Le donne raccontate da Dante #2
Cari lettori,
bentornati all’appuntamento di ottobre con la rubrica “Donne straordinarie” e, in particolare, con il nostro percorso dedicato alle figure femminili raccontate da Dante!
In settembre abbiamo iniziato a fare qualche riflessione insieme sull’Inferno e sul V canto, prima ripercorrendo la drammatica storia di Paolo e Francesca (raccontata in prima persona dalla gentildonna riminese), poi conoscendo meglio le altre donne che Dante ha scelto di destinare al cerchio dei lussuriosi.
Oggi proseguiamo con l’Inferno, dal momento che il mio progetto sarebbe dedicare tre post ad ogni cantica… almeno proviamoci, ahah! :-)
Ci addentriamo un po’ più tra i cerchi infernali, arrivando a toccare anche un canto che mi è molto caro, e parliamo di figure femminili molto particolari: non spiriti che un tempo furono carne ed ossa, bensì personaggi di fantasia, mutuati dalla mitologia e dalla letteratura classica, che in qualche modo fanno parte del complesso mondo dell’Inferno dantesco.
Ho pensato di dedicare un post a questi personaggi perché credo che, prima di arrivare a parlare di beate e di sante, e quindi di tornare ai contemporanei di Dante ed alla visione del mondo medioevale e cattolica, sia importante notare come il sommo poeta si sia innanzitutto ispirato alle figure femminili della mitologia classica, e quanto il loro esempio, soprattutto in negativo, sia stato una sorta di “specchio” per ritrarre, in canti successivi, donne virtuose e benedette.
Una volta di più, io ritengo che non sia un caso che Virgilio sia stato eletto dal Poeta come sua guida: egli non incarna solo la razionalità, ma un intero mondo letterario dal quale Dante è stato fortemente ispirato.
Senza ulteriori chiacchiere, passiamo a vedere quali saranno i personaggi che oggi ci faranno compagnia!
Eritone e gli altri viaggi infernali di Virgilio
In questo fondo della trista conca
discende mai alcun del primo grado,
che sol per pena ha la speranza cionca?
Questa question fec’io; e quei: Di rado
Incontra, mi rispose, che di nui
Faccia il cammino alcun per quale io vado.
Ver’è che altra fiata quaggiù fui,
Congiurato da quella Eriton cruda,
Che richiamava l’ombre a’ corpi sui.
Di poco era di me la carne nuda,
Ch’ella mi fece entrar dentro a quel muro,
per trarne uno spirto del cerchio di Giuda.
(canto IX, vv.16-27)
Dante e Virgilio sono alle porte della città di Dite, un luogo che, non a caso, è stato descritto dal poeta latino anche nell’Eneide. Dante è rimasto sbigottito dagli eventi che lo hanno sconvolto nel canto precedente, e Virgilio, al contrario, è diventato rosso di rabbia, un po’ per l’indignazione di quello che ha visto, un po’ per sostenere il suo allievo nel difficile cammino.
Dal momento che la città di Dite è un luogo raccontato da tanti poeti della classicità, Dante chiede a Virgilio se mai qualcuno degli abitanti del Limbo si è mai avventurato lì sotto. Il poeta latino, capendo che il suo allievo si riferisce soprattutto a se stesso ma non ha il coraggio di formulare una domanda esplicita, racconta un episodio che non ha quasi nulla di storico ma molto di leggendario.
Egli rievoca la figura di Eritone, una maga della Tessaglia che millantava la capacità di far tornare in vita i morti, ricongiungendo le anime ai corpi con un maleficio. Dice che, poco dopo essere morto, egli ha dovuto trascorrere un periodo in “ostaggio” nella città di Dite, ad occupare il posto di un’anima che era stata richiamata sulla Terra proprio da Eritone, prima di poter essere collocato al Limbo.
Purtroppo questo passo è molto controverso, perché Eritone sembra essere vissuta in un periodo in cui viveva anche Virgilio (anche se potrebbe benissimo essergli sopravvissuta qualche anno) e la teoria infernale dell’ “ostaggio” è sostenuta soltanto dallo studioso Biagioli, vissuto tra 1700 e 1800.
Credo però che la menzione di Eritone sia comunque interessante per due motivi.
Il primo è che, come già altre volte capiterà nel corso della Commedia, Dante condanna tutte le forme di magia e di esoterismo, ritenendole un retaggio delle religioni pagane. Purtroppo il Medioevo (e non solo) era periodo di caccia alle streghe, e Dante era uomo del suo tempo, ma gli si può almeno riconoscere il merito di non aver magnificato queste barbare pratiche e di aver dato spazio all’archetipica figura della “maga” di origine classica, seppure nell’Inferno e con connotazione negativa.
Il secondo è il fatto che Eritone è nominata nei Pharsalia di Lucano, un altro poeta epico latino che Dante aveva studiato accuratamente e che qui ha voluto omaggiare. Non possiamo considerarla una figura mitologica, ma sicuramente è una figura a metà strada tra verità e leggenda, inserita in quello che è un importante poema storico.
