Novecento in poesia #6
Cari lettori,
l'appuntamento di oggi con il nostro percorso alla scoperta del Novecento in poesia è incentrata su un tema che mi è molto caro: luoghi e momenti del cuore. Penso che, se mi conoscete almeno un po', sappiate quanto mi siano cari i ricordi, e quanto mi piaccia tornare in quelli che sono i miei luoghi preferiti.
Tra le poesie che ho raccolto oggi ce ne sono di bellissime... spero tanto che piacciano anche a voi!
Capodanno, di Giorgio Bárberi Squarotti
Il vento nella notte cercò di
portare via l’anno un po’ in anticipo,
e il mattino, dopo, era perfin troppo limpido,
quasi che poco ci fosse rimasto se non di tempo
certo di case e vigne e di colline
e anche delle montagne che al tramonto
erano apparse rosee di neve e qualche
esile nuvola: poi come sempre venne avanti lenta-
mente Blegnino nel mantello nero
in tutto quel chiarore, un poco forse
esitante, come se si affacciasse
sul vuoto, e non sul solito cammino per Monforte,
poi anche un uccello che Eugenio disse per una ghiandaia
attraversò l’aria si posò su un ramo come su
un’incrinatura della luce, ma non altro, non
altro finché i bambini non incominciarono
a disegnare sui vetri un po’ appannati
le case basse di un paese, qualche cavallo, un uomo
in piedi, con un grande cappello gli speroni
e una pistola in mano.
At home, di Attilio Bertolucci
Il sole lentamente si sposta
sulla nostra vita, sulla paziente
storia dei giorni che un mite
calore accende, d’affetti e di memorie.
A quest’ora meridiana
lo spaniel invecchia sul mattone
tiepido, il tuo cappello di paglia
s’allontana nell’ombra della casa.
Per Pasqua: auguri a un poeta, di Carlo Betocchi
a Giorgio Caproni
Giorgio, quante croci sui monti, quante,
fatte d’un po’ di tutto, di filagne
che inclinate si spaccano, di scarti,
ma croci che respirano nell’aria,
in vetta alle colline, dove i poveri
hanno anch’essi un colore d’azzurro,
la simile cred’io l’ebbe Gesù,
non già di prima scelta, rimediata
tra’ rimasugli d’un antro artigiano,
commessa con cavicchi raccattati,
eppure estrosa, ed alta, ed indomabile
e tentennante com’è la miseria:
ecco la nostra Pasqua onde ti manda
il mio libero cuore quest’auguri
pensando che non è per l’occasione
ma per quella di sempre, che si salva
dalle occasioni, del cuor che non soffre
che del non amare, e sempre sta in croce
con un cartiglio fradicio che in vetta
dice: È un poveraccio, questi che vuole
ciò che il mondo non vuole, solo amore.
La dolce Lombardia coi suoi giardini, di Dino Campana
La dolce Lombardia coi suoi giardini
Il monte Rosa
È un grande macigno
Ci corrono le vette
A destra e a sinistra all’infinito
Come negli occhi del prigioniero.
È grigio il cielo, laggiù si stendono
Al piano
Infinitamente
I pennacchi tremuli delle betulle
Come un tabernacolo gotico.
Il cielo è pieno di picchi
Bianchi che corrono,
Ma la Torre di San Gaudenzio
Instaura un panteon aereo
Di archi dorici di marmo.
Sugli spalti una solitaria
Cerca l’amore.
L’aspro vino mi ha riconfortato
E dal baluardo un azzurro
Sconfinato
Posa sulle betulle,
Panteon aereo di colonne
Sopra un giardino di Lombardia.
Settembre solare denso
Dove le betulle emergono nel
Piano
Lontano
Il macigno bianco.
Nel parco di Versailles, di Luciano Erba
All’umano mestiere di vivere
pause sub tegmine fagi
quante, o memoria?
A Versailles la carezza di una barca
sul liquido morto del bacino
mi lisciava la pelle.
I bordi, opus Lenotri,
rispondevano in pallide curve
all’eco dei morti paesi
(item un perso biplano
nel decoro di sfatta nuvolaglia).
Così e con voglia di pane
formaggio e fichi
attesi le rane della sera:
io restavo l’ultimo segreto
ma inviolato.
