Novecento in poesia #2
Cari lettori, bentornati all’appuntamento mensile con il nostro nuovo progetto letterario per “L’angolo della poesia”!
Quest’anno ho deciso di portarvi con me in un viaggio immaginario alla scoperta del Novecento italiano, ripercorrendo ogni mese un tema chiave.
Settembre è stato il mese dedicato al contatto con la natura. Per ottobre ho pensato ad una scelta più intimista: i sentimenti e le emozioni. Le poesie che ho selezionato per il post di oggi presentano un vero e proprio caleidoscopio emotivo: allegria, tristezza, paura, rabbia, nostalgia, ansia, felicità, disperazione… ed altro ancora.
Come già fatto il mese scorso, ho abbinato le poesie ad alcuni miei scatti degli ultimi anni. Devo confessarvi che il mese scorso è stato più semplice perché si trattava di poesie descrittive… stavolta sono andata un pochino più “a sentimento” e spero che lo apprezzerete comunque.
Vi lascio alle poesie!
Ci sono fiori, di Fernando Bandini
Ci sono fiori che fioriscono al buio,
uccelli che non escono dal folto,
ma niente come l’infelicità
ha vergogna di sé.
Talvolta si nasconde
nell’allegria che agli altri ci fa cari;
non disdegna i compagni, dal clamore
sa distillare gelosi silenzi.
Poi nel silenzio si dibatte come
una tenera preda nelle spire
d’un serpente, esce di casa, ama
la screziata realtà,
sente la vita come un caldo alito
sul suo scivolo d’anni, crede di riconoscerla
e prova il tuffo al cuore di un bambino
che sul lastrico ha visto una moneta.
Se non sperasse sarebbe meno
infelicità, ma spesso incauta sogna
una toque smeraldina su capelli
neri tagliati corti.
È lo stoppino che non si spegne mai
nel suo grumo di cera sopra un marmo,
una passione che i giorni hanno ossidato
e che incrosta i pensieri.
Diarietto invecchiando, XIII, di Carlo Betocchi
D’una rossastra luce il dorso vivo
dei curvi coppi, a un sole che tramonta,
la loro ben dura vita, al caldo al gelo,
sulla distesa, all’acqua ombrosa e pigra
delle muschiose tegole, mi dicono
del paziente universo la materia
che cos’è, e il durare, e il patimento
anonimo, e il silenzio. E chi son io,
e come vivo, quasi un verme.
E d’esistenza futile coperto
mi sento, e di vergogna; dove
l’intricato mio vivere inabissa.
Ma poi ad un lento, a un non so quale cenno,
di me misericorde, fatto caro,
così qual sono, e ignudo di speranza,
sento che in me ripullula un gorgoglio
come di fango fatto e di preghiera.
La tempesta, di Piero Bigongiari
Forse è questa l’ora di non vedere
se tutto è chiaro, forse questa è l’ora
ch’è solo di sé paga, ed il tuo incanto
divaga nell’inverno della terra,
nell’inferno dei segni da capire.
Ma non farti vedere dimostrare
ancora le tue formule, è finita
l’orgia dei risultati rispondenti
alle cause. Sei sola, batti i denti
accosto ai vetri nevicati, tetri.
Divergono in un morbido riaccendersi
d’altro sangue i destini che ci unirono.
Tu li ricordi come – in queste tarde
ore che riscoccano dalla pensola -
in un fuoco di tocchi, in un orrendo
scatenarsi, dai tuoi armadi, di bambole.
La nostra vita, catturata, vedi,
mentr’era armata solo di silenzio,
come dai parafulmini ridesti
da un lampo, trova il filo da seguire
per non morire restando se stessa.
Da “La tigre assenza”, di Cristina Campo
È rimasta laggiù, calda, la vita,
l’aria colore dei miei occhi, il tempo
che bruciavano in fondo ad ogni vento
mani vive, cercandomi…
Rimasta è la carezza che non trovo
più se non tra due sonni, l’infinita
mia sapienza in frantumi. E tu, parola
che tramutavi il sangue in lacrime.
Nemmeno porto un viso
con me, già trapassato in altro viso
come spera nel vino e consumato
negli accesi silenzi…
Torno sola
tra due sonni laggiù, vedo l’ulivo
roseo sugli orci colmi d’acqua e luna
del lungo inverno. Torno a te che geli
nella mia lieve tunica di fuoco.
Assedio, di Alfonso Gatto
L’estrema assenza dove vivi uguaglia
la tua vita al deserto: la pianura
di sera al vento scalda la sua paglia
nel riverbero lungo delle mura.
E non resiste che l’assedio uguale
di monotona voce, l’apparente
sembianza della luna che risale
scalfita a vuoto d’aria sulle spente
solitudini e serba al suo chiarore
un debole risveglio d’orizzonte.
E ti somigli nel ricordo: odore
d’altre sere accaldate alla tua fronte
verso braccia di fieno, alla pianura
già cheta di pagliai alzava il vento
un villaggio di luna ed era pura
assenza la tua vita nel momento
d’apparirle sorpreso. Nel suo vuoto
tremerà l’orizzonte senza aiuto
per l’apparenza della sera, immoto
vento che coglie la tua voce e muto
ti richiama con essa alla pazienza
d’attendere per sempre nella morte
un debole risveglio d’orizzonte.
Senza titolo, di Giovanni Giudici
Perché con occhi chiusi?
Perché con bocca che non parla?
Voglio guardarti, voglio nominarti.
Voglio fissarti e toccarti:
Mio sentirmi che ti parlo,
Mio vedermi che ti vedo.
Dirti – sei questa cosa hai questo nome.
Al canto che tace non credo.
Così in me ti distruggo.
