lunedì 18 novembre 2024

THRILLER E NOIR NEL NORD-EST

Due romanzi di Chicca Maralfa e Massimo Carlotto

 


Cari lettori,

per la nostra rubrica "Letture... a tema", oggi vi racconto due gialli/thriller che ho sul comodino da troppo: li ho letti quando ancora faceva caldo e, tra una rubrica e l’altra, non ho potuto ancora recensirli.

Entrambi sono ambientati nel Nord-Est e pongono al centro dell’attenzione – e in un caso delle indagini degli inquirenti, nell’altro di un intrigo nazionale – alcuni fatti molto inquietanti. Nel primo caso ci immergiamo completamente nelle atmosfere dell’altopiano vicentino ed assaporiamo le prime nevi. Nell’altro, invece, anche se il motore dell’azione resta comunque nei dintorni del Veneto, ci spostiamo per un’estate a Cesenatico… purtroppo poco divertente.


Vediamo meglio insieme i due romanzi!



Il delitto della montagna, di Chicca Maralfa



Il carabiniere barese Gaetano Ravidà, luogotenente dell’Arma da ormai un buon numero di anni, è un uomo che da poco ha dovuto ricominciare. Il divorzio è arrivato ad un età in cui ormai sperava non accadesse più, e la vita in Puglia ha iniziato ad essere insopportabile.


Così, nel giro di poco tempo, egli si è trasferito ad Asiago, un luogo che ha scelto per due motivi strettamente personali. Il primo è che, su quelle montagne che già in autunno si riempiono di neve, riesce a sentirsi ben lontano dal sole e dal mare della terra natía. Il secondo è che l’altopiano vicentino è stato teatro di una delle battaglie più sanguinose della Grande Guerra, e Ravidà è piuttosto sicuro che vi abbia preso parte un suo nonno. Egli, quindi, approfitta dell’insolita occasione che gli ha riservato la vita per cercare delle informazioni su quel parente di cui ha sempre saputo poco, se non che, ad un certo punto, si è perso nella neve e nella guerra.


È una zona dove non si è mai smesso di combattere: un tempo le due guerre mondiali, ora delle battaglie ambientali. La referente del gruppo di ecologisti locali si chiama Angelica, è una giovane arrivata da Milano – e quindi, come Ravidà, arriva da fuori ma si sta affezionando sempre di più a quei luoghi – ed ha già contattato le autorità per denunciare un reato ambientale: alcune cave di marmo dismesse da tempo vengono utilizzate come deposito illegale di armi e chissà cos’altro.


Mentre Ravidà ed i suoi perlustrano la zona, però, fanno una scoperta agghiacciante: il cadavere ormai mummificato di un uomo. L’autopsia rivela che si tratta di un individuo di sesso maschile, di mezza età, ucciso da un colpo di pistola alla tempia che sembra tanto un’esecuzione. Il primo pensiero degli inquirenti è che si sia trattato di un omicidio legato alla Mala del Brenta, che in passato ha terrorizzato gli abitanti della zona e non si è mai estinta nel tutto. Tanto più che l’uomo viene presto identificato come un uomo d’affari di città misteriosamente scomparso anni prima: per quale altro motivo avrebbe dovuto arrivare lì senza famiglia, se non per trattative, forse losche?


Poco dopo, altre due morti violente sconvolgono la comunità di Asiago, dove tutti si conoscono e persino Ravidà, arrivato dall’altra parte dell’Italia, non ha problemi ad inserirsi. La prima è quella di un uomo del gruppo degli ecologisti, considerato una “testa calda” per aver messo più volte i bastoni tra le ruote alle aziende ed agli imprenditori in modo anche violento: egli abitava nella stessa zona del nostro protagonista ed è venuto a mancare nel corso di un incendio a casa sua che potrebbe sembrare accidentale, ma risulta molto sospetto. La seconda, con grande costernazione di Ravidà, è la stessa Angelica, che è stata buttata giù da un cavalcavia su una strada di campagna ed è finita su una gru. Una morte orribile, che getta nello sconforto il paese e spinge il protagonista ad indagare sul passato delle tre vittime.



Il delitto della montagna è un romanzo che mi è stato prestato ed ammetto un po’ vergognosamente che leggendolo ho superato un mio piccolo pregiudizio. L’edizione che mi è stata prestata è una versione della Mondadori successiva all’originale: la precedente è della Newton Compton. Ecco, non so bene perché, ma per me questa CE è sempre stata legata ai romance (dai tempi della nascita della collana “Anagramma”, i cui volumi spopolavano quando ho aperto il blog) e non credo di aver mai letto niente di giallo edito da loro. Un po’ perché sono autori meno conosciuti, un po’ perché provando a leggere le trame mi pareva che ci fossero più gialli d’azione e thriller che indagini classiche – che di solito preferisco -, fatto sta non avevo ancora letto niente (non che ricordi almeno).


È stata una bella sorpresa: un giallo convincente, una catena di delitti l’uno dietro l’altro che sorprende il lettore, un protagonista che secondo me ha ancora molto da raccontare. In questo volume Gaetano Ravidà fa poco più che presentarsi, ma tra passato in Puglia e indagini sul passato del nonno ad Asiago c’è di che riempire una serie, anche se a quanto ho visto c’è solo un altro volume oltre a questo (per ora).