Aprile dal bel nome, di Vivian Lamarque
Aprile dal bel nome
quando sono nata
io stessa con nomi curiosi
di bei significati
per dire che ero pratolina
e questo e quest’altro
e che dovevo vivere
(da una parte o dall’altra)
per dire donata
(o donanda)
insomma sono nata d’aprile
in montagna.
Lungo il fiume, di Mario Luzi
Chi esce vede segni inaspettati,
toppe di neve sopra i monti. Il freddo
di Pasqua è crudele con i fiori,
fa regredire i deboli, i malati
e più d’uno dimessa la speranza
rabbrividisce dentro sciarpe e baveri.
Se t’incontro non è opera mia,
seguo il corso di questo fiume rapido
dove s’insinua tra baracche e tumuli.
Son luoghi ove il girovago, flautista
o lanciatore di coltelli, avviva
il fuoco, tende per un po’ le mani,
prende sonno; il vecchio scioglie il cane
lungo l’argine e guarda la corrente
e l’uomo in piedi sulla chiatta fruga
il fondo con la pertica e procede
ore e ore finché nelle casupole
sulla tavola posano le lampade.
Il paesaggio è quello umano
che per assenza d’amore
appare disunito e strano.
Tu come t’aggiri solitaria.
È più chiaro che mai, la sofferenza
penetra nella sofferenza altrui
oppure è vana
- solo vorrei non come fiume freddo,
come fuoco che comunica…
Amore difficile a portare,
difficile a ricevere. Se osa
si turba, sente il freddo della serpe
ma se non osa volge inappagato,
preme d’età in età, di vita in vita.
Il fiume corre, snoda le sue rapide,
la famiglia raccolta per la cena
brucia l’attesa, si divide il cibo.
Tuona, a tratti pioviggina. Cresce erba.
La casa dei doganieri, di Eugenio Montale
Tu non ricordi la casa dei doganieri
sul rialzo a strapiombo sulla scogliera:
desolata t’attende dalla sera
in cui v’entrò lo sciame dei tuoi pensieri
e vi sostò irrequieto.
Libeccio sferza da anni le vecchie mura
e il suono del tuo riso non è più lieto:
la bussola va impazzita all’avventura
e il calcolo dei dadi più non torna.
Tu non ricordi; altro tempo frastorna
la tua memoria; un filo d’addipana.
Ne tengo ancora un capo; ma s’allontana
in casa e in cima al tetto la banderuola
affumicata gira senza pietà.
Ne tengo un capo; ma tu resti sola
né qui respiri nell’oscurità.
Oh l’orizzonte in fuga, dove s’accende
rara la luce della petroliera!
Il varco è qui? (Ripullula il frangente
ancora sulla balza che scoscende…).
Tu non ricordi la casa di questa
mia sera. Ed io non so chi va e chi resta.
Sul lago d’Orta, di Eugenio Montale
Le Muse stanno appollaiate
sulla balaustrata
appena un filo di brezza sull’acqua
c’è qualche albero illustre
la magnolia il cipresso l’ippocastano
la vecchia villa è scortecciata
da un vetro rotto vedo sofà ammuffiti
e un tavolo da ping-pong. Qui non viene nessuno
da molti anni. Un guardiano era previsto
ma si sa come vanno le previsioni.
È strana l’angoscia che si prova
in questa deserta proda sabbiosa erbosa
dove i salici piangono davvero
e ristagna indeciso tra vita e morte
un intermezzo senza pubblico. È
un’angoscia limbale sempre incerta
tra la catastrofe e l’apoteosi
di una rigogliosa decrepitudine.
Se il bandolo del puzzle più tormentoso
fosse più che un’ubbia
sarebbe strano trovarlo dove neppure un’anguilla
tenta di sopravvivere. Molti anni fa c’era qui
una famiglia inglese. Purtroppo manca il custode
ma forse quegli angeli (angli) non erano così pazzi
da essere custoditi.
Da “Luce frontale”, di Roberto Mussapi
Dicembre e i bambini in fila indiana
escono dalle case come da pozze abbandonate
dalla luce, e i neri
cappotti scorrono nella neve
bersagliati da grida, ma non è
in loro, volti all’estuario ferito di canne
altro che la clessidra macerata dai passi
uno dopo l’altro, sempre uguali,
e i disseminati
radenti voli, autografi
sordi nel cielo che preme
i rami degli abeti piegati in preghiera,
alla fine del passo e del ricordo forzato, al limite
del campo di prigionia e delle acque
nel confine e nel primo lavacro, ognuno nudo,
nevica
e negli occhi qualcosa fuoriesce dal passaggio:
nel comune dolore, io arrivai
mentre la neve cessava ma ancora
crepitava sotto i piedi, un’arcata
di luce si apriva in fondo al viale
tra neri ippocastani come un santuario di nascite
e in un furore di ombre crepitanti li riconobbi,
dicemmo sì.
