di ogni epoca: il passato. Luoghi del cuore, momenti dell'infanzia, familiari ed amici perduti, amori lontani nel tempo: mi sembra che nulla manchi in questo piccolo inventario che ho cercato di fare.
Oggi ci lasciamo un po' prendere dalla nostalgia...
Paesaggio, di Riccardo Bacchelli
Perduta in boschi chiari d’Appennino,
sotto dai faggi e in mezzo a castagneti,
so la verde rovina di un mulino:
la ruota è infranta e rotto è il tetto, lieti
già d’opera frequente e d’abbondanza
finché la mola macinava il grano
come un cuore si nutre di speranza.
Forte ferveva e suscitava il vano
e blando polverio della farina,
che bianca sopra ogni oggetto tornava
nell’antro alacre. Sù la mugnaina
alla finestra al sole s’imbiondiva
fra garofani rossi. E pei sentieri
dell’alpe some di grano alla mola
del padre conducevansi, e pensieri
alla finestra di quella figliuola.
Finestra e valle ora deserte; e mina
il rio marcida ruota, che aggiaccata
or tacita si guasta e va in rovina
a valle insieme all’acqua umiliata.
Così gli affetti inceneriti in cuore
cadono e vanno, vanno i sensi umani,
cadon le voglie, simili al vigore
del rio fiaccato fra le macerie inani.
A mio fratello, di Angelo Barile
Ricordo un’ora vermiglia d’estate
che la sorella era al piano, le note
come da gronda cadevano: gocce
rotolavano chiare in una vasca
incandescente. Io l’ascoltavo, i sensi
in me già quasi svaporati.
E vedo
nel volto di ventanni la tua bocca
sporgere dolorosa, la tua anima
vedo che ti cammina per le labbra
a ghermire la musica. Alle soglie
trepidava dell’estasi.
Respinta
nutriva ancora di canto negato
una mestizia che sgorgò già adulta
intorno agli occhi del fanciullo. Un’ombra
vagò, li cinse di un alone; e fosti
ai confini del canto un’altra volta
mio fratello per la malinconia.
Le briciole nel taschino, di Maurizio Cucchi
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E va bene, io forse ce l’avrò per fissazione, d’accordo,
sarò testone, d’accordo, ma porca madocina mi ricordo sempre
del nonno in questi casi, della nonna,
del casotto (dell’orto) tutto ruggine,
riempito di badili, pezzi di legna, tolle,
bellissime cianfrusaglie tenute dacconto,
sacchetti di plastica con cordine fatte su, elastichini, lucchetti, palline
di gazosa (verdi), chiodi, bulloncini, cacciavite, cerotti: così come
in casa al primo piano, in basso i detersivi nell’armadio a muro
e le bottiglie dell’olio e dell’aceto e sopra
scatolette zeppe di roba che chissà
potrebbe servire a qualche cosa
e così correre ravanare
bottoni pennini
e la boccetta dell’inchiostro, tutto asciugato, i tacchetti per le scarpe da
pallone, naftalina, immaginette, la coroncina del rosario dello scout e:
contagocce, bottiglini, turaccioli, la macchinetta
per forare i biglietti
del tram (vecchio cimelio). Tutto, tutto,
tutto potrà servire chi lo sa.
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Io sono proprio di quelli che tengono le briciole nel taschino del gilè.
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Costa sangue costa sudore soldi.
Non si sa mai, teniamolo.
Questa pioggia, di Libero de Libero
Questa pioggia di città
(saluto all’inverno con acqua
leggera come un sognato canto
nella stanza e vuota sera)
mi riporta alla collina
amata per un viaggio di cavalli:
al paese in collina
abbrancato nei castagni,
al tempo e all’odore
dei giorni contadini:
a mia madre rimasta
nei figli e nel pane
e nell’amore di mio padre,
e con lui fu morta:
a tutta la mia gente antica
mandriana di palude.