Le Furie
Perocché l’occhio m’avea tutto tratto
Ver l’alta torre alla cima rovente,
Ove in un punto furon dritte ratto
Tre furie infernal di sangue tinte,
Che membra femminili aveano ed atto;
E con idre verdissime eran cinte;
Serpentelli e ceraste avean per crine,
Onde le fiere tempie eran avvinte.
E quei che ben conobbe le meschine
Della regina dell’eterno pianto:
Guarda, mi disse, le feroci Erine.
Questa è Megera dal sinistro canto:
Quella, che piange dal destro, è Aletto:
Tesifone è nel mezzo: e tacque a tanto
Coll’unghie si fendea ciascuna il petto;
Batteansi a palme, e gridavan sì alto,
Ch’io mi strinsi al poeta per sospetto.
(canto IX, vv. 35-51)
Le tre figure che Dante e Virgilio incontrano alle porte della Città di Dite sono molto ben conosciute da chi ha studiato il teatro greco: si tratta delle tre Furie, note anche come Erinni e ri-battezzate Eumenidi (“benevole”) dalla civiltà greca.
Esse erano considerate le dee della vendetta, soprattutto quando si trattava di omicidi contro i familiari e gli amici più cari. Nella letteratura greca, esse tormentano Oreste ed Elettra, figli di Agamennone, dopo che essi hanno vendicato il padre uccidendo la madre Clitennestra ed il suo amante; guidano la mano assassina di Medea, che, pur di ferire il marito Giasone, uccide i loro figli (in questo post ne ho parlato meglio); sono testimoni del rapimento di Persefone/Proserpina (qui definita la regina dell’eterno pianto) da parte del dio dei morti Ade/Plutone, e scatenano l’ira della madre di lei, Demetra/Cerere.
Odiate e temute in epoca micenea e classica, esse furono successivamente ribattezzate con il nome di Eumenidi e venerate come le altre divinità, con tanto di sacrifici.
Dante, studioso della cultura classica, porta le tre Furie “fuor di metafora”: gli uomini greci ritenevano di essere stati maledetti dalle Erinni dopo aver compiuto un atroce delitto, ma erano semplicemente tormentati dal dolore e del rimorso per aver ucciso una delle persone più vicine a loro.
Esse sono un simbolo della rabbia eterna, del dolore insanabile, del tormento interiore di chi non può rimediare al terribile male che ha compiuto, e per questo motivo sono ben collocate a guardia della città di Dite, luogo mitologico ed infernale al tempo stesso.
Medusa
Venga Medusa: sì ‘l farem di smalto,
Dicevan tutte riguardando in giuso:
Mal non vengiammo in Teseo l’assalto.
Volgiti indietro, e tien lo viso chiuso:ù
Chè se il Gorgon si mostra, e tu il vedessi,
Nulla sarebbe del tornar mai suso.
Così disse il Maestro; ed egli stessi
Mi volse, e non si tenne alle mie mani
Che con le sue ancor non mi chiudessi.
O voi, ch’avete gl’intelletti sani,
Mirate la dottrina che s’asconde
Sotto il velame degli versi strani.
(canto IX, vv. 52-63)
Le tre Furie temono che Dante sia venuto a sottrarre beni preziosi o anime, così come, prima di lui, aveva fatto l’eroe mitologico Teseo. Per fermarlo, esse convocano quella che potrebbe essere considerata la loro regina, perché non solo ha i capelli fatti di serpenti come loro, ma anche lo sguardo che rende di pietra gli uomini: Medusa.
Dante, su indicazione di Virgilio, chiude gli occhi per non vedere l’apparizione della Gorgone (Medusa è chiamata anche così perché era una delle sorelle che portavano questo cognome). La presenza di questo personaggio mitologico all’interno della Commedia, subito dopo l’apparizione delle Furie, è fortemente simbolica.
Se le Furie sono simbolo del rimorso che sembra continuare a tormentare le anime infernali della Città di Dite, che non sono più soltanto incontinenti come nei cerchi precedenti ma hanno compiuto atti dolosi volontariamente, Medusa è invece l’incarnazione dei piaceri terreni, che spengono le capacità razionali dell’uomo e lo allontanano da Dio (e non è un caso che i due poeti stiano per incontrare proprio gli eretici).
Non guardare Medusa significa chiudere gli occhi di fronte alle tentazioni dei piaceri che sviano dalla celeberrima diritta via che Dante ha smarrito, anche grazie all’aiuto di Virgilio, che è la razionalità personificata e che lo aiuta a non guardare.
In verità, se un letterato odierno volesse riscrivere il mito di Medusa, quasi sicuramente scriverebbe una storia di oppressione al femminile, di violenza dei potenti contro gli ultimi e di victim blaming. Medusa era infatti una sacerdotessa di Atena, della cui bellezza la dea era sempre stata molto gelosa. Ella venne violentata da Poseidone proprio sotto l’altare della dea, e quest’ultima, furiosa per l’affronto che il dio da sempre rivale le aveva fatto, finì con il punire la sacerdotessa, che, a suo parere, non era più “pura”, e la trasformò nell’orribile creatura mitologica la cui iconografia è rimasta immortale, destinata a terrorizzare chiunque ed a morire per mano di Perseo.
