giovedì 9 maggio 2024

LA FINE

 Novecento in poesia #9




Cari lettori, 

benvenuti all'appuntamento di maggio con il nostro "Novecento in poesia"! 

Dopo aver parlato d'amore, oggi ci tocca il suo eterno rivale letterario, ovvero... la morte, ahinoi. Come direbbe il mitico Terence Hill, "Dov'è il dilemma? Meglio l'amore, no?". Io sono d'accordo con lui, ma vi garantisco che queste poesie meritano una lettura. Non si parla solo di morte fisica, ma anche di una fine metaforica, da più punti di vista. 

Proviamo a leggerle insieme... 



Morte segreta, di Dario Bellezza


Salgo e scendo le scale di una casa non più

castello di forti speranze o di robusti amori, ma

che tessendo le fila dei miei disfatti giorni

annunzia inesorabile la voragine della sventura.

Lì, durante la scalata faticosa al vecchio

maniero abitato dai fantasmi sento voci precise

che appartengono all’incubo di notti cadute

addosso alla mia infanzia celeste nutrita

di ardori sconosciuti e angelici languori.


Fantasmi di amori morti, amicizie consumate

dal tempo rapitore di gioventù, inesorabile

abitatore di malate menti sconvolte dal nulla.

Dio non c’è, non c’è speranza per me se rientro

a casa furtivamente, sospetto di morire

per mano di un giovane assassino dietro

un angolo buio. Così appena arrivato, pieno

di sgomento ed eccitato dal mio sangue

non versato, alzo a me stesso la preghiera

solitaria di chi non s’innamora più

del suo assassino innocente e reale.



Ritratto di uomo malato, di Attilio Bertolucci


Questo che vedete qui dipinto in sanguigna e nero

e che occupa intero il quadro spazioso

sono io all’età di quarantanove anni, ravvolto

in un’ampia vestaglia che mozza a metà le mani


come fossero fiori, non lascia vedere se il corpo

sia coricato o seduto: così è degli infermi

posti davanti a finestre che incorniciano il giorno,

un altro giorno concesso agli occhi stancantisi presto.


Ma se chiedo al pittore, mio figlio quattordicenne,

chi ha voluto ritrarre, egli subito dice

«uno di quei poeti cinesi che mi hai fatto

leggere, mentre guarda fuori, una delle sue ultime ore».


È sincero, ora ricordo d’avergli donato quel libro

che rallegra il cuore di riviere celesti

e brune foglie autunnali; in esso saggi, o finti saggi, poeti

graziosamente lasciano la vita alzando il bicchiere.


Sono io appartenente ad un secolo che crede

di non mentire, a ravvisarmi in quell’uomo malato

mentendo a me stesso: e ne scrivo

per esorcizzare un male in cui credo e non credo.



Da “Poesie del sabato”, di Carlo Betocchi


Avrò la mia tomba; sarai tu che verrai,

morte procace, non squallida come quei timidi

dicono: io son tuo amante, morte, mia morte

che raccogli la vita tra le braccia e la

tramandi, dalle sue spoglie grano traendo,

e vita, nuova vita nel sole dei morti,

invisibile nella loro pace fruttifera,

da cui un’altra né mai diversa vita risorge,

nulla finisce, anzi tutto continua, o morte,

o amata morte, o amata.



A mani giunte, di Carlo Betocchi


Ha detto: «Io sono quello che sono»

e tu non temere mai nulla: poiché,

se tu credi, non sarà tua l’esistenza,

ma sua: né sarà mai protetta, tuttavia,

come tu speri e credi: anzi, gettata

nelle fosse. Chi crede in Dio

si appresti ad essere l’ultimo

dei salvati, ma sulla croce, ed a bere

tutta l’amarezza dell’abbandono.

Poiché Dio è quello che è.



I lamenti, III, di Giorgio Caproni


Io come sono solo sulla terra

coi miei errori, i miei figli, l’infinito

caos dei nomi ormai vacui e la guerra

penetrata nell’ossa! … Tu che hai udito

un tempo il mio tranquillo passo nella

sera degli Archi a Livorno, a che invito

cedi – perché tu o padre mio la terra

abbandoni appoggiando allo sfinito

mio cuore l’occhio bianco? … Ah padre, padre

quale sabbia coperse quelle strade

in cui insieme fidammo! Ove la mano

tua s’allentò, per l’eterno ora cade

come un sasso tuo figlio – ora è un umano

piombo che il petto non sostiene più.



I coltelli, di Giorgio Caproni


«Be’?» mi fece.

Aveva paura. Rideva.

D’un tratto, il vento si alzò.

L’albero, tutto intero, tremò.

Schiacciai il grilletto. Crollò.

Lo vidi, la faccia spaccata

sui coltelli: gli scisti.

Ah, mio dio. Mio Dio.

Perché non esisti?



Non morirai se morirai sempre, di Elio Fiore


Non morirai se morirai sempre, un patto

chiedo alle tue stelle di notte, un dialogo

fra le mura squarciate da fantastiche finestre.

Altro non chiede l’anima: né solitudine che rifugga in versi.


Duro sei cuore se non gridi alla promiscuità

coinvolta nella calma della città.

Viscida sei anima, se fingi una bellezza

degna di esistere soltanto nell’irrealtà.

Non fuggo, mi guardo bene; in questo buco

smusso gli eventi le nostre asprezze, incauto

stralcio illeciti pesi e, nel sottecchio

seppure nulla al mio tempio assicuro,

carpisco eresia della mente, una realtà misura.