Questa pioggia di città
(dell’inverno fredde radici
l’acqua conduce e pavida
sera nella stanza)
mi riporta alla casa con sedie
tante e della morte sola novità:
al collegio con tanti occhi,
e nel segreto meglio si giocava:
a tutta l’infanzia dal corpo
assediata e dalle stagioni:
e questa è l’acqua attinta
ai pozzi dell’infanzia,
acqua venuta dal mare
e il mare disturba il sonno
al fanciullo che il gatto pianse
lapidato nel bosco coi compagni.
Oltre le Orobie, di Luciano Erba
odore di minestra e mele cotte
o collegio di preti
o meglio che caserma e che bordello
portavo un maglione marronverde
distribuivo mestoli di sboba
tra lettini di ferro
mi davano del cinese dicevano
ancora Cina Budda ancora un po’
mi ero dimenticato della missione
tabacco vettovaglie legna da ardere
conquistato dai provvidi ecclesiastici
dalla parentesi che mi si offriva di gran comfort
seguivo lo svolazzo polveroso
fra gli altissimi stucchi della chiesa
barocca bergamasca di un uccello
prigioniero all’interno della cupola
dove leggevo in lettere dorate
San Matteo capo V° BEATI I PO…
vorticava una canna di sacrista
si annebbiavano i dossi sul sagrato
era questo il silenzio, e senza tromba
Da “Ossi di seppia”, di Eugenio Montale
Godi se il vento ch’entra nel pomario
vi rimena l’ondata della vita:
qui dove affonda un morto
viluppo di memorie,
orto non era, ma reliquiario.
Il frullo che tu senti non è un volo,
ma il commuoversi dell’eterno grembo;
vedi che si trasforma questo lembo
di terra solitario in un crogiuolo.
Un rovello è di qua dall’erto muro.
Se procedi t’imbatti
tu forse nel fantasma che ti salva:
si compongono qui le storie, gli atti
scancellati per giuoco del futuro.
Cerca una maglia rotta nella rete
che ci stringe, tu balza fuori, fuggi!
Va, per te l’ho pregato, - ora la sete
mi sarà lieve, meno acre la ruggine…
Da “Satura”, di Eugenio Montale
L’abbiamo rimpianto a lungo l’infilascarpe,
il cornetto di latta arrugginito ch’era
sempre con noi. Pareva un’indecenza portare
tra i similori e gli stucchi un tale orrore.
Dev’essere al Danieli che ho scordato
di riporlo in valigia o nel sacchetto.
Hedia la cameriera lo buttò certo
nel Canalazzo. E come avrei potuto
scrivere che cercassero quel pezzaccio di latta?
C’era un prestigio (il nostro) da salvare
e Hedia, la fedele, l’aveva fatto.
Il fringuello cieco, di Giovanni Pascoli
Finch… finché nel cielo volai,
finch… finch’ebbi il nido sul moro,
c’era un lume, lassù, in ma’ mai,
un gran lume di fuoco e d’oro,
che andava sul cielo canoro,
spariva in un tacito oblìo…
Il sole! … Ogni alba nella macchia,
ogni mattina per il brolo,
«Ci sarà?» chiedea la cornacchia;
«Non c’è più!» gemea l’assïuolo;
e cantava già l’usignolo:
«Addio addio dio dio dio dio...»
Ma la lodola su dal grano
saliva a vedere ove fosse.
Lo vedeva lontan lontano
con le belle nuvole rosse.
E, scesa al solco donde mosse,
trillava: «C’è, c’è, lode a Dio!»
«Finch… finché non vedo, non credo»
però dicevo a quando a quando.
Il merlo fischiava «Io lo vedo»;
l’usignolo zittìa spiando.
Poi cantava gracile e blando:
«Anch’io anch’io chio chio chio chio...»
Ma il dì ch’io persi cieli e nidi,
ahimè che fu vero, e s’è spento!
