giovedì 8 febbraio 2024

LUOGHI E MOMENTI DEL CUORE

 Novecento in poesia #6




Cari lettori, 

l'appuntamento di oggi con il nostro percorso alla scoperta del Novecento in poesia è incentrata su un tema che mi è molto caro: luoghi e momenti del cuore. Penso che, se mi conoscete almeno un po', sappiate quanto mi siano cari i ricordi, e quanto mi piaccia tornare in quelli che sono i miei luoghi preferiti. 

Tra le poesie che ho raccolto oggi ce ne sono di bellissime... spero tanto che piacciano anche a voi!



Capodanno, di Giorgio Bárberi Squarotti


Il vento nella notte cercò di

portare via l’anno un po’ in anticipo,

e il mattino, dopo, era perfin troppo limpido,

quasi che poco ci fosse rimasto se non di tempo

certo di case e vigne e di colline

e anche delle montagne che al tramonto

erano apparse rosee di neve e qualche

esile nuvola: poi come sempre venne avanti lenta-

mente Blegnino nel mantello nero

in tutto quel chiarore, un poco forse

esitante, come se si affacciasse

sul vuoto, e non sul solito cammino per Monforte,

poi anche un uccello che Eugenio disse per una ghiandaia

attraversò l’aria si posò su un ramo come su

un’incrinatura della luce, ma non altro, non

altro finché i bambini non incominciarono

a disegnare sui vetri un po’ appannati

le case basse di un paese, qualche cavallo, un uomo

in piedi, con un grande cappello gli speroni

e una pistola in mano.



At home, di Attilio Bertolucci


Il sole lentamente si sposta

sulla nostra vita, sulla paziente

storia dei giorni che un mite

calore accende, d’affetti e di memorie.


A quest’ora meridiana

lo spaniel invecchia sul mattone

tiepido, il tuo cappello di paglia

s’allontana nell’ombra della casa.



Per Pasqua: auguri a un poeta, di Carlo Betocchi


a Giorgio Caproni


Giorgio, quante croci sui monti, quante,

fatte d’un po’ di tutto, di filagne

che inclinate si spaccano, di scarti,


ma croci che respirano nell’aria,

in vetta alle colline, dove i poveri

hanno anch’essi un colore d’azzurro,


la simile cred’io l’ebbe Gesù,

non già di prima scelta, rimediata

tra’ rimasugli d’un antro artigiano,


commessa con cavicchi raccattati,

eppure estrosa, ed alta, ed indomabile

e tentennante com’è la miseria:


ecco la nostra Pasqua onde ti manda

il mio libero cuore quest’auguri

pensando che non è per l’occasione


ma per quella di sempre, che si salva

dalle occasioni, del cuor che non soffre

che del non amare, e sempre sta in croce


con un cartiglio fradicio che in vetta

dice: È un poveraccio, questi che vuole

ciò che il mondo non vuole, solo amore.



La dolce Lombardia coi suoi giardini, di Dino Campana


La dolce Lombardia coi suoi giardini

Il monte Rosa

È un grande macigno

Ci corrono le vette

A destra e a sinistra all’infinito

Come negli occhi del prigioniero.

È grigio il cielo, laggiù si stendono

Al piano

Infinitamente

I pennacchi tremuli delle betulle

Come un tabernacolo gotico.

Il cielo è pieno di picchi

Bianchi che corrono,

Ma la Torre di San Gaudenzio

Instaura un panteon aereo

Di archi dorici di marmo.

Sugli spalti una solitaria

Cerca l’amore.

L’aspro vino mi ha riconfortato

E dal baluardo un azzurro

Sconfinato

Posa sulle betulle,

Panteon aereo di colonne

Sopra un giardino di Lombardia.

Settembre solare denso

Dove le betulle emergono nel

Piano

Lontano

Il macigno bianco.



Nel parco di Versailles, di Luciano Erba


All’umano mestiere di vivere

pause sub tegmine fagi

quante, o memoria?

A Versailles la carezza di una barca

sul liquido morto del bacino

mi lisciava la pelle.

I bordi, opus Lenotri,

rispondevano in pallide curve

all’eco dei morti paesi

(item un perso biplano

nel decoro di sfatta nuvolaglia).

Così e con voglia di pane

formaggio e fichi

attesi le rane della sera:

io restavo l’ultimo segreto

ma inviolato.