Il posto è davvero affascinante: conosco persone che frequentano quelle montagne ed ho già visto un po’ di foto del luogo, ma l’autrice ci porta proprio alla scoperta dei luoghi più reconditi e ci fa immergere nell’atmosfera dei giorni della Merla, i più freddi dell’anno. È stato piuttosto strano leggere questo romanzo mentre faceva caldo, ma si sa che a volte capita!


Non mi dispiacerebbe leggere anche l’altro volume della serie, vi farò sapere…



Trudy, di Massimo Carlotto



Il romanzo ha inizio con un terribile fatto di sangue: due guardie giurate uccise, uno scontro a fuoco, la fuga di alcuni criminali. Una delle tante notti orrende di un qualunque commissario del Nord-Est. Per sua fortuna, però, una delle ultime prima di cambiare vita.


Il commissario è ambizioso e così è stato contattato da alcuni loschi personaggi, che sono affiliati ai Servizi e ad altre società segrete. All’uomo viene proposto di occuparsi della sicurezza di imprenditori, politici ed esponenti delle forze dell’ordine che hanno ben altri interessi oltre a quelli dichiarati. Così ben presto egli diventa “Il dottore”, il capo di un’agenzia di security che non si limita ad eseguire gli ordini, ma decide in prima persona chi tenere sotto osservazione e perché.


Una delle “osservate speciali” dell’ultimo periodo è una giovane donna che è stata ribattezzata Trudy, come la moglie di Pietro Gambadilegno. Un tempo ella era una ragazza di provincia che lavorava tra parrucchiere ed estetiste ed era fidanzata con un ragazzo di umili origini come lei; poi ha vinto una sorta di terno al lotto sposando un ricco uomo d’affari. In teoria; perché dopo qualche anno di matrimonio “felice” - almeno secondo le apparenze – l’uomo è sparito nel nulla, e lei è stata spedita sulla riviera romagnola dalla famiglia in attesa che si calmino le acque.


Trudy passa le giornate tra casa, spiaggia e gelateria, e sembra la ragazza più innocente del mondo, ma Il Dottore ed i suoi sospettano che ella sappia che fine ha fatto il marito, e che l’uomo, prima o poi, la contatterà. Ovviamente il marito non si limitava agli affari leciti, ma maneggiava in maniera, diciamo, fantasiosa il denaro di alcuni importanti clienti del Dottore, quindi è fondamentale ritrovarlo.


Oltre ai collaboratori di cui egli si avvale regolarmente, il Dottore individua Alex Semeraro, un giovane toscano che ha già avuto precedenti per rissa e vive di lavoretti che durano il tempo di arrabbiarsi e mollare. Salva il ragazzo dal pestaggio in una trattoria frequentata solo da operai dalle simpatie politiche opposte alle sue e lo convince a lavorare per lui, pedinando Trudy. Il ragazzo però ha il cervello di un sasso spaccato si ritiene un “uomo vero e irresistibile” e cerca un modo di entrare pian piano in contatto con la donna che sta pedinando, sperando in un’alleanza e anche in qualcos’altro (e te pareva).



Trudy non fa parte della categoria dei gialli tradizionali, con un delitto e delle indagini, ma appartiene decisamente a quella dei thriller, un po’ d’azione ed un po’ anche di strategia e meditazione. 

Il Dottore di sicuro non è un commissario tradizionale, anzi, possiamo pure dire che la sua esistenza è un discreto insulto a tutti i poliziotti che lavorano onestamente, ma sappiamo che la corruzione delle forze dell’ordine è un problema grave e Massimo Carlotto è tra i pochi autori di gialli che conosco che non solo ne parla, ma rende personaggi simili i protagonisti dei propri romanzi. E, d’altra parte, Il Dottore ha accettato un incarico molto particolare e lì sì che ci vuole pelo sullo stomaco, ma il problema di poliziotti niente affatto corrotti ma del tutto in burnout che scappano dallo Stato per entrare in servizi di security privati è reale (e, come direbbe qualcuno, se si arriva a mollare il “posto fisso statale”… ci devono essere dei motivi gravi, ed è veramente un segno che l’Italia sta cambiando, non in meglio, direi).


Per comprendere meglio di che genere di storia stiamo parlando: la quarta di copertina del romanzo recita: “Dopo aver letto Trudy, camminando per strada ti verrà voglia di guardarti le spalle”. Ecco, sinceramente, no. 

Capisco la necessità di attrarre il pubblico dei thriller, ma così si fanno immaginare al lettore delle sfumature inquietanti che, in tutta onestà, io ho avvertito poco. Questa non è la storia di persone oneste e comuni – magari un tranquillo padre di famiglia o una ragazza molto giovane e bella, che sono un po’ i classici del genere – che vengono tormentate da un misterioso stalker o accoltellate in un vicolo buio da qualche serial killer.


Questa è una storia di persone corrotte, marce fino al midollo, cattive ed interessate solo al profitto e ad affari che noi “very normal people” non possiamo nemmeno immaginarci. E pazienza se ad un certo punto una di loro viene controllata da altri due (perché con Semeraro c’è un’altra ex poliziotta): non solo qui nessuno è innocente, ma potremmo dire che qui nessuno è nemmeno un colpevole da compatire. Scordatevi i rubagalline disperati e piangenti sulla spalla dell’ispettore di turno che li copre in qualche modo con i superiori, o gli omicidi accidentali che suscitano la pietà di qualche sensibile commissario.


