lunedì 9 ottobre 2023

SENTIMENTI ED EMOZIONI

 Novecento in poesia #2




Cari lettori, bentornati all’appuntamento mensile con il nostro nuovo progetto letterario per “L’angolo della poesia”!


Quest’anno ho deciso di portarvi con me in un viaggio immaginario alla scoperta del Novecento italiano, ripercorrendo ogni mese un tema chiave.


Settembre è stato il mese dedicato al contatto con la natura. Per ottobre ho pensato ad una scelta più intimista: i sentimenti e le emozioni. Le poesie che ho selezionato per il post di oggi presentano un vero e proprio caleidoscopio emotivo: allegria, tristezza, paura, rabbia, nostalgia, ansia, felicità, disperazione… ed altro ancora.


Come già fatto il mese scorso, ho abbinato le poesie ad alcuni miei scatti degli ultimi anni. Devo confessarvi che il mese scorso è stato più semplice perché si trattava di poesie descrittive… stavolta sono andata un pochino più “a sentimento” e spero che lo apprezzerete comunque.


Vi lascio alle poesie!



Ci sono fiori, di Fernando Bandini


Ci sono fiori che fioriscono al buio,

uccelli che non escono dal folto,

ma niente come l’infelicità

ha vergogna di sé.


Talvolta si nasconde

nell’allegria che agli altri ci fa cari;

non disdegna i compagni, dal clamore

sa distillare gelosi silenzi.


Poi nel silenzio si dibatte come

una tenera preda nelle spire

d’un serpente, esce di casa, ama

la screziata realtà,


sente la vita come un caldo alito

sul suo scivolo d’anni, crede di riconoscerla

e prova il tuffo al cuore di un bambino

che sul lastrico ha visto una moneta.


Se non sperasse sarebbe meno

infelicità, ma spesso incauta sogna

una toque smeraldina su capelli

neri tagliati corti.


È lo stoppino che non si spegne mai

nel suo grumo di cera sopra un marmo,

una passione che i giorni hanno ossidato

e che incrosta i pensieri.



Diarietto invecchiando, XIII, di Carlo Betocchi


D’una rossastra luce il dorso vivo

dei curvi coppi, a un sole che tramonta,

la loro ben dura vita, al caldo al gelo,

sulla distesa, all’acqua ombrosa e pigra

delle muschiose tegole, mi dicono

del paziente universo la materia

che cos’è, e il durare, e il patimento

anonimo, e il silenzio. E chi son io,

e come vivo, quasi un verme.

E d’esistenza futile coperto

mi sento, e di vergogna; dove

l’intricato mio vivere inabissa.

Ma poi ad un lento, a un non so quale cenno,

di me misericorde, fatto caro,

così qual sono, e ignudo di speranza,

sento che in me ripullula un gorgoglio

come di fango fatto e di preghiera.



La tempesta, di Piero Bigongiari


Forse è questa l’ora di non vedere

se tutto è chiaro, forse questa è l’ora

ch’è solo di sé paga, ed il tuo incanto

divaga nell’inverno della terra,

nell’inferno dei segni da capire.

Ma non farti vedere dimostrare

ancora le tue formule, è finita

l’orgia dei risultati rispondenti

alle cause. Sei sola, batti i denti

accosto ai vetri nevicati, tetri.

Divergono in un morbido riaccendersi

d’altro sangue i destini che ci unirono.

Tu li ricordi come – in queste tarde

ore che riscoccano dalla pensola -

in un fuoco di tocchi, in un orrendo

scatenarsi, dai tuoi armadi, di bambole.

La nostra vita, catturata, vedi,

mentr’era armata solo di silenzio,

come dai parafulmini ridesti

da un lampo, trova il filo da seguire

per non morire restando se stessa.



Da “La tigre assenza”, di Cristina Campo


È rimasta laggiù, calda, la vita,

l’aria colore dei miei occhi, il tempo

che bruciavano in fondo ad ogni vento

mani vive, cercandomi…


Rimasta è la carezza che non trovo

più se non tra due sonni, l’infinita

mia sapienza in frantumi. E tu, parola

che tramutavi il sangue in lacrime.


Nemmeno porto un viso

con me, già trapassato in altro viso

come spera nel vino e consumato

negli accesi silenzi…


Torno sola

tra due sonni laggiù, vedo l’ulivo

roseo sugli orci colmi d’acqua e luna

del lungo inverno. Torno a te che geli


nella mia lieve tunica di fuoco.



Assedio, di Alfonso Gatto


L’estrema assenza dove vivi uguaglia

la tua vita al deserto: la pianura

di sera al vento scalda la sua paglia

nel riverbero lungo delle mura.


E non resiste che l’assedio uguale

di monotona voce, l’apparente

sembianza della luna che risale

scalfita a vuoto d’aria sulle spente


solitudini e serba al suo chiarore

un debole risveglio d’orizzonte.

E ti somigli nel ricordo: odore

d’altre sere accaldate alla tua fronte


verso braccia di fieno, alla pianura

già cheta di pagliai alzava il vento

un villaggio di luna ed era pura

assenza la tua vita nel momento


d’apparirle sorpreso. Nel suo vuoto

tremerà l’orizzonte senza aiuto

per l’apparenza della sera, immoto

vento che coglie la tua voce e muto


ti richiama con essa alla pazienza

d’attendere per sempre nella morte

un debole risveglio d’orizzonte.



Senza titolo, di Giovanni Giudici


Perché con occhi chiusi?

Perché con bocca che non parla?


Voglio guardarti, voglio nominarti.

Voglio fissarti e toccarti:


Mio sentirmi che ti parlo,

Mio vedermi che ti vedo.


Dirti – sei questa cosa hai questo nome.

Al canto che tace non credo.