Aprile dal bel nome, di Vivian Lamarque


Aprile dal bel nome

quando sono nata

io stessa con nomi curiosi

di bei significati

per dire che ero pratolina

e questo e quest’altro

e che dovevo vivere

(da una parte o dall’altra)

per dire donata

(o donanda)


insomma sono nata d’aprile

in montagna.



Lungo il fiume, di Mario Luzi


Chi esce vede segni inaspettati,

toppe di neve sopra i monti. Il freddo

di Pasqua è crudele con i fiori,

fa regredire i deboli, i malati

e più d’uno dimessa la speranza

rabbrividisce dentro sciarpe e baveri.


Se t’incontro non è opera mia,

seguo il corso di questo fiume rapido

dove s’insinua tra baracche e tumuli.

Son luoghi ove il girovago, flautista

o lanciatore di coltelli, avviva

il fuoco, tende per un po’ le mani,

prende sonno; il vecchio scioglie il cane

lungo l’argine e guarda la corrente

e l’uomo in piedi sulla chiatta fruga

il fondo con la pertica e procede

ore e ore finché nelle casupole

sulla tavola posano le lampade.


Il paesaggio è quello umano

che per assenza d’amore

appare disunito e strano.

Tu come t’aggiri solitaria.

È più chiaro che mai, la sofferenza

penetra nella sofferenza altrui

oppure è vana

- solo vorrei non come fiume freddo,

come fuoco che comunica…


Amore difficile a portare,

difficile a ricevere. Se osa

si turba, sente il freddo della serpe

ma se non osa volge inappagato,

preme d’età in età, di vita in vita.

Il fiume corre, snoda le sue rapide,

la famiglia raccolta per la cena

brucia l’attesa, si divide il cibo.

Tuona, a tratti pioviggina. Cresce erba.



La casa dei doganieri, di Eugenio Montale


Tu non ricordi la casa dei doganieri

sul rialzo a strapiombo sulla scogliera:

desolata t’attende dalla sera

in cui v’entrò lo sciame dei tuoi pensieri

e vi sostò irrequieto.


Libeccio sferza da anni le vecchie mura

e il suono del tuo riso non è più lieto:

la bussola va impazzita all’avventura

e il calcolo dei dadi più non torna.

Tu non ricordi; altro tempo frastorna

la tua memoria; un filo d’addipana.


Ne tengo ancora un capo; ma s’allontana

in casa e in cima al tetto la banderuola

affumicata gira senza pietà.

Ne tengo un capo; ma tu resti sola

né qui respiri nell’oscurità.


Oh l’orizzonte in fuga, dove s’accende

rara la luce della petroliera!

Il varco è qui? (Ripullula il frangente

ancora sulla balza che scoscende…).

Tu non ricordi la casa di questa

mia sera. Ed io non so chi va e chi resta.



Sul lago d’Orta, di Eugenio Montale


Le Muse stanno appollaiate

sulla balaustrata

appena un filo di brezza sull’acqua

c’è qualche albero illustre

la magnolia il cipresso l’ippocastano

la vecchia villa è scortecciata

da un vetro rotto vedo sofà ammuffiti

e un tavolo da ping-pong. Qui non viene nessuno

da molti anni. Un guardiano era previsto

ma si sa come vanno le previsioni.

È strana l’angoscia che si prova

in questa deserta proda sabbiosa erbosa

dove i salici piangono davvero

e ristagna indeciso tra vita e morte

un intermezzo senza pubblico. È

un’angoscia limbale sempre incerta

tra la catastrofe e l’apoteosi

di una rigogliosa decrepitudine.

Se il bandolo del puzzle più tormentoso

fosse più che un’ubbia

sarebbe strano trovarlo dove neppure un’anguilla

tenta di sopravvivere. Molti anni fa c’era qui

una famiglia inglese. Purtroppo manca il custode

ma forse quegli angeli (angli) non erano così pazzi

da essere custoditi.



Da “Luce frontale”, di Roberto Mussapi


Dicembre e i bambini in fila indiana

escono dalle case come da pozze abbandonate

dalla luce, e i neri

cappotti scorrono nella neve

bersagliati da grida, ma non è

in loro, volti all’estuario ferito di canne

altro che la clessidra macerata dai passi

uno dopo l’altro, sempre uguali,


e i disseminati

radenti voli, autografi

sordi nel cielo che preme

i rami degli abeti piegati in preghiera,

alla fine del passo e del ricordo forzato, al limite

del campo di prigionia e delle acque

nel confine e nel primo lavacro, ognuno nudo,

nevica

e negli occhi qualcosa fuoriesce dal passaggio:

nel comune dolore, io arrivai

mentre la neve cessava ma ancora

crepitava sotto i piedi, un’arcata

di luce si apriva in fondo al viale

tra neri ippocastani come un santuario di nascite

e in un furore di ombre crepitanti li riconobbi,

dicemmo sì.