Vento a Tindari, di Salvatore Quasimodo
Tindari, mite ti so
fra larghi colli pensile sull’acque
dell’isole dolci del dio,
oggi m’assali
e ti chini in cuore.
Salgo vertici aerei precipizi,
assorto al vento dei pini,
e la brigata che lieve m’accompagna
s’allontana nell’ara,
onda di suoni e amore,
e tu mi prendi
da cui male mi trassi
e paure d’ombre e di silenzi,
rifugi di dolcezze un tempo assidue
e morte d’anima.
A te ignota è la terra
ove ogni giorno affondo
e segrete sillabe nutro:
altra luce ti sfoglia sopra i vetri
nella veste notturna,
e gioia non mia riposa
sul tuo grembo.
Aspro è l’esilio,
e la ricerca che chiudevo in te
d’armonia oggi si muta
in ansia precoce di morire;
e ogni amore è scherno alla tristezza,
tacito passo nel buio
dove mi hai posto
amaro pane a rompere.
Tindari serena torna;
soave amico mi desta
che mi sporga nel cielo da una rupe
e io fingo timore a chi non sa
che vento profondo m’ha cercato.
Lamento per il Sud, di Salvatore Quasimodo
La luna rossa, il vento, il tuo colore
di donna del Nord, la distesa di neve…
Il mio cuore è ormai su queste praterie
in queste acque annuvolate dalle nebbie.
Ho dimenticato il mare, la grave
conchiglia soffiata dai pastori siciliani,
le cantilene dei carri lungo le strade
dove il carrubo trema nel fumo delle stoppie,
ho dimenticato il passo degli aironi e delle gru
nell’aria dei verdi altipiani
per le terre e i fiumi della Lombardia.
Ma l’uomo grida dovunque la sorte d’una patria.
Più nessuno mi porterà nel Sud.
Oh il Sud è stanco di trascinare morti
in riva alle paludi di malaria,
è stanco di solitudine, stanco di catene,
è stanco nella sua bocca
delle bestemmie di tutte le razze
che hanno urlato morte con l’eco dei suoi pozzi
che hanno bevuto il sangue del suo cuore.
Per questo i suoi fanciulli tornano sui monti,
costringono i cavalli sotto coltri di stelle,
mangiano fiori d’acacia lungo le piste
nuovamente rosse, ancora rosse, ancora rosse.
Più nessuno mi porterà nel Sud.
E questa sera carica d’inverno
è ancora nostra, e qui ripeto a te
il mio assurdo contrappunto
di dolcezze e di furori,
un lamento d’amore senza amore.
Spotorno, di Camillo Sbarbaro
Spotorno, terra senza risorse.
Vi alligna fortemente l’ulivo, il sorbo vi si carica di mazzetti duri.
Litorale dalla vegetazione bizzarra:
si siede e si tace
in faccia al mare senza illusioni
con qualche volta appena una manciata di zecchini tremolanti
freddo e infinito.
Passa al largo il guscio rossastro della petroliera.
L’estate le bagnanti spumeggianti sfacciate
scacciano le indigene, topi terragnoli.
Negli orti le casette screpolate rosee
stupiscono al passaggio dell’espress che le fa traballare.
Sin dentro le case la voce della maretta.
Spotorno
paesaggio dell’anima
monti ridotti allo scheletro
aria schietta celestina
cielo liquido che a guardarlo si beve…
Da “Scarse serpi”, di Toti Scialoja
Di tanto in tanto a Taranto
arde un cielo amaranto
nasce dal male un rantolo
interrotto da un tonfo.
È una tortura a Taranto
la ronda del tramonto
anima mia all’istante
moribonda tarantola.
Che cosa ne pensate? Io adoro le poesie di Bertolucci, Betocchi e Montale, ma tutte quelle che ho scelto oggi per voi, secondo me, sono speciali.
Fatemi sapere quali sono le vostre preferite!
Grazie per la lettura, al prossimo post :-)
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