Così in me ti distruggo.

Non sarò, tu sarai:


Ti inseguo e ti sfuggo,

Bella vita che te ne vai.



Da “Ora serrata retinae”, di Valerio Magrelli


Io sono ciò che manca

dal mondo in cui vivo,

colui che tra tutti

non incontrerò mai.

Ruotando su me stesso ora coincido

con ciò che mi è sottratto.

Io sono la mia eclissi

la contumacia e la malinconia

l’oggetto geometrico

di cui per sempre dovrò fare a meno.



Offerte di impiego, di Valerio Magrelli


L’orrore del giorno deserto

si specchia in queste vane

lusinghe. Essere soli

senza nessun riparo

mentre si cerca un altro

e non cercano me.

L’orrore del colloquio

quando questa parola

dovrebbe essere quella

che scongiura l’orrore.



Minstrels, di Eugenio Montale


(Da C.Debussy)


Ritornello, rimbalzi

tra le vetrate d’afa dell’estate.


Acre groppo di note soffocate,

riso che non esplode

ma trapunge le ore vuote

e lo suonano tre avanzi di baccanale

vestiti di ritagli di giornali,

con instrumenti mai veduti,

simili a strani imbuti

che si gonfiano a volte e poi s’afflosciano.


Musica senza rumore

che nasce dalle strade,

s’innalza a stento e ricade,

e si colora di tinte

ora scarlatte ora biade,

e inumidisce gli occhi, così che il mondo

si vede come socchiudendo gli occhi

nuotar nel biondo.


Scatta ripiomba sfuma,

poi riappare

soffocata e lontana: si consuma.

Non s’ode quasi, si respira.

Bruci

tu pure tra le lastre dell’estate,

cuore che ti smarrisci! Ed ora incauto

provi le ignote note sul tuo flauto.



Notturnino, di Arturo Onofri


Sotto le coltri ho udito

con un subito muggito

straripare una fiumana;

e ha rombato la tramontana

con un impeto furibondo

per la notte senza fondo,

come un’infernale furlana

che ricapovolgesse il mondo.


Poi, repentinamente,

non ho udito più niente.

Ma, trattenuto il fiato,

allora m’è sembrato

che nel vento

tutta la casa avesse traballato.

Era invece il mio cuore attento

che batteva per lo sgomento.



La vita, di Alessandro Parronchi


La vita sfugge al suo avverarsi. Al gaudio

timida la coscienza si sottrae. Al bacio

troppo presto manca la guancia e imperscrutabile s’apre

la foresta dei capelli…

Invano gli occhi traforano cortine

di palpebre nell’ebbrezza richiuse,

invano il braccio dietro il corpo si riallaccia

in molti giri: come la trottola al filo

finalmente esso sfugge, sconfina dal suo orizzonte.

Una volta toccato il desiderato volto

l’incanto della bellezza vacilla smarrito,

come entrati nella selva sotto il sole equatoriale

il cuore è preso dalla nostalgia dei ghiacciai,

e bevuta la tazza del piacere si cercano

altre bevande che di lacrime, lamenti,

ferite, speranze profumino ancora.

Così quando dalla luce della fanciulla amata

si affonda nella notte della sua nudità,

a lei che aspettava spaurita all’angolo della strada

a un tratto si pensa,

e subito si vorrebbe non averlo

pensato mai…


Così si compie in questa sera

la vita che non s’avvera.



Da “L’inverno delle teorie”, di Silvio Ramat


Quella mezza finestra, anzi una luce appena

ma ora senza più sbarre. Notizie

da altri specchi non entrano, in giornate

come queste, di chiare ire, e se ci vola

disperato il moscone, perché non dovrei tentare

io stesso la traversata, l’intera

durezza del cielo, il fondo primaverile che stacca

da sé, nel dirlo, il funesto inverno delle teorie?


Staccarmi, io da me stesso, nel tempo senza sbarre

mentre mi dico, manichino che fila

e sfila il senso della propria cenere, tutta raccolta

e occulta nei camini delle chiare

ire e (un’ultima volta?) nell’ortica.



Da “La mente musicale”, di Michele Ranchetti


I


Ora è nel quotidiano, in ogni ora

è qui, non devi attendere, si mostra

in quel che è demonio quotidiano,

indifferente al premio, libero, forte.


II


Non devo attendere chi per la durata

si provi inerme, è già delirio, ha vinto

ogni ragione è mia, sono una morte.


III


Per altri e per te, se ti ho vista.



Da “Pianissimo”, di Camillo Sbarbaro


Taci, anima stanca di godere

e di soffrire (all’uno e all’altro vai

rassegnata).

Nessuna voce tua odo se ascolto:

non di rimpianto per la miserabile

giovinezza, non d’ira o di speranza,

e neppure di tedio.

Giaci come

il corpo, ammutolita, tutta piena

d’una rassegnazione disperata.

Noi non ci stupiremo

non è vero, mia anima, se il cuore

si fermasse, sospeso se ci fosse

il fiato…

Invece camminiamo.

Camminiamo io e te come sonnambuli.

E gli alberi son alberi, le case

sono case, le donne

che passano son donne, e tutto è quello

che è, soltanto quel che è.

La vicenda di gioja e di dolore

non ci tocca. Perduta ha la sua voce

la sirena del mondo, e il mondo è un grande

deserto.

Nel deserto

io guardo con asciutti occhi me stesso.




Che cosa ne dite?

Io ho un debole per “Offerte di impiego” di Magrelli, fulminante e tristemente vera. Però anche “Senza titolo” di Giudici ha qualcosa che mi affascina.

E voi, invece, da quali componimenti siete rimasti colpiti? Fatemi sapere che cosa ne pensate!

Grazie per la lettura, al prossimo post :-)



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