Insomma, non direi che alla fine di questa lettura vi guarderete le spalle, perché banalmente non vi sarete identificati nei personaggi. Però vi posso garantire che, come diceva Pieraccioni in un film di qualche anno fa, vi sentirete al 200% dei “poveri bischeri che pagano le tasse e stanno in coda alle poste”, mentre gente disonesta mette le mani in pasta in questioni di cui ignoravate persino l’esistenza e fa la bella vita alla faccia vostra. Almeno noi bischeri, però, abbiamo una probabilità molto minore di finire ammazzati male. Amici, consoliamoci così, che vi devo dire?



Ho già letto un buon numero di romanzi di Carlotto e nonostante questo in qualche modo resto sempre sorpresa, quest’uomo dovrebbe aprire un programma di giornalismo o inchiesta tutto suo. Anche se fa già un ottimo lavoro con i suoi romanzi e direi che va bene così. Magari prima o poi tornerà anche l’Alligatore, il suo personaggio più famoso…





Oggi due letture non proprio per pavidi, eh? Spero che vi piacciano! Anche perché se sono piaciute a me, la fifona, potete stare tranquilli... 

Fatemi sapere se conoscete questi autori e che ne pensate. 

Grazie per la lettura, al prossimo post :-)


giovedì 14 novembre 2024

LA COSCIENZA DI ZENO

 Lo spettacolo al Teatro Carcano




Cari lettori,

sono sempre felice di potervi proporre i miei “Consigli teatrali”, specie se, come oggi, si tratta di un grande ritorno!


Il Teatro Carcano è un “vecchio amico” di questo blog. I primi anni di questo spazio hanno visto un buon numero di recensioni teatrali, tante delle quali riguardanti proprio questo teatro e spesso gentilmente repostati sui social dalla vecchia direzione artistica.


Sono riuscita a frequentarlo abbastanza regolarmente fino all’arrivo del Covid, poi… lo sappiamo, tante cose sono cambiate. Sono tornata con gioia esattamente tre anni fa, alla fine del 2021, per "Gli innamorati" di Carlo Goldoni, e poi non più fino all’altra domenica, purtroppo. Si sono messi di mezzo tanti fattori, lavorativi e non: fatto sta che il 3 novembre sono felicemente tornata in questo luogo culturale che sempre mi sarà caro per La coscienza di Zeno.


Ero molto curiosa di scoprire come sarebbe stato portato sullo schermo, in soli 100 minuti, un grande classico della letteratura del Novecento, ricchissimo di storie da raccontare, personaggi da conoscere meglio e considerazioni profonde. Secondo me la trasposizione è stata ottima… ma ve lo racconto meglio!



Lo spettacolo



L’attore principale sulla scena è Alessandro Haber, quasi sempre seduto alla sinistra del palco, vicino agli spettatori. Egli interpreta la Coscienza, ovvero quello che il protagonista, Zeno Cosini, scrive nel suo diario, redatto per ordine del dottor S – il suo psicanalista -, con il quale i rapporti si sono guastati. L’autore immagina che sia proprio il dottor S a pubblicare le memorie di Zeno, con l’intento di fargli un dispetto.


Oltre ad Alessandro Haber, altri dieci attori sono sulla scena ad interpretare i vari personaggi del dramma, tra cui Zeno Cosini giovane, che “interpreta” le parti dettate dalla Coscienza. Qualche volta, però, la Coscienza stessa si sovrappone al suo Io più giovane e recita in prima persona.


Il grigio domina la scena: gli attori sono vestiti in varie sfumature, non ci sono oggetti oltre a delle sedie tra il grigio scuro ed il nero e delle pesanti tende dello stesso colore sembrano abbracciare il palco. È proprio su di esse che viene proiettata una scenografia digitale: talvolta degli interni, altre volte dei paesaggi (la luna sul mare è uno dei più presenti), o ancora una pioggia scrosciante con tanto di rumore.

Questa scenografia digitale ha al centro un medaglione rotondo che sembra porre l’attenzione, di volta in volta, su quella che è la principale preoccupazione che il protagonista ha in quel momento: le persone che lo sbeffeggiano o che lo giudicano, le parole più significative che scrive sul diario, l’occhio del dottor S che pare guardarlo dentro sempre più.


Sembrerebbero le premesse per un dramma, eppure lo spettacolo si rivela esattamente come il libro, e non calca la mano sulla sofferenza, ma ci spinge a riflettere sulla condizione umana da più punti di vista.



La storia raccontata



Zeno Cosini non vuole scrivere una vera e propria autobiografia, ma vuole raccontare al dottor S quali sono state le problematiche principali della sua vita, quali gli ostacoli che di volta in volta lo hanno messo alla prova.