Sentii gli occhi pungermi, e vidi
che s’annerava lento lento.
Ed ora perciò mi risento:
«O sol sol sol sol… sole mio?»
Ai fratelli Cervi, alla loro Italia, di Salvatore Quasimodo
In tutta terra ridono uomini vili,
prìncipi, poeti, che ripetono il mondo
in sogni, saggi di malizia e ladri
di sapienza. Anche nella mia patria ridono
sulla pietà, sul cuore paziente, la solitaria
malinconia dei poveri. E la mia terra è bella
d’uomini e d’alberi, di martirio, di figure
di pietra e di colore, d’antiche meditazioni.
Gli stranieri vi battono con dita di mercanti
il petto dei santi, le reliquie d’amore,
bevono vino e incenso alla forte luna
delle rive, su chitarre di re accordano
canti di vulcani. Da anni e anni
vi entrano in armi, scivolano dalle valli
lungo le pianure con gli animali e i fiumi.
Nella notte dolcissima Polifemo piange
qui ancora il suo occhio spento dal navigante
dell’isola lontana. E il ramo d’ulivo è sempre ardente.
Anche qui dividono in sogni la natura,
vestono la morte e ridono i nemici
familiari. Alcuni erano con me nel tempo
dei versi d’amore e solitudine, nei confusi
dolori di lente macine e di lacrime.
Nel mio cuore finì la loro storia
quando caddero gli alberi e le mura
tra furie e lamenti fraterni nella città lombarda.
Ma io scrivo ancora parole d’amore,
e anche questa è una lettera d’amore
alla mia terra. Scrivo ai fratelli Cervi
non alle sette stelle dell’Orsa: ai sette emiliani
dei campi. Avevano nel cuore pochi libri,
morirono tirando dadi d’amore nel silenzio.
Non sapevano soldati filosofi poeti
di questo umanesimo di razza contadina.
L’amore la morte in una fossa di nebbia appena fonda.
Ogni terra vorrebbe i vostri nomi di forza, di pudore,
non per memoria, ma per i giorni che strisciano
tardi di storia, rapidi di macchine di sangue.
Risanamento, di Giovanni Raboni
Di tutto questo
non c’è più niente (o forse qualcosa
s’indovina, c’è ancora qualche strada
acciottolata a mezzo, un’osteria).
Qui, diceva mio padre, conveniva
venirci col coltello… Eh sì, il Naviglio
è a due passi, la nebbia era più forte
prima che lo coprissero… Ma quello
che hanno fatto, distruggere le case,
distruggere quartieri, qui e altrove,
a cosa serve? Il male non era
lì dentro, nelle scale, nei cortili,
nei ballatoi, lì semmai c’era umido
da prendersi un malanno. Se mio padre
fosse vivo, chiederei anche a lui: ti sembra
che serva? È il modo? A me sembra che il male
non è mai nelle cose, gli direi.
Da “Variazioni belliche”, di Amelia Rosselli
Se l’anima perde il suo dono allora perde terreno, se l’inferno
è una cosa certa, allora l’Abissinia della mia anima rinasce.
Se l’alba decide di morire, allora il fiume delle nostre
lacrime si allarga, e la voce di Dio rimane contemplata.
Se l’anima è la ritrosia dei sensi, allora l’amore è una
scienza che cade al primo venuto. Se l’anima vende il suo
bagaglio allora l’inchiostro è un paradiso. Se l’anima
scende dal suo gradino, la terra muore.
Io contemplo gli uccelli che cantano ma la mia anima è
triste come il soldato in guerra.
Da “Autobiografia”, di Umberto Saba
Mio padre è stato per me “l’assassino”,
fino ai vent’anni che l’ho conosciuto.
Allora ho visto ch’egli era un bambino,
e che il dono ch’io ho da lui l’ho avuto.
Aveva in volto il mio sguardo azzurrino,
un sorriso, in miseria, dolce e astuto.
