venerdì 20 ottobre 2023

CINEFORUM INIZIO AUTUNNO 2023

 La recensione di tre film che ho visto




Cari lettori,

primo appuntamento con i “Consigli cinematografici” dopo la pausa estiva!


Nei mesi di settembre ed ottobre sono riuscita a tornare al cineforum, sia il Cinema San Giuseppe di Brugherio che il Cinema Teatro Agorà di Cernusco sul Naviglio, che, per chi non lo sapesse, è anche il “nostro” palcoscenico per i saggi di danza.


Ho visto tre film diversissimi tra loro: un omaggio ai classici della letteratura inglese, una commedia noir francese e forse l’ultimo film di un grande maestro italiano. Mi sono piaciuti molto tutti e tre ed ho pensato di parlarvene!


Vediamoli meglio insieme…



Emily, di Frances O’ Connor


Siamo nel pieno del XIX secolo, nello Yorkshire, e le tre figlie del pastore Brontë, rimasto prematuramente vedovo, sono assistite dalla fin troppo solerte comunità. È un mondo chiuso, fatto di una routine campagnola, segreti di paese ed un’esigua vita sociale tutta concentrata intorno alla parrocchia.


L’orgoglio del padre è Charlotte, che in gioventù si è dilettata a scrivere ma già da un anno ha intrapreso la carriera da insegnante in un collegio femminile di città. Emily, che è molto legata alla sorella, viene spinta a tentare la stessa strada, ma dopo pochi giorni viene rimandata indietro a causa delle sue continue crisi di ansia e panico e del suo rifiuto di entrare in classe.


La verità è che Emily non solo non ha mai voluto insegnare, ma è anche rimasta delusa dalla scelta della sorella di soffocare il suo lato più creativo per uno dei pochi mestieri che, al tempo, era considerato socialmente accettabile per una donna. Restando a casa, si lega sempre più all’unico fratello, Branwell, che è stato cacciato dall’Università ed ora passa il suo tempo tra vita notturna, alcool e gioco. I loro due caratteri impetuosi e ribelli sono oggetto di scandalo per il paese e considerati con sempre più preoccupazione dal padre, che decide di provare ad offrire ad Emily un esempio alternativo.


In parrocchia è appena arrivato un nuovo giovane curato, William Wieghtman, che si dichiara disponibile a dare ad Emily lezioni di francese. La ragazza ha una pessima opinione del pastore, che è piuttosto pomposo ed affettato, piace un po’ troppo alle donne della parrocchia e ha già sorriso più del dovuto prima alla sorella Charlotte, poi ad una sua amica.


Una lezione dopo l’altra, però, William resta affascinato dalla creatività, dalla sensibilità, dall’intelligenza fuori dal comune di Emily. Tra i due inizia una relazione, ma la ragazza si sente costantemente presa tra due fuochi: da una parte l’affidabile pastore, che è di solidi principi ma non ha con lei la connessione emotiva che ella desidererebbe, e dall’altra il fratello, con cui il rapporto è fin troppo stretto, al punto che dalla condivisione dell’alcool essi sono passati a quella dell’oppio.


Da qui ad immaginare i personaggi di Linton e di Heathcliff è un attimo. E così nasce la storia di Catherine, Cime tempestose.



Se c’è un unico difetto che si può imputare a Emily è forse un po’ di lentezza. Almeno, secondo chi era al cinema con me. Io personalmente sarei andata avanti altre due ore ed avrei seguito anche la storia di Charlotte (perché è ovvio che il testimone passi a lei, ed io spero vivamente che Frances O’ Connor ci faccia un pensierino). Non solo queste storie letterarie in cui vita dell’autore e creazione si mescolano sono proprio “i miei film”, uno dei generi che mi piace di più… ma questo film, in particolare, mi ha toccato in punti per me davvero sensibili.


Dal mio punto di vista, ci sono tante grandi verità, in questo film.

Le professioni creative sempre sminuite e relegate a hobbies, specie se fanno parte della vita di una donna. Il grande paternalismo con cui esse vengono trattate, del genere: sì, scribacchia pure finché sei sola, tanto quando le responsabilità – leggi: un uomo - busseranno alla porta dovrai cambiare registro…

La tendenza ad incastonare una donna in ruoli prestabiliti, per cui, per esempio, se ad una donna come Charlotte piace sinceramente fare l’insegnante, allora dev’essere per forza l’unica vocazione della sua vita, e tutto il resto non fa bene nemmeno pensarlo… e così va a finire che una persona è costretta a scelte dolorose, quando potrebbe benissimo non scegliere affatto ed essere felice.