I primi capitoli sono i vizi della gioventù: il fumo, che non riuscirà mai ad eliminare nonostante i suoi costanti tentativi di finire “l’ultima sigaretta”; il complesso di Edipo, tra l’amore per una madre schietta e pratica che se n’è andata troppo presto ed un padre severo ed autoritario che ogni volta che cerca di parlare con lui finisce per sgridarlo, anche da adulto; la morte del padre, che durante le ultime convulsioni dà uno schiaffo a Zeno, ovviamente accidentale, ma freudiano.


Il cuore dell’opera è la storia sentimentale e matrimoniale di Zeno, deciso a sposarsi con una delle quattro figlie del dottor Malfenti, un socio in affari che egli vede come una sorta di nuovo padre. Innamoratasi di Ada, molto bella ma caratterialmente difficile (proprio come lui), Zeno finisce per sposare Augusta, per la quale non prova sentimenti travolgenti, ma che è la donna giusta per lui per un semplice motivo: come la madre è buona e paziente, onesta e pratica. Non si arrovella su qualunque cosa come il protagonista, ma prende in considerazione quel che le si para davanti ogni giorno e agisce di conseguenza. Nel romanzo Zeno discute molto sulla “salute mentale” sua e di Augusta, mettendo in luce i pro ed i contro di entrambi i modi di vedere la vita, ma fatto sta che il loro matrimonio si rivela felice, così come l’arrivo dei due figli.


L’unica macchia sul matrimonio è costituita dalla relazione di Zeno con Carla, una cantante povera ed in difficoltà familiari. Sia nel romanzo che nello spettacolo, però, è chiaro come Zeno voglia un’amante solo per status, perché “tutti ce l’hanno”, e perché averla gli darebbe la possibilità di essere utile economicamente a qualcuno. Tant’è vero che, quando Carla riceve una promessa di matrimonio, lui la lascia andare senza rimpianti, con tanti auguri ed un’ultima busta di soldi (ci rimane un po’ peggio lei, in effetti).


La maturità di Zeno Cosini è dedicata soprattutto alla sua progressione di carriera. Egli inizia a lavorare per il marito di Ada, il cognato Guido Speier, e da impiegato diventa presto socio: quello che era stato accolto come il salvatore dei Malfenti si rivela in pochi anni un uomo irresponsabile, infedele e fragile, tanto che le donne della famiglia finiscono per fare affidamento su Zeno, specie dal momento in cui Guido fa un’infelice fine.


L’ultima parte del diario è dedicata alla psicoterapia, al litigio con il dottor S e ad alcune fosche previsioni sul futuro, suscitate dai cupi pensieri che la Prima Guerra Mondiale ha portato con sé.



L’esistenza di successo di un “inetto”



La prima cosa che si apprende quando si studia Italo Svevo e La coscienza di Zeno è il fatto che il protagonista di questo romanzo sia il prototipo dell’ “inetto”, ovvero di colui che si sente costantemente inadatto alla vita, incapace di far fronte ai problemi dell’esistenza e soprattutto alle responsabilità dell’età adulta.


Egli colleziona molti errori: prende un vizio poco salutare e non riesce a mantenere i buoni propositi di smettere; gira di facoltà in facoltà senza prendere una laurea ed entra nel mondo del lavoro grazie agli affari paterni ed all’amministratore Olivi, a cui il genitore ha affidato la gestione dei beni; si innamora di un’illusione con Ada e finisce per ripiegare su Augusta senza neanche essere un corteggiatore troppo galante; in un momento pensa addirittura di fare del male all’eterno rivale Guido, senza ovviamente riuscirvi; litiga con il suo psicanalista perché non riesce a guardare in faccia i suoi difetti.


Eppure, zitto zitto (insomma… a modo suo), poi, alla fine, riesce a riscuotere dei successi: entra nelle grazie di un uomo d’affari come Malfenti che lo vede subito come un figlio; mette su una famiglia felice, dove per sua stessa ammissione “non si soffre affatto”; salva l’azienda dalle manovre sbagliate di Guido; dà un lieto fine persino a Carla, mentre tanti altri uomini della sua condizione finiscono per rovinare socialmente le loro amanti.


Non so, mentre assistevo allo spettacolo pensavo che, premesso l’ovvio, e cioè che quest’opera viene studiata nelle scuole da sempre e per vari motivi, questo specifico esempio di “inetto che ce la fa” è un messaggio molto utile e importante da trasmettere ai ragazzi di oggi. 

Mi sembra che la società odierna, che nega molte situazioni disperate mascherando con “flessibilità e competitività” quella che è una lotta sempre più dura per un posto dignitoso nel mondo, e che apre la strada alla precarietà di tanti rapporti, alla loro fallibilità ed a tante dinamiche in stile “uso e butto”, stia propagandando un modello che non funziona. Mi spiego meglio: troppi ragazzi (ma anche adulti, mi metto in mezzo anche io) hanno l’idea che un solo sbaglio rovinerà a valanghe tutto, che un singolo errore indichi aver fallito tutto e in tutta la vita, che il loro sentirsi soli e non apprezzati sarà una condanna eterna. Da qui i tanti problemi di depressione ed ansia già adolescenziali, acuiti da un confronto con gli altri che risulta sempre fallimentare.


Zeno insegna che, come diceva anche Beckett, bisogna “provare meglio, fallire meglio”, e che la vita non è finita… finché è finita, e vale la pena di andare fino in fondo.