Andò sempre pel mondo pellegrino;
più d’una donna l’ha amato e pasciuto.
Egli era gaio e leggero; mia madre
tutti sentiva della vita i pesi.
Di mano ei gli sfuggì come un pallone.
«Non somigliare» ammoniva «a tuo padre».
Ed io più tardi in me stesso lo intesi:
erano due razze in antica tenzone.
Da “Rimanenze”, di Camillo Sbarbaro
La bambina che va sotto gli alberi
non ha che il peso della sua treccia,
un fil di canto in gola.
Canta sola
e salta per la strada; ché non sa
che mai bene più grande non avrà
di quel po’ d’oro vivo per le spalle,
di quella gioia in gola.
A noi che non abbiamo
altra felicità che di parole,
e non l’acceso fiocco e non la molta
speranza che fa grosso a quella il cuore,
se non è troppo chiedere, sia tolta
prima la vita di quel solo bene.
(1932)
Periferia 1940, di Vittorio Sereni
La giovinezza è tutta nella luce
d’una città al tramonto
dove straziato ed esule ogni suono
si spicca dal brusio.
E tu mia vita salvati se puoi
serba te stessa al futuro
passante e quelle parvenze sui ponti
nel baleno dei fari.
Da “I nuovi Campi Elisi”, di Leonardo Sinisgalli
Nessuno più mi consola, madre mia.
Il tuo grido non arriva fino a me
neppure in sogno. Non arriva una piuma
del tuo nido su questa riva.
Le sere azzurre sei tu
che aspetti i muli sulla porta
e avvolgi le mani nei panni,
leggi nel fuoco le risse
che disperdono i tuoi figli
ai margini della città?
Un abisso ci separa, una fiumana
che scorre tra gli argini alti di fumo.
Sono queste le tue stelle,
è il vento della terra
è la nostra speranza
questo cielo che accoglie le tue pene,
la tua volontà, la tua domanda di pace?
Tu vivi certa della tua virtù;
hai vestito i cadaveri variopinti
dei padri, hai trovato ogni notte
la chiave dei nostri sogni,
hai dato il grano per la memoria dei morti.
Noi aspettiamo il tuo segnale
sulla torre più alta.
Tu ci chiami. Sei tu
la fiamma bianca all’orizzonte?
Un’estate di lutti
ha rimosso nel ventre le antiche colpe,
ha cacciato i lupi sotto le mura dei paesi.
I cani latrano al sole di mezzogiorno,
la civetta chiede ostaggi per il lugubre inverno.
Tu ascolti, madre mia,
il pianto sconsolato delle Ombre
che non trovano requie
sotto le pietre battute
dal tonfo di fradici frutti.
La memoria, di Maria Luisa Spaziani
Mangiando allegramente le scorte di pane bianco
nel mio aprile ho vissuto le foreste della favola.
Mille lune riflesse dalle scaglie dei pini
splendono di lontano dentro il mio pane nero.
Caduto giorno, di Giorgio Vigolo
«Del mio caduto giorno
è questo il sole estremo?
Alti bagliori accende
la sera: scenderemo
presto anche noi nell’ombra.
Se tu anche t’oscuri,
ultima luce, al puro
apice della mente,
meglio sarà morire».
Addolorato implorai
quell’ultimo colore:
e d’angeli al cielo vivo
fiammeggiò la guancia.
Che ne dite? Conoscete queste poesie? Quale vi ha colpito di più?
A me piacciono molto i componimenti di Maurizio Cucchi e Camillo Sbarbaro. Spero di aver trovato degli scatti che risultino ben abbinati alle parole che abbiamo letto. Come avete visto, ci sono anche due fotografie che mi ritraggono nel 2009 (ormai tanto tempo fa...): in estate in Provenza ed a Natale con mio fratello Stefano.
Aspetto di sapere quali ricordi hanno rievocato in voi queste poesie!
Grazie per la lettura, al prossimo post :-)
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