Novecento in poesia #9
Cari lettori,
benvenuti all'appuntamento di maggio con il nostro "Novecento in poesia"!
Dopo aver parlato d'amore, oggi ci tocca il suo eterno rivale letterario, ovvero... la morte, ahinoi. Come direbbe il mitico Terence Hill, "Dov'è il dilemma? Meglio l'amore, no?". Io sono d'accordo con lui, ma vi garantisco che queste poesie meritano una lettura. Non si parla solo di morte fisica, ma anche di una fine metaforica, da più punti di vista.
Proviamo a leggerle insieme...
Morte segreta, di Dario Bellezza
Salgo e scendo le scale di una casa non più
castello di forti speranze o di robusti amori, ma
che tessendo le fila dei miei disfatti giorni
annunzia inesorabile la voragine della sventura.
Lì, durante la scalata faticosa al vecchio
maniero abitato dai fantasmi sento voci precise
che appartengono all’incubo di notti cadute
addosso alla mia infanzia celeste nutrita
di ardori sconosciuti e angelici languori.
Fantasmi di amori morti, amicizie consumate
dal tempo rapitore di gioventù, inesorabile
abitatore di malate menti sconvolte dal nulla.
Dio non c’è, non c’è speranza per me se rientro
a casa furtivamente, sospetto di morire
per mano di un giovane assassino dietro
un angolo buio. Così appena arrivato, pieno
di sgomento ed eccitato dal mio sangue
non versato, alzo a me stesso la preghiera
solitaria di chi non s’innamora più
del suo assassino innocente e reale.
Ritratto di uomo malato, di Attilio Bertolucci
Questo che vedete qui dipinto in sanguigna e nero
e che occupa intero il quadro spazioso
sono io all’età di quarantanove anni, ravvolto
in un’ampia vestaglia che mozza a metà le mani
come fossero fiori, non lascia vedere se il corpo
sia coricato o seduto: così è degli infermi
posti davanti a finestre che incorniciano il giorno,
un altro giorno concesso agli occhi stancantisi presto.
Ma se chiedo al pittore, mio figlio quattordicenne,
chi ha voluto ritrarre, egli subito dice
«uno di quei poeti cinesi che mi hai fatto
leggere, mentre guarda fuori, una delle sue ultime ore».
È sincero, ora ricordo d’avergli donato quel libro
che rallegra il cuore di riviere celesti
e brune foglie autunnali; in esso saggi, o finti saggi, poeti
graziosamente lasciano la vita alzando il bicchiere.
Sono io appartenente ad un secolo che crede
di non mentire, a ravvisarmi in quell’uomo malato
mentendo a me stesso: e ne scrivo
per esorcizzare un male in cui credo e non credo.
Da “Poesie del sabato”, di Carlo Betocchi
Avrò la mia tomba; sarai tu che verrai,
morte procace, non squallida come quei timidi
dicono: io son tuo amante, morte, mia morte
che raccogli la vita tra le braccia e la
tramandi, dalle sue spoglie grano traendo,
e vita, nuova vita nel sole dei morti,
invisibile nella loro pace fruttifera,
da cui un’altra né mai diversa vita risorge,
nulla finisce, anzi tutto continua, o morte,
o amata morte, o amata.
A mani giunte, di Carlo Betocchi
Ha detto: «Io sono quello che sono»
e tu non temere mai nulla: poiché,
se tu credi, non sarà tua l’esistenza,
ma sua: né sarà mai protetta, tuttavia,
come tu speri e credi: anzi, gettata
nelle fosse. Chi crede in Dio
si appresti ad essere l’ultimo
dei salvati, ma sulla croce, ed a bere
tutta l’amarezza dell’abbandono.
Poiché Dio è quello che è.
I lamenti, III, di Giorgio Caproni
Io come sono solo sulla terra
coi miei errori, i miei figli, l’infinito
caos dei nomi ormai vacui e la guerra
penetrata nell’ossa! … Tu che hai udito
un tempo il mio tranquillo passo nella
sera degli Archi a Livorno, a che invito
cedi – perché tu o padre mio la terra
abbandoni appoggiando allo sfinito
mio cuore l’occhio bianco? … Ah padre, padre
quale sabbia coperse quelle strade
in cui insieme fidammo! Ove la mano
tua s’allentò, per l’eterno ora cade
come un sasso tuo figlio – ora è un umano
piombo che il petto non sostiene più.
I coltelli, di Giorgio Caproni
«Be’?» mi fece.
Aveva paura. Rideva.
D’un tratto, il vento si alzò.
L’albero, tutto intero, tremò.
Schiacciai il grilletto. Crollò.
Lo vidi, la faccia spaccata
sui coltelli: gli scisti.
Ah, mio dio. Mio Dio.
Perché non esisti?
Non morirai se morirai sempre, di Elio Fiore
Non morirai se morirai sempre, un patto
chiedo alle tue stelle di notte, un dialogo
fra le mura squarciate da fantastiche finestre.
Altro non chiede l’anima: né solitudine che rifugga in versi.
Duro sei cuore se non gridi alla promiscuità
coinvolta nella calma della città.
Viscida sei anima, se fingi una bellezza
degna di esistere soltanto nell’irrealtà.
Non fuggo, mi guardo bene; in questo buco
smusso gli eventi le nostre asprezze, incauto
stralcio illeciti pesi e, nel sottecchio
seppure nulla al mio tempio assicuro,
carpisco eresia della mente, una realtà misura.