Ancora una volta, la visione mitologica di Dante è quella di un uomo del suo tempo, ma io personalmente vedo una sua modernità anche solo nella scelta di inserire tali figure, che erano simboli di sangue e di violenza e che sicuramente in un lettore medioevale destavano orrore e stupore allo stesso tempo.
Le arpie
Non era ancor di là Nesso arrivato,
Quando noi ci mettemmo per un bosco,
Che da nessun sentiero era segnato.
Non frondi verdi, ma di color fosco,
Non rami schietti, ma nodosi e involti,
Non pomi v’eran, ma stecchi con tosco.
Non han sì aspri sterpi, né sì folti
Quelle fiere selvagge, che in odio hanno
Tra Cecina e Corneto i luoghi colti.
Quivi le brutte Arpie lor nido fanno,
Che cacciâr delle Strofade i Troiani
Con tristo annunzio di futuro danno.
Ale hanno late, e colli e visi umani,
Pié con artigli, e pennuto il gran ventre:
Fanno lamenti in su gli alberi strani.
(Canto XIII, vv.1-15)
Oggi abbiamo analizzato soprattutto il IX canto dell’Inferno, ma mi sembra giusto concludere facendo una piccola incursione nel XIII, uno dei miei preferiti, e presentandovi l’ultima figura “in forma di donna” di oggi: le Arpie.
Il XIII canto è quello della cosiddetta “selva dei suicidi”: gli alberi secchi e nodosi, che, se feriti, buttano fuori sangue, sono i miseri resti di chi è stato violento contro se stesso, togliendosi la vita. Il principale protagonista di questo canto è Pier delle Vigne, il segretario e braccio destro del re Federico II, una delle figure più importanti del Medioevo; la conclusione, però, è insieme ad un anonimo fiorentino, un concittadino di Dante che si è tolto la vita in casa sua.
È un canto di incredibile attualità: si parla di invidia tra i potenti, precarietà esistenziale di chi raggiunge una posizione tanto ammirevole quanto fragile e soggetta a gelosie altrui, vergogna e senso di colpa. Si parla soprattutto del perenne tormento che affligge chi si toglie la vita, tormento che viene amplificato proprio dalle Arpie.
Se infatti Dante torce per errore un piccolo ramo all’albero che è in realtà l’anima di Pier delle Vigne, le Arpie, mostruose creature metà donne e metà uccelli, dal corpo piumato e dagli artigli affilati, fanno il nido tra gli alberi dei suicidi, piantando le zampe appuntite tra il tenero legno, e, rincorrendosi tra di loro, sembrano divertirsi a straziarne i rami.
Come nel caso delle tre Furie/Eumenidi e di Medusa, anche il valore delle Arpie è fortemente simbolico: ogni volta che esse dilaniano le nuove carni dei suicidi, essi sono costretti a ripensare con dolore al momento in cui hanno rifiutato il corpo che è stato loro donato al momento della nascita. Il XIII è un canto di tormento e di doloroso stupore, quasi i suicidi stessi si chiedessero perché sono fuggiti dalla vita terrena, se poi la conseguenza è stata una vita di pene ultraterrene. Personalmente leggerei anche un riferimento alle persone care dei suicidi, che sono rimaste sulla Terra a chiedersi, ancora una volta, con tormento che cosa abbia condotto la persona amata ad un simile gesto.
Anche il secondo appuntamento con Dante è giunto al termine!
Oggi, come avrete notato, vi ho parlato molto più di mitologia classica che di iconografia medioevale. Questo perché, come tanti di voi già sapranno, Dante immagina l’Inferno come molto simile al regno degli Inferi di Ade/Plutone, mentre, nel Purgatorio ed ancor di più nel Paradiso, ci sono molti più riferimenti al mondo della cristianità, dalle vite quotidiane di santi e beati alla pura teologia.
Vi sarete anche accorti che, ad eccezione di Eritone (che, comunque, sembra che fosse dotata di abilità non certo umane), ho parlato più di creature in forma femminile che di donne vere e proprie. Nell’Inferno è piuttosto comune trovare personaggi di questo tipo: nel prossimo post credo che ci sarà di nuovo un mix di personaggi femminili, poi cambieremo registro con le altre due cantiche, conoscendo anche dei personaggi storicamente esistiti (come Francesca).
Nel frattempo fatemi sapere se questo post vi è interessato, che cosa conoscevate già, cosa è nuovo per voi, che cosa vi è piaciuto. Non fatevi problemi né a chiedere chiarimenti né a consigliarmi qualche miglioria (o qualche argomento che vi piace) per i prossimi appuntamenti danteschi!
Grazie per la lettura, al prossimo post :-)
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