La vita non è né bella né brutta: è originale”



Altro insegnamento molto, molto attuale.


Non c’è solo la bella vita, quella che ultimamente vediamo soprattutto sui social; ed anche nei periodi più bui non è detto che tutto vada male.


La vita è “originale”, e come tale ti sorprenderà sempre. Ecco, io credo che Italo Svevo qui si riveli non solo un grande pensatore, ma anche in linea con la psicologia tradizionale, quella che insegna che non tutto dipende da noi (per fortuna!) ed a volte dobbiamo solo accogliere gli eventi, da quello meraviglioso a quello tremendo, ed agire di conseguenza.


Negli ultimi anni mi sembra che i validi studi di psicologia e psicoterapia abbiano ceduto il passo a discutibili filosofie new age che cercano di convincere ognuno di noi che “tu puoi creare la tua realtà” e “se lo pensi accade”. Ecco, scusate se mi tolgo questo sassolino dalla scarpa, ma secondo me no, neanche per sogno. E non è forse meglio così?


D’altra parte, chi dei protagonisti de La coscienza di Zeno, appartenente ad una classe sociale che – a parte gli alti e bassi inevitabili – stava più che bene, e si considerava parte di un’Europa evoluta, avrebbe potuto immaginare un conflitto mondiale? 

Lo diceva anche un mio professore dell’Università: “le illusioni della Belle Epoque bruciano durante la Prima Guerra Mondiale, e tantissimi non l’avevano vista arrivare”. Eppure è successo… un’altra – orribile – originalità della vita, come dice Zeno. C’è un’unica frase, al termine del romanzo e dello spettacolo, che secondo me potrebbe essere considerata una sorta di profezia, ma la lascio come sorpresa per chi non lo sa.





Ho visto lo spettacolo l’ultimo giorno disponibile, domenica 3 novembre, quindi purtroppo non posso invitarvi ad andarlo a vedere al Carcano!

Credo però che la rappresentazione farà il giro di altre città d’Italia, quindi vi consiglio di dare un’occhiata, se vi interessa :-)

Nel frattempo fatemi sapere se vi ho incuriosito, se magari avete letto o studiato il romanzo e che cosa ne pensate.

Grazie per la lettura, al prossimo post :-)


lunedì 11 novembre 2024

DUE INDAGINI A CATANIA PER VANINA

 Due romanzi di Cristina Cassar Scalia




Cari lettori,

nuova settimana, nuovo appuntamento con le nostre “Letture...per autori”!

Sapete che ho ancora qualche lettura dell’estate da raccontarvi e qualche recensione arretrata, ma in questo mese di novembre cercherò di proporvene il più possibile, concentrandomi soprattutto sui generi che per me sono più coerenti con le atmosfere autunnali – gialli, noir, thriller – prima che arrivi il periodo prenatalizio con le sue favole e le sue storie d’amore.


Dei due romanzi che vi propongo oggi, il primo è proprio una mia lettura di quest’estate, il secondo è invece appena concluso. Ho aspettato di poter avere una coppia di libri da recensirvi perché è una serie che vorrei completare e della quale vi ho parlato più volte: quella di Vanina Guarrasi, poliziotta nata dalla penna di Cristina Cassar Scalia.


Vi lascio i link alle “puntate precedenti”:


Recensione dei volumi 1 e 2


Recensione dei volumi 3 e 4


Recensione dei volumi 5 e 6


I due libri che vi racconto oggi non sono entrambi immediatamente successivi: il primo è un prequel, Il re del gelato. L’altro è effettivamente il settimo volume della serie, La banda dei carusi. Mi mancherebbe solo l’ottavo, Il castagno dei cento acri, e – almeno per ora – avrei completato la serie.


Ma vediamo meglio insieme questi due romanzi!



Il re del gelato



Vanina Guarrasi, palermitana per nascita, è in forze alla sezione Reati contro la persona di Catania da pochi mesi. Non ha ancora affrontato il complesso delitto raccontato in Sabbia nera – che darà il via alla sua popolarità catanese -, non ha ancora incontrato il suo mentore (il commissario in pensione Patané), non si è ancora del tutto ambientata.


Solo da poco ha iniziato a conoscere quella che poi sarà la sua squadra, tra il “Grande Capo” napoletano Tito Macchia, i veterani fidati come Spanò e Fragapane ed i carusi come Nunnari e Marta Bonazzoli.


Un giorno come tanti altri arriva una segnalazione davvero insolita: qualcuno ha messo delle pillole dentro alle vaschette di gelato di una gelateria molto nota, ed alcuni clienti si sono sentiti male. Dopo una prima indagine, emerge che nessuno è in pericolo di vita, chi si è sentito male aveva già problemi di salute e le pillole sono principalmente tranquillanti di origine naturale.


Uno scherzo di cattivo gusto che assume ben presto i contorni del sabotaggio: la gelateria colpita è il principale punto vendita di una catena molto rinomata, al punto che il proprietario è definito da tutti “Il Re del gelato”.


Mentre Vanina cerca di comprendere chi abbia potuto architettare questo brutto tiro e concentra le sue ricerche su un ex dipendente scontento, qualcuno uccide “il Re del gelato” proprio nel magazzino del punto vendita incriminato.