I rapporti tra fratello e sorella che attraversano grandi estremi in periodi brevissimi.

Il comportamento di alcuni uomini nei confronti della donna che dicono di amare: prima sono ammirati dalla creatività, dall’intelligenza, dall’indipendenza… quando però si supera una certa percentuale – di solito quella oltre cui loro non riescono ad andare – allora no, allora c’è qualcosa di profondamente sbagliato in lei, e se c’è pure la religione di mezzo quella donna diventa l’anticristo, o giù di lì.


Avrei molto da dire su tutto questo, ma credo che il film lo dica meglio di me. È una visione straordinaria e sconvolgente. Lo consiglio davvero di cuore.



Mon crime - La colpevole sono io, di François Ozon


Parigi, anni Trenta. In uno scalcagnato appartamento in affitto vivono Madeleine e Pauline. Ufficialmente amiche del cuore, in pratica la seconda è da sempre innamorata della prima e si ritrova costretta ad ascoltare i suoi sfoghi sugli uomini sbagliati, l’ultimo dei quali ha pensato che fosse “utile alla relazione” sposarsi con un’altra donna, ovviamente una miliardaria in grado di provvedere ai suoi debiti di gioco.


Non è solo l’amore ad andare male: anche, anzi, soprattutto il lavoro dà molti grattacapi ad entrambe. Pauline ha studiato da avvocato, è abilitata alla professione e la svolgerebbe con molto interesse, se solo qualcuno si degnasse di prenderla in considerazione. Madeleine, invece, cerca da fin troppo tempo di fare l’attrice, ma, bene che vada, ottiene solo piccole parti.


Un giorno, poi, ella si ritrova a fuggire indignata dalla casa di un produttore che le aveva fatto grandi promesse ed invece le ha messo le mani addosso. Quella stessa sera un commissario di polizia si presenta a casa delle due amiche: il produttore è stato ucciso con un colpo di pistola e Madeleine è fortemente sospettata, perché sembra essere l’ultima ad averlo visto vivo.


Sulle prime, Madeleine è attonita, perché sa di essere innocente, e Pauline pensa a come difenderla da questa ingiusta accusa. Poi, però, entrambe le ragazze arrivano alla stessa conclusione: visto che gli inquirenti sembrano averle già condannate, e sono desiderose di addossare le responsabilità a due ragazze povere e disperate salvando così la pelle a qualche illustre personaggio, perché non approfittarne?


Madeleine si auto accusa del crimine, dicendo che il produttore aveva tentato di violentarla. Pauline imbastisce una serie di arringhe basate sul concetto di legittima difesa. “Lo spettacolo” va in scena: il processo è seguitissimo, Madeleine fa la parte della fanciulla offesa raccontando solo metà della verità e Pauline mette a tacere procuratori maschilisti che hanno molta più esperienza di lei, diventando una sorta di icona femminista.


Il successo che non è arrivato con l’impegno e la perseveranza arriva con la messa in scena e con il precedente penale, e così tutti vissero felici e contenti… o quasi. Perché la vera colpevole del delitto, una vecchia gloria del cinema muto che era andata a supplicare il procuratore di avere una nuova opportunità, reclama l’occasione perduta. E vuole la sua fetta.



Sono andata a vedere Mon crime – La colpevole sono io convinta dalla presenza nel cast di Dany Boon, attore francese maestro della commedia: per me, quando c’è lui, sono risate assicurate. Questa volta è in un ruolo subalterno, ma di una simpatia assoluta: il dialogo tra lui ed il responsabile dell’indagine, che è suo amico da anni ma finge di trattarlo con freddezza, è da capottarsi dalle risate.


Il cuore della commedia, invece, è un concetto amaramente ironico, come spesso capita quando si vede un film francese. Questa è la storia di due donne giovani ed intelligenti che finché si sono comportate in modo onesto e virtuoso sono sempre state escluse da un mondo di uomini più potenti di loro, ma anche molto più sciocchi. Non c’è quindi da stupirsi che decidano di cambiare registro e di prenderli in giro non appena ne hanno la possibilità.


Questo film, però, non critica solo quegli uomini che credono di comandare ed invece si sono trovati soltanto sulla sedia più comoda, ma estende il suo sarcasmo a tutta la società, che è diventata così morbosa da non fare distinzioni tra un caso di cronaca e uno scandalo rosa: basta essere finiti sui giornali, e si è, in automatico, invidiabili e desiderabili.


È un film ironico ed arguto che fino alla fine non risparmia colpi di scena. Sono contenta di averlo visto e credo che ne recupererò altri del regista.