Morto ai paesi, di Alfonso Gatto
Bambino festoso incontro alla strada
del giorno chiamato lungamente
sarò morto nel gioco dei paesi:
prima che la sera cada
porta a porta si sente
la quiete fresca del mare, stormire.
Il bambino festoso dove muore
nel suo grido fa sera
e nel silenzio trova bianco odore
di madre, la leggera
sembianza del suo volto.
Resta vergogna calda sulla fronte,
a rare
voci ritorna
lungo le porte ad ascoltare
il paese cantato sui carri.
Coro sul Lete, di Adriano Grande
«Noi siamo in pace: eppur, frequenti volte,
se memoria riaccende un fioco lume,
incantati palazzi, piante folte
e giardini odorosi, quali un tempo
agognavamo, s’alzano dal fiume.
O dolce vita! E non per il possesso
che in cenere si muta e rende i cuori
opachi e grevi; sì, per la bellezza
intravveduta, per i desiderii
che sbocciavano in noi, da rami fiori.
Ora sappiamo il nulla d’ogni cosa:
ma per vivere ancora accetteremmo
d’esser la pietra su cui l’acqua scorre,
il fango ove l’insetto si riposa,
l’erba sulle rovine di una torre».
Ceppo, di Giovanni Pascoli
È mezzanotte. Nevica. Alla pieve
suonano a doppio; suonano l’entrata.
Va la Madonna bianca tra la neve:
spinge una porta; l’apre: era accostata.
Entra nella capanna: la cucina
è piena d’un sentor di medicina.
Un bricco al fuoco s’ode borbottare:
piccolo il ceppo brucia al focolare.
Un gran silenzio. Sono a messa? Bene.
Gesù trema; Maria si accosta al fuoco.
Ma ecco un suono, un rantolo che viene
di su, sempre più fievole e più roco.
Il bricco versa e sfrigge: la campana,
col vento, or s’avvicina, or s’allontana.
La Madonna, con una mano al cuore,
geme: Una mamma, figlio mio, che muore!
E piano piano, col suo bimbo fiso
nel ceppo, torna all’uscio, apre, s’avvia.
Il ceppo sbracia e crepita improvviso,
il bricco versa e sfrigola via via:
quel rantolo… è finito. O Maria stanca!
Bianca tu passi tra la neve bianca.
Suona d’intorno il doppio dell’entrata:
voce velata, malata, sognata.
La discussione sul ponte, di Giovanni Raboni
Io sto a sentirlo: ma lui, chi può dire
se lo vede sul serio, lì dov’era,
con le quattro Sorelle di ghisa, le spallette
sul buio del Naviglio? Ma sì, è buio,
i coni d’ombra oscillano, il respiro
del Naviglio interrato striscia d’ombra
sulle facciate livide, danneggia
i sopralzi, restaura i cornicioni
bassi di via Mulino delle Armi,
di via Senato, di dov’era il Tombone
di San Marco e nell’ombra, oltre i portoni,
sembra che il verde sollevi la sua groppa
consunta, i giardini fatti a pezzi
dal notaio, spianati dai bulldozer
del monopoli… Io non gli chiedo di credere
ai miei poveri simboli, all’orrore
dell’ingiustizia anonima, più cieca,
più decorosa. Ma anche quei suoi giochi
con le ombre: e avere pietà
dei morti, sempre dei morti… Forse è questo
che dovrebbe sapere: da che parte
ci tirano le ombre, se bisogna
vivere con i vivi o con i morti.
In un cimitero di monti, di Ceccardo Roccatagliata Ceccardi
Tarda il sentiero in un silenzio d’erba
che ingialla di rammarico, e rinverde
non mietuta, tra un vel d’aridi gambi.
Una rosa selvatica, una stella
di iride azzurra, affacciansi talora
da quel deserto come un sogno…; un sogno
che intende co le pallide pupille
a un altro sogno, lungi, interminato.
Un suon di foglia, che sul gambo oscilla,
il voi silenzïoso d’una magra
farfalla bianca, il canto d’un uccello:
o il vento che tra gli alberi viaggia
il monte, con il sole, con le stelle
e con vele di nubi, variando
colloquî d’ombre e immagini di luce…
E in aria pende a l’infinito un’eco
di mar che rompa un’invisibil riva,
o ne la valle o dietro il monte.
Ed ora
è questa la tua vita, o madre mia.
(giugno 1899)
Campi Elisi, di Leonardo Sinisgalli
Di là dalla dolce provincia dell’Agri
Siete approdati alle rive sognate,
Oscuri morti familiari.
Le vostre salme hanno dato salute
Al verde degli orti.
I campi di fave si sono allargati
Oltre i cancelli:
Dove arse superba l’età delle rose
Le capre pestano la terra
Nei giorni di siccità.
Sono una creatura, di Giuseppe Ungaretti
(Valloncello di Cima Quattro il 5 agosto 1916)
Come questa pietra
del S.Michele
così fredda
così dura
così prosciugata
così refrattaria
così totalmente
disanimata
Come questa pietra
è il mio pianto
che non si vede
La morte
si sconta
vivendo
Preghiera, di Giuseppe Ungaretti
Quando mi desterò
dal barbaglio della promiscuità
in una limpida e attonita sfera
Quando il mio peso mi sarà leggero
Il naufragio concedimi Signore
di quel giovane giorno al primo grido
Che ne pensate? A me piacciono particolarmente le poesie di Alfonso Gatto e Dario Bellezza... ma anche quelle di Ungaretti sono dei classici che credo tutti conosciamo!
Fatemi sapere che cosa vi ha colpito di più...
Grazie per la lettura, al prossimo post :-)
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