Il caso diventa così un omicidio in piena regola, e di un personaggio molto in vista. La famiglia dell’uomo era composta da moglie e due figli adulti, che sembrano nascondere più di un segreto. Quanto alla vittima, di là di una carriera ineccepibile, c’era una sola macchia nel suo passato: una rivalità storica con l’anziano proprietario di un carretto di gelati, un suo vecchio amico che non aveva avuto la sua stessa fortuna ed aveva finito per accontentarsi di un’attività più piccola. La rivalità tra i due forse non era soltanto professionale…



Il re del gelato è un “mezzo libro”, un prequel lungo circa la metà delle altre storie di Vanina. Ammetto che conoscevo già la storia perché in aprile ho visto la fiction, ed il primo dei quattro episodi era proprio incentrato su questa indagine. È una cosa che di base sconsiglio, perché a me si è ovviamente rovinata la sorpresa, però, leggendo bene nel romanzo ogni dettaglio, sono riuscita a ricostruire alcuni punti che nella fiction (che secondo me comunque è carina) erano stati o frettolosi o un po’ troppo drammatizzati. Se avete visto la serie, vi anticipo che un paio di momenti di super tensione non sono presenti nel romanzo. È un pochino quello che è successo – per me troppo – con Lolita Lobosco, la fiction tratta dai romanzi di Gabriella Genisi (che vi racconto qui). In ogni caso qui si è verificato in misura molto minore e secondo me gli altri tre gialli portati sul piccolo schermo sono stati ancora meglio.


È un prequel e come tale va preso: siccome è stato pubblicato dopo i primi e più celebri casi di Vanina, qui si sente che manca qualcosa, prima tra tutti la presenza rassicurante ma anche divertente dell’inarrestabile commissario Patané. E poi, nonostante la mia simpatia per un altro personaggio maschile della serie – Vanina non sarebbe molto d’accordo con me, o forse sì, sotto sotto – manca anche Paolo, il magistrato che la nostra protagonista ha lasciato precipitosamente dopo avergli salvato la vita, presa dalla paura di rimanere “vedova” prima ancora di sposarlo (e di rivivere quel che è successo al padre). Volume dopo volume, i due si avvicineranno, ma al momento la protagonista è appena arrivata a Catania e non ne vuole proprio sapere.


Diciamo che questo volume è qualcosa “in più”, che comunque consiglio se avete già letto qualche libro della serie di Vanina e vi è piaciuto.



La banda dei carusi



Catania, aprile. Emanuela Greco, ragazza di buona famiglia, esce dalla casa dove vive con il padre Vincenzo e la matrigna Rosi (ex moglie dell’ispettore Spanò) e si dirige a scuola, ma… non riesce ad entrare. È troppo sconvolta dopo che la sera prima il fidanzato, Thomas Ruscica, uno dei ragazzi salvati dalla droga da Don Rosario Limola, l’ha lasciata. La notte in bianco ha portato una mattina di angosce, e così Emanuela decide di fuggire dalla scuola per la prima volta in vita sua e di andare allo stabilimento balneare dove Thomas lavora. La ragazza sospetta che il suo fidanzato non abbia voluto lasciarla perché non la ama più, ma per un suo tormento interiore di altro genere. Ed in un certo senso ha ragione.


Poche ore dopo, Vanina ed i suoi corrono affannati sulla scena del delitto. Emanuela ha trovato Thomas in una cabina marittima adibita a ripostiglio, morto dopo aver subito dei colpi di rastrello in testa. La ragazza è sotto shock ed ha imprudentemente toccato sia il corpo che l’arma del delitto, ma Vanina è convinta che ella sia estranea a quanto è successo.


L’omicidio di Thomas ha scosso la poliziotta molto più profondamente del solito: guardando Emanuela, una liceale che di certo non meritava di ritrovarsi di fronte al cadavere di una persona amata e spirata per una morte violenta, non può fare a meno di ripensare al suo primo giorno di superiori ed al brutale assassinio del padre.


Anche Spanò è agitato quanto lei: i rapporti con la ex moglie ed il nuovo compagno, padre di Emanuela, si erano distesi da poco dopo dei trascorsi difficili, ed egli farebbe di tutto pur di scagionare la ragazza.


Il più sconvolto di tutti, però, è padre Rosario Limoli, che nella sua parrocchia aveva creato una comunità di recupero che accoglieva adolescenti e ventenni in crisi per vari motivi: tossicodipendenti che si volevano riabilitare, ragazzine costrette a prostituirsi e, come nel caso di Thomas, figli di boss della malavita che non volevano avere più a che fare con la famiglia e relativi affari. Per questo motivo il primo dubbio che si affaccia alla mente degli inquirenti è il fatto che la vittima potesse essere considerato in qualche modo un “traditore”. La dinamica del delitto, però, non è compatibile con le modalità di assassinio della malavita organizzata, non certo improvvisate.


In questo senso, il supporto del commissario Patané si rivela questa volta non solo investigativo, ma anche morale. Insieme a lui, Vanina conosce meglio la comunità di Don Rosario, che era già stata toccata dalla perdita di un professore che lì faceva il volontario (vicenda raccontata ne L'uomo del porto). I Carusi che ne fanno parte sono una vera e propria banda, comprensiva di aspirante poliziotta: insieme essi si aiutano, si spalleggiano e forniscono preziose indicazioni agli inquirenti.