Vento a Tindari, di Salvatore Quasimodo


Tindari, mite ti so

fra larghi colli pensile sull’acque

dell’isole dolci del dio,

oggi m’assali

e ti chini in cuore.


Salgo vertici aerei precipizi,

assorto al vento dei pini,

e la brigata che lieve m’accompagna

s’allontana nell’ara,

onda di suoni e amore,

e tu mi prendi

da cui male mi trassi

e paure d’ombre e di silenzi,

rifugi di dolcezze un tempo assidue

e morte d’anima.


A te ignota è la terra

ove ogni giorno affondo

e segrete sillabe nutro:

altra luce ti sfoglia sopra i vetri

nella veste notturna,

e gioia non mia riposa

sul tuo grembo.


Aspro è l’esilio,

e la ricerca che chiudevo in te

d’armonia oggi si muta

in ansia precoce di morire;

e ogni amore è scherno alla tristezza,

tacito passo nel buio

dove mi hai posto

amaro pane a rompere.


Tindari serena torna;

soave amico mi desta

che mi sporga nel cielo da una rupe

e io fingo timore a chi non sa

che vento profondo m’ha cercato.



Lamento per il Sud, di Salvatore Quasimodo


La luna rossa, il vento, il tuo colore

di donna del Nord, la distesa di neve…

Il mio cuore è ormai su queste praterie

in queste acque annuvolate dalle nebbie.

Ho dimenticato il mare, la grave

conchiglia soffiata dai pastori siciliani,

le cantilene dei carri lungo le strade

dove il carrubo trema nel fumo delle stoppie,

ho dimenticato il passo degli aironi e delle gru

nell’aria dei verdi altipiani

per le terre e i fiumi della Lombardia.

Ma l’uomo grida dovunque la sorte d’una patria.

Più nessuno mi porterà nel Sud.


Oh il Sud è stanco di trascinare morti

in riva alle paludi di malaria,

è stanco di solitudine, stanco di catene,

è stanco nella sua bocca

delle bestemmie di tutte le razze

che hanno urlato morte con l’eco dei suoi pozzi

che hanno bevuto il sangue del suo cuore.

Per questo i suoi fanciulli tornano sui monti,

costringono i cavalli sotto coltri di stelle,

mangiano fiori d’acacia lungo le piste

nuovamente rosse, ancora rosse, ancora rosse.

Più nessuno mi porterà nel Sud.


E questa sera carica d’inverno

è ancora nostra, e qui ripeto a te


il mio assurdo contrappunto

di dolcezze e di furori,

un lamento d’amore senza amore.



Spotorno, di Camillo Sbarbaro


Spotorno, terra senza risorse.

Vi alligna fortemente l’ulivo, il sorbo vi si carica di mazzetti duri.

Litorale dalla vegetazione bizzarra:

si siede e si tace

in faccia al mare senza illusioni

con qualche volta appena una manciata di zecchini tremolanti

freddo e infinito.

Passa al largo il guscio rossastro della petroliera.

L’estate le bagnanti spumeggianti sfacciate

scacciano le indigene, topi terragnoli.


Negli orti le casette screpolate rosee

stupiscono al passaggio dell’espress che le fa traballare.


Sin dentro le case la voce della maretta.


Spotorno

paesaggio dell’anima

monti ridotti allo scheletro

aria schietta celestina

cielo liquido che a guardarlo si beve…



Da “Scarse serpi”, di Toti Scialoja


Di tanto in tanto a Taranto

arde un cielo amaranto

nasce dal male un rantolo

interrotto da un tonfo.


È una tortura a Taranto

la ronda del tramonto

anima mia all’istante

moribonda tarantola.



Che cosa ne pensate? Io adoro le poesie di Bertolucci, Betocchi e Montale, ma tutte quelle che ho scelto oggi per voi, secondo me, sono speciali. 

Fatemi sapere quali sono le vostre preferite! 

Grazie per la lettura, al prossimo post :-)



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