Morto ai paesi, di Alfonso Gatto


Bambino festoso incontro alla strada

del giorno chiamato lungamente

sarò morto nel gioco dei paesi:

prima che la sera cada

porta a porta si sente

la quiete fresca del mare, stormire.


Il bambino festoso dove muore

nel suo grido fa sera

e nel silenzio trova bianco odore

di madre, la leggera

sembianza del suo volto.


Resta vergogna calda sulla fronte,

a rare

voci ritorna

lungo le porte ad ascoltare

il paese cantato sui carri.



Coro sul Lete, di Adriano Grande


«Noi siamo in pace: eppur, frequenti volte,

se memoria riaccende un fioco lume,

incantati palazzi, piante folte

e giardini odorosi, quali un tempo

agognavamo, s’alzano dal fiume.


O dolce vita! E non per il possesso

che in cenere si muta e rende i cuori

opachi e grevi; sì, per la bellezza

intravveduta, per i desiderii

che sbocciavano in noi, da rami fiori.


Ora sappiamo il nulla d’ogni cosa:

ma per vivere ancora accetteremmo

d’esser la pietra su cui l’acqua scorre,

il fango ove l’insetto si riposa,

l’erba sulle rovine di una torre».



Ceppo, di Giovanni Pascoli


È mezzanotte. Nevica. Alla pieve

suonano a doppio; suonano l’entrata.

Va la Madonna bianca tra la neve:

spinge una porta; l’apre: era accostata.

Entra nella capanna: la cucina

è piena d’un sentor di medicina.

Un bricco al fuoco s’ode borbottare:

piccolo il ceppo brucia al focolare.


Un gran silenzio. Sono a messa? Bene.

Gesù trema; Maria si accosta al fuoco.

Ma ecco un suono, un rantolo che viene

di su, sempre più fievole e più roco.

Il bricco versa e sfrigge: la campana,

col vento, or s’avvicina, or s’allontana.

La Madonna, con una mano al cuore,

geme: Una mamma, figlio mio, che muore!


E piano piano, col suo bimbo fiso

nel ceppo, torna all’uscio, apre, s’avvia.

Il ceppo sbracia e crepita improvviso,

il bricco versa e sfrigola via via:

quel rantolo… è finito. O Maria stanca!

Bianca tu passi tra la neve bianca.

Suona d’intorno il doppio dell’entrata:

voce velata, malata, sognata.



La discussione sul ponte, di Giovanni Raboni


Io sto a sentirlo: ma lui, chi può dire

se lo vede sul serio, lì dov’era,

con le quattro Sorelle di ghisa, le spallette

sul buio del Naviglio? Ma sì, è buio,

i coni d’ombra oscillano, il respiro

del Naviglio interrato striscia d’ombra

sulle facciate livide, danneggia

i sopralzi, restaura i cornicioni

bassi di via Mulino delle Armi,

di via Senato, di dov’era il Tombone

di San Marco e nell’ombra, oltre i portoni,

sembra che il verde sollevi la sua groppa

consunta, i giardini fatti a pezzi

dal notaio, spianati dai bulldozer

del monopoli… Io non gli chiedo di credere

ai miei poveri simboli, all’orrore

dell’ingiustizia anonima, più cieca,

più decorosa. Ma anche quei suoi giochi

con le ombre: e avere pietà

dei morti, sempre dei morti… Forse è questo

che dovrebbe sapere: da che parte

ci tirano le ombre, se bisogna

vivere con i vivi o con i morti.



In un cimitero di monti, di Ceccardo Roccatagliata Ceccardi


Tarda il sentiero in un silenzio d’erba

che ingialla di rammarico, e rinverde

non mietuta, tra un vel d’aridi gambi.

Una rosa selvatica, una stella

di iride azzurra, affacciansi talora

da quel deserto come un sogno…; un sogno

che intende co le pallide pupille

a un altro sogno, lungi, interminato.


Un suon di foglia, che sul gambo oscilla,

il voi silenzïoso d’una magra

farfalla bianca, il canto d’un uccello:

o il vento che tra gli alberi viaggia

il monte, con il sole, con le stelle

e con vele di nubi, variando

colloquî d’ombre e immagini di luce…


E in aria pende a l’infinito un’eco

di mar che rompa un’invisibil riva,

o ne la valle o dietro il monte.

Ed ora

è questa la tua vita, o madre mia.

(giugno 1899)



Campi Elisi, di Leonardo Sinisgalli


Di là dalla dolce provincia dell’Agri

Siete approdati alle rive sognate,

Oscuri morti familiari.

Le vostre salme hanno dato salute

Al verde degli orti.

I campi di fave si sono allargati

Oltre i cancelli:

Dove arse superba l’età delle rose

Le capre pestano la terra

Nei giorni di siccità.



Sono una creatura, di Giuseppe Ungaretti


(Valloncello di Cima Quattro il 5 agosto 1916)


Come questa pietra

del S.Michele

così fredda

così dura

così prosciugata

così refrattaria

così totalmente

disanimata


Come questa pietra

è il mio pianto

che non si vede


La morte

si sconta

vivendo



Preghiera, di Giuseppe Ungaretti


Quando mi desterò

dal barbaglio della promiscuità

in una limpida e attonita sfera


Quando il mio peso mi sarà leggero


Il naufragio concedimi Signore

di quel giovane giorno al primo grido



Che ne pensate? A me piacciono particolarmente le poesie di Alfonso Gatto e Dario Bellezza... ma anche quelle di Ungaretti sono dei classici che credo tutti conosciamo! 

Fatemi sapere che cosa vi ha colpito di più... 

Grazie per la lettura, al prossimo post :-)


Nessun commento :

Posta un commento