Da qualche tempo Thomas aveva iniziato a collaborare con Don Rosario ed a salvare altre persone in difficoltà, portandole in parrocchia. Questi interventi generosi, manco a dirlo, non piacevano certo a tutti. Anche se il dubbio che Emanuela fosse stata tradita e ci fosse di mezzo un’altra ragazza purtroppo permane.



La banda dei Carusi riprende dove La carrozza della Santa si era interrotta. Qualcuno potrebbe dire che Catania non è molto cambiata: prima c’era la festa patronale di Sant’Agata, ora c’è Pasqua, ma non manca la voglia di divertirsi – e di mangiare – nonostante le difficoltà di ogni giorno.


Quella che a me sembra piuttosto cambiata è Vanina. Leggendo tutti i volumi della serie di fila si nota come il personaggio che all’inizio si presenta come estremamente dedito al lavoro, schivo e solitario, a volte persino un po’ anaffettivo… si sia pian piano perso. Solo la vocazione per il mestiere da poliziotta è rimasta. Per il resto, Vanina ha pian piano accettato l’ondata di affetto che ha trovato a Catania, tra mentori e vicine di casa, amici e colleghi.


Persino il mondo palermitano dal quale è sfuggita si fa di giorno in giorno più vicino, soprattutto perché pian piano Vanina riconosce il suo dolore ed il suo trauma passato e si rende conto di essersela presa con chi non ha colpe (il nuovo marito della madre e la sorellastra Costanza) e di aver allontanato l’uomo che ama. Mi dispiace soltanto per il pediatra Manfredi, inevitabilmente relegato al ruolo di amico – ma chissà che non ci sia qualche sorpresa anche per lui – e per Giuli, l’amica avvocato, che si porta dietro un segreto enorme ed il dolore dell’aborto spontaneo.


Vediamo se Il castagno dei cento acri porterà qualcosa di positivo anche a questi personaggi!





Ecco la mia recensione delle “penultime” indagini di Vanina!

Fatemi sapere se avete letto i romanzi, se vi sono piaciuti, che cosa ne pensate :-)

Ditemi anche se per caso avete visto la serie su Canale 5!

Grazie per la lettura, al prossimo post :-)


giovedì 7 novembre 2024

NIKI DE SAINT PHALLE

 Un tour virtuale della mostra al Mudec




Cari lettori,

l’autunno ha portato un po’ di mostre a Milano, così eccoci di nuovo alle prese con i nostri “Consigli artistici”!


Dopo aver salutato l’estate con la chiusura dell’esposizione gratuita del contemporaneo Valerio Adami ed esserci addentrati in atmosfere più cupe con Munch, oggi conosciamo meglio un’artista che ha incarnato appieno tanti aspetti del Novecento, la franco-americana Niki De Saint Phalle.


Artista vissuta tra il 1930 ed il 2002, qui in Italia è nota soprattutto per aver creato le statue del Giardino dei Tarocchi a Capalbio (in Toscana). Al Mudec di Milano, in via Tortona, è invece protagonista di una mostra che ha aperto ad inizio ottobre e ci accompagnerà fino a febbraio.


Forse perché quando vado a vedere artisti che già conosco so un po’ più cosa aspettarmi, ma devo dire che stavolta sono rimasta davvero senza parole per l’originalità ed il coraggio di quest’artista, che per me non ha solo incarnato lo spirito del tempo da tanti punti di vista, ma ha anche precorso i tempi.


Come mio solito, vi porto con me tra le sale della mostra, e spero di farvi scoprire qualcosa di speciale!



Contro le guerre e le imposizioni religiose



Le prime opere di Niki de Saint Phalle subiscono l’influenza dei movimenti pacifisti che prendono piede dopo la Seconda Guerra Mondiale ed acquistano una grande importanza mediatica a partire dagli anni ‘60. Una delle sue prime opere propone tutto ciò che viene “sepolto sotto la terra” dalle guerre, a partire dalle armi di chi viene sconfitto, passando per oggetti cari che un soldato si porta sempre con sé, fino ad arrivare al cuore stesso di chi non c’è più.




Con la serie delle “Cattedrali” Niki De Saint-Phalle aderisce con grande decisione ai primi movimenti di stampo anticlericale. La maggior parte delle “chiese” che crea incollando ad una tela bianca svariati oggetti e tante piccole sculture sono inizialmente candide, ma destinate a tingersi di ben altro colore. L’artista, infatti, gira l’Europa mettendo in scena delle performance durante le quali spara vernice rossa sulle sue stesse opere. Anche a Milano, nella galleria Vittorio Emanuele, mette in atto una di queste esibizioni, creando tutto lo scandalo che si può immaginare nella città del Duomo.




La sua opera più impressionante di questa serie, secondo me, è un vero e proprio polittico dorato… in versione “dissacrata”. I crocifissi e le statue di santi trovano posto accanto a veri e propri mostri, armi da fuoco, cadaveri seppelliti in fosse comuni, un enorme pipistrello che nasconde bombe a mano tra le sue ali – forse ad indicare tutte le guerre che la Chiesa ha voluto nel corso della storia – e persino una treccia d’aglio per scacciare vampiri. Un’opera decisamente forte e destinata a colpire lo spettatore.