Non sarò, tu sarai:
Ti inseguo e ti sfuggo,
Bella vita che te ne vai.
Da “Ora serrata retinae”, di Valerio Magrelli
Io sono ciò che manca
dal mondo in cui vivo,
colui che tra tutti
non incontrerò mai.
Ruotando su me stesso ora coincido
con ciò che mi è sottratto.
Io sono la mia eclissi
la contumacia e la malinconia
l’oggetto geometrico
di cui per sempre dovrò fare a meno.
Offerte di impiego, di Valerio Magrelli
L’orrore del giorno deserto
si specchia in queste vane
lusinghe. Essere soli
senza nessun riparo
mentre si cerca un altro
e non cercano me.
L’orrore del colloquio
quando questa parola
dovrebbe essere quella
che scongiura l’orrore.
Minstrels, di Eugenio Montale
(Da C.Debussy)
Ritornello, rimbalzi
tra le vetrate d’afa dell’estate.
Acre groppo di note soffocate,
riso che non esplode
ma trapunge le ore vuote
e lo suonano tre avanzi di baccanale
vestiti di ritagli di giornali,
con instrumenti mai veduti,
simili a strani imbuti
che si gonfiano a volte e poi s’afflosciano.
Musica senza rumore
che nasce dalle strade,
s’innalza a stento e ricade,
e si colora di tinte
ora scarlatte ora biade,
e inumidisce gli occhi, così che il mondo
si vede come socchiudendo gli occhi
nuotar nel biondo.
Scatta ripiomba sfuma,
poi riappare
soffocata e lontana: si consuma.
Non s’ode quasi, si respira.
Bruci
tu pure tra le lastre dell’estate,
cuore che ti smarrisci! Ed ora incauto
provi le ignote note sul tuo flauto.
Notturnino, di Arturo Onofri
Sotto le coltri ho udito
con un subito muggito
straripare una fiumana;
e ha rombato la tramontana
con un impeto furibondo
per la notte senza fondo,
come un’infernale furlana
che ricapovolgesse il mondo.
Poi, repentinamente,
non ho udito più niente.
Ma, trattenuto il fiato,
allora m’è sembrato
che nel vento
tutta la casa avesse traballato.
Era invece il mio cuore attento
che batteva per lo sgomento.
La vita, di Alessandro Parronchi
La vita sfugge al suo avverarsi. Al gaudio
timida la coscienza si sottrae. Al bacio
troppo presto manca la guancia e imperscrutabile s’apre
la foresta dei capelli…
Invano gli occhi traforano cortine
di palpebre nell’ebbrezza richiuse,
invano il braccio dietro il corpo si riallaccia
in molti giri: come la trottola al filo
finalmente esso sfugge, sconfina dal suo orizzonte.
Una volta toccato il desiderato volto
l’incanto della bellezza vacilla smarrito,
come entrati nella selva sotto il sole equatoriale
il cuore è preso dalla nostalgia dei ghiacciai,
e bevuta la tazza del piacere si cercano
altre bevande che di lacrime, lamenti,
ferite, speranze profumino ancora.
Così quando dalla luce della fanciulla amata
si affonda nella notte della sua nudità,
a lei che aspettava spaurita all’angolo della strada
a un tratto si pensa,
e subito si vorrebbe non averlo
pensato mai…
Così si compie in questa sera
la vita che non s’avvera.
Da “L’inverno delle teorie”, di Silvio Ramat
Quella mezza finestra, anzi una luce appena
ma ora senza più sbarre. Notizie
da altri specchi non entrano, in giornate
come queste, di chiare ire, e se ci vola
disperato il moscone, perché non dovrei tentare
io stesso la traversata, l’intera
durezza del cielo, il fondo primaverile che stacca
da sé, nel dirlo, il funesto inverno delle teorie?
Staccarmi, io da me stesso, nel tempo senza sbarre
mentre mi dico, manichino che fila
e sfila il senso della propria cenere, tutta raccolta
e occulta nei camini delle chiare
ire e (un’ultima volta?) nell’ortica.
Da “La mente musicale”, di Michele Ranchetti
I
Ora è nel quotidiano, in ogni ora
è qui, non devi attendere, si mostra
in quel che è demonio quotidiano,
indifferente al premio, libero, forte.
II
Non devo attendere chi per la durata
si provi inerme, è già delirio, ha vinto
ogni ragione è mia, sono una morte.
III
Per altri e per te, se ti ho vista.
Da “Pianissimo”, di Camillo Sbarbaro
Taci, anima stanca di godere
e di soffrire (all’uno e all’altro vai
rassegnata).
Nessuna voce tua odo se ascolto:
non di rimpianto per la miserabile
giovinezza, non d’ira o di speranza,
e neppure di tedio.
Giaci come
il corpo, ammutolita, tutta piena
d’una rassegnazione disperata.
Noi non ci stupiremo
non è vero, mia anima, se il cuore
si fermasse, sospeso se ci fosse
il fiato…
Invece camminiamo.
Camminiamo io e te come sonnambuli.
E gli alberi son alberi, le case
sono case, le donne
che passano son donne, e tutto è quello
che è, soltanto quel che è.
La vicenda di gioja e di dolore
non ci tocca. Perduta ha la sua voce
la sirena del mondo, e il mondo è un grande
deserto.
Nel deserto
io guardo con asciutti occhi me stesso.
Che cosa ne dite?
Io ho un debole per “Offerte di impiego” di Magrelli, fulminante e tristemente vera. Però anche “Senza titolo” di Giudici ha qualcosa che mi affascina.
E voi, invece, da quali componimenti siete rimasti colpiti? Fatemi sapere che cosa ne pensate!
Grazie per la lettura, al prossimo post :-)
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