Il sol dell’avvenire, di Nanni Moretti


Giovanni è un regista di stampo nostalgico, che fa un film – molto impegnato – ogni cinque anni ed anche così spesso si fa prendere dal perfezionismo.


La pellicola su cui sta lavorando è un lungometraggio storico ambientato nel ‘56, la storia di un segretario del Partito Comunista che entra in una profonda crisi di valori dopo che l’Italia sceglie di schierarsi a favore della repressione della rivoluzione ungherese, soppressa dai sovietici. Giovanni vorrebbe concentrarsi sul lato politico della storia e sul drammatico epilogo che attende il suo protagonista, ma gli attori principali pensano ad una possibile storyline tra i loro personaggi ed improvvisano le battute in barba alle sue arrabbiature.


A casa le cose non vanno molto meglio: la moglie Paola, produttrice, dopo aver seguito tutti i suoi film, per la prima volta si sta occupando del lavoro di un altro giovane regista, un ragazzo che si è fatto influenzare più dai videogiochi e dalle serie tv sulla criminalità organizzata che dalla storia del cinema tradizionale. Anche per questo motivo, il matrimonio non va bene: Paola sente di non avere più un contatto con Giovanni e da tempo va in terapia e medita il divorzio.

Anche la figlia, una giovanissima pianista di talento che sta scrivendo le musiche per il film, si è fidanzata con un ambasciatore polacco molto più vecchio di lei.


Mentre Giovanni gira il suo film, un altro cortometraggio prende vita nella sua testa: quello di una giovane coppia che vive il suo amore, accompagnata da un sottofondo di famosissime canzoni italiane. Senza rendersene conto, Giovanni sta ripercorrendo la sua vita personale ed affettiva, una vita che per lui è sempre andata a braccetto con una serie di ideali privati, politici ed anche cinematografici. Egli sente la fine di tutto, come qualcuno sul set non tarda a ricordargli: di un mondo politico come lui lo conosceva, della sinistra com’era una volta, dell’amore, della positività con cui guardare al futuro. Forse però non è troppo tardi per cambiare direzione.



Il sol dell’avvenire mi ha fatto ridere e piangere allo stesso tempo.


Ho riso perché Nanni Moretti è sempre bravo ad interpretare il ruolo di chi vede tutto in modo diverso dalla massa – e con il peso specifico del plutonio, aggiungerei – e per questo motivo finisce per essere involontariamente comico. Perché è divertente e rassicurante vedere come chiunque lo stimi e gli voglia bene cerchi di schiodarlo dalle sue idee granitiche. Perché è come se il regista stesso, in certi momenti, ironizzasse su se stesso o su alcuni suoi vecchi lavori.



Come direbbe Dante, però, il riso si tramuta presto in pianto, perché effettivamente tutto quello che Nanni Moretti critica esiste davvero, ed è un fatto. Un certo cinema, che ha trasformato la violenza in intrattenimento, ed invece che nauseare lo spettatore spinge quasi a compierla. La fine di quello che era forse il “sogno” del PCI, in teoria partito di tutti e senza padroni, in pratica piegatosi – come tutti gli altri – a cause di forza maggiore. Quegli amori che finiscono quando, da un momento all’altro e senza che ci siano stati segnali di preavviso, si inizia a credere in ideali differenti e si va in due direzioni opposte. La tendenza “gattopardesca” italiana a far sì che tutto cambi… perché niente cambi.


La caratteristica più bella di questo film è la voglia di non arrendersi. La capacità di sognare, di ripartire anche dopo che il “tuo mondo” è andato distrutto. Ed è comunque un mondo che esiste e che va preso com’è, senza abbandonare la capacità di immaginare, di provare persino a “fare la storia con i se”.

Non vi nascondo che mi sono veramente emozionata.


Non so se sarà l’ultimo film di Moretti, anche se lui ce lo fa pensare. Un po’ mi dispiacerebbe, ma in fondo potrebbe essere giusto così.





Che ne dite? Preferite la letteratura, i delitti parigini o l’Italia degli anni ‘50?

Io non saprei che cosa scegliere, sono uscita soddisfatta tutte e tre le volte!

Fatemi sapere se voi avete visto questi film e che cosa ne pensate!

Grazie per la lettura, al prossimo post :-)


2 commenti :

  1. Nanni Moretti lo apprezzo e come attore e come regista, non escludo di vedere questo film.
    Ma quello che mi attira maggiormente è Emily, essendo appassionata delle sorelle Brontë (⁠✿⁠ ⁠♡⁠‿⁠♡⁠) conto di vederlo presto.
    Buon inizio di settimana Silvia

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  2. Visto nessuno dei tre, ma almeno gli ultimi due intendo recuperare ;)

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