La prima femminista intersezionale?



Niki De Saint Phalle è nata nel 1930 ed è stata una mia quasi coetanea durante il ‘68 e la nascita della prima ondata femminista. Con le sue compagne di lotta condivide tante idee cardine di quel periodo, primo tra tutti il concetto di matrimonio come “trappola”. 

In questo senso, la sua opera più esplicativa è sicuramente la statua di una sposa a cavallo, che non viene ritratta come una donna felice, bensì come una sorta di “cavaliere dell’Apocalisse” a cavallo di un nero destriero che porta sul suo manto tantissimi oggetti, simboleggianti le conseguenze del matrimonio (più negative che positive). 

Nella sala che ospita la statua c’è anche uno schermo che riproduce il video di un’intervista in cui il giornalista accusa Niki De Saint Phalle di aver prodotto un’opera poco femminile e lei lo rimette a posto in modo magistrale :-)




A mio parere, però, Niki De Saint Phalle va oltre le pur fondamentali e rivoluzionarie idee della prima ondata femminista. Potremmo dire che è una femminista intersezionale ante litteram. Questo termine non è stato coniato prima del XXI secolo, eppure delle sue interviste che vengono proiettate alla mostra evidenziano come già negli anni ‘70 e ‘80 il suo impegno per la parità di genere andasse di pari passo con la lotta contro il razzismo. 

L’artista è in parte statunitense ed ha assistito a fin troppe discriminazioni contro gli afroamericani: sostiene con forza l’idea che, se femminismo e antirazzismo “viaggiassero insieme”, potrebbero muovere il mondo.




Per questo motivo ella crea le sue Nana, statue di donne che ricordano moltissimo le matriarche dell’arte primitiva, e sono in buon numero di colore nero. La mostra ne è piena, dalle più piccole a quelle giganti, come queste “Tre Grazie” dagli abiti fatti di specchi.




Forse è proprio per la sua capacità di guardare già oltre che Niki De Saint Phalle non abbandonerà mai la lotta femminista, nemmeno quando nuove ondate metteranno in dubbio i concetti con cui ella è cresciuta. Fino ai primi anni 2000 ella lotterà contro Bush e le sue politiche antiabortiste, creando anche una litografia molto esplicativa.



Il Giardino dei Tarocchi



Fin dalle sue origini artistiche, Niki De Saint Phalle è molto attratta dall’Italia. Un suo collage dei primi tempi, per esempio, si ispira ai grandi quadri medioevali che ritraggono una città intera vista dall’alto.




Il Giardino dei Tarocchi omaggia quella che per l’artista è una tradizione folkloristica italiana. Ritrarre la Stella, la Luna, la Giustizia come donne magiche e potenti le dà la possibilità di riprendere alcune delle idee che ella ha comunicato creando le Nana.

La Stella, ad esempio, si affaccia su quella che potrebbe sembrare una sorta di piscina ed è in realtà il cielo stellato. Da notare come all’artista piaccia molto utilizzare il materiale specchio, in linea con altri artisti suoi contemporanei.




Ci sono tutti Tarocchi più famosi: l’Appeso, la Giustizia, la Luna. La mostra ospita delle miniature preparatorie, che hanno anticipato ed accompagnato il progetto. Le statue del Giardino, invece, hanno ben altra dimensione!



In giro per il mondo



Una problematica non indifferente degli anni ‘80 e ‘90 è la lotta contro l’AIDS. Anche Niki de Saint Phalle prende parte alla campagna informativa con moltissime fotografie e delle enormi ed originali sculture che ritraggono dei profilattici colorati.




L’attrazione per l’Africa non cessa mai: alcune sue statue sembrano proprio imitare l’arte locale. Il continente che ha dato vita ai primi esseri umani e l’ispirazione tratta dalla scultura primitiva vanno di pari passo.




Nei suoi ultimi anni, l’artista rivolge il suo interesse verso il Messico ed in particolare verso il culto dei morti che esercita questa nazione. Questo teschio – palla da discoteca è un po’ inquietante, lo ammetto, ma ha una sua bellezza.




Dopo Capalbio, ella decide di dare vita ad un nuovo giardino di statue, questa volta in California, e dall’ispirazione messicana. L’ultima sala della mostra ospita dei coloratissimi Totem che, proprio come nel caso dei Tarocchi, sono stati creati nella fase preparatoria.




Ci sarebbe tanto ancora da dire ma non voglio svelare troppo!

Non so se sono riuscita a rendere l’idea con le mie foto, ma vi assicuro che si tratta di un’esposizione sorprendente, colorata, in qualche modo audace. Alcune sale della mostra vi lasceranno a bocca aperta! Sono veramente felice di aver conosciuto una personalità così importante del Novecento e credo che in un’ora e mezza di mostra mi abbia insegnato tanto. Vi anticipo già che quel giorno ho visto un’altra esposizione di un grandissimo artista, ma ve ne parlerò tra qualche settimana per alternare un po’ gli argomenti sul blog.

Nel frattempo, fatemi sapere se vi ho incuriosito! Avete tempo fino al 16 febbraio per fare un salto al Mudec…

Grazie per la lettura, al prossimo post :-)