lunedì 11 marzo 2024

IL TEMPO

 Novecento in poesia #7




Cari lettori, 

benvenuti all'appuntamento di marzo con "L'angolo della poesia"! Abbiamo già parlato di passato e di futuro... oggi affrontiamo insieme il tempo in tutte le sue sfumature. Dall'arrivo dell'estate al Capodanno, dai momenti in cui il tempo sembra fermo a quelli cruciali, vediamo insieme come la pensano i grandi autori italiani del Novecento!



Il canto smarrito, di Angelo Barile


Ora che la ginestra

intenerisce anche le scabre

rupi sul nostro mare,

ora vengono i giorni

grandi, d’argento. Li apre

a prim’ estate

questo favellìo di campane

che c’invita domani

ai canti del Corpus Domini.


Domani andremo per campi

a far bracciate di rami

e riempir d’oro canestre;

paveseremo le finestre,

rallegreremo di frasche

le vecchie vie dove le case

si tengono strette abbracciate

in una fuga d’archi – e laggiù

palpita un riso di mare.


Forse domani le anziane

donne apprenderanno alle spose

in processione con loro

la laude che non cantano più

da tanto tempo: e questi

erano i giorni. Saliva

all’allegrezza della fede

un coro d’anime in festa.


Oh, ravvivaci ancora,

nostra laude disimparata,

canto di gioia smarrito

nella penosa memoria

irta di sterpi… Domani

forse domani t’udremo

ritremare sgorgare vivo

quando passa Gesù.



Fra terra e mare, di Pietro Bigongiari


L’onda che si accavalla

trova in se stessa sponda all’infinito,

ha udito, nel suo orecchio, in una stalla

il muggito più fievole dei secoli

che propone a finito ed infinito

di toccarsi fra loro, trastullarsi

in un piccolo corpo infreddolito.


Se le eriche là al vento rosseggiano

e il mare trova in schiume l’elemento

del suo frangersi in luce, chi, chi attento

al quasi nulla sente quasi tutto

stringersi in sé mentre intorno a sé espande

anche il pianto d’un re. Ande remote

nevano l’orizzonte: è qui che è grande.


Il qui che non è qui. Se si sgranchiscono

le gambe di chi tanto ha camminato

sul suo qui, è il suo qui, tese le rande,

che ascolta il vento empirgli del profumo

dell’altrove le nari: ancora ballano

sulle maree le navi, ascolta lungo

i travi scricchiolare


nelle murate il soffitto degli avi.



Per l’ultimo dell’anno 1975 ad Andrea Zanzotto, di Franco Fortini


Come nel buio si ritrae lento,

Andrea, questo anno già da sé diviso.

Ora nel vischio del suo fiele intriso

starà così per sempre dunque spento.


Ma quel che in noi di anno in anno è deriso

o incompiuto o deforme non lamento:

se uno è vinto e un altro è stato ucciso,

uno ha durato contro lo sgomento.


Qui stiamo a udire la sentenza. E non

ci sarà, lo sappiamo, una sentenza.

A uno a uno siamo in noi giù volti.


Quanto sei bella, giglio di Saron,

Gerusalemme che ci avrai raccolti.

Quanto lucente la tua inesistenza.



A vacanza conclusa, di Vivian Lamarque


A vacanza conclusa dal treno vedere

chi ancora sulla spiaggia gioca si bagna

la loro vacanza non è ancora finita:

sarà così sarà così

lasciare la vita?



Nell’imminenza dei quarant’anni, di Mario Luzi


Il pensiero m’insegue in questo borgo

cupo ove corre un vento d’altipiano

e il tuffo del rondone taglia il filo

sottile in lontananza dei monti.


Sono tra poco quarant’anni d’ansia,

d’uggia, d’ilarità improvvise, rapide

com’è rapida a marzo la ventata

che sparge luce e pioggia, son gli indugi,

lo strappo a mani tese dei miei cari,

dai miei luoghi, abitudini di anni

rotte a un tratto che devo ora comprendere.

L’albero di dolore scuote i rami…


Si sollevano gli anni alle mie spalle

a sciami. Non fu vano, è questa l’opera

che si compie ciascuno e tutti insieme

i vivi i morti, penetrare il mondo

opaco lungo vie chiare e cunicoli

fitti d’incontri effimeri e di perdite

o d’amore in amore o in uno solo

di padre in figlio fino a che sia limpido.


E detto questo posso incamminarmi

spedito tra l’eterna compresenza

del tutto nella vita nella morte,

sparire nella polvere o nel fuoco

se il fuoco oltre la fiamma dura ancora.



Gloria del disteso mezzogiorno, di Eugenio Montale


Gloria del disteso mezzogiorno

quand’ombra non rendono gli alberi,

e più e più si mostrano d’attorno

per troppa luce, le parvenze, falbe.


Il sole, in alto, - e un secco greto.

Il mio giorno non è dunque passato:

l’ora più bella è di là dal muretto

che rinchiude in un occaso scialbato.


L’arsura, in giro; un martin pescatore

volteggia s’una reliquia di vita.

La buona pioggia è di là dallo squallore,

ma in attendere è gioia più compita.



Tremolio, di Fabio Pusterla


In questa vasta desolazione d’inverni,


mentre la terra rannicchiata si torce

e qualcosa declina, che certi chiamano secolo

o con fierezza immotivata millennio,


e il signor Swatch propone un nuovo tempo

universale, rivoluzionano, che scandisca

il giorno in mille unità uguali per tutti,


e tutti finalmente saranno in orario

nella rete, nel sacco, nel disastro

pilotato, felicemente privi di tempo o passato,


inutilmente tesi a un futuro virtuale

globale e inesistente, grazie al quale

la gleba del presente sarà lieve,


in questa vastissima desolazione di inverni,


mia nonna Idelma Formenti Bussolini

di anni novantanove, sorda quasi del tutto,

elusa la sorveglianza, è uscita sul balcone


e lì guarda e declama.



Le quattro cifre, di Silvio Ramat


No, non ci sarà posto per entrambi.

Ma sarebbe insensato dire: o io

o lui. Vista ch’è sua tutta la forza,

la facile irruenza del futuro.

Lui: l’anno 2000. Un colpo di mano,

una bravata, cancellare a freddo -

sostituirle in una sola notte -

tutte e quattro le cifre della vita.

Chi per dodici lustri ha militato

in un secolo, non vorrà servire

di punto in bianco sotto nuove insegne.

Chiudere gli occhi, far finta di niente?

No. Ma, ai primi chiari, imboccare un’erta

e nel gelo che iberna bacca e rovo

bussare al monastero. Esser dei loro.

Imparare arti schiette – svinatura,

torchio – e poi, a ore fisse, la lettura

in una cerchia d’angeli canuti

ai quali i secoli sono farfalle,

non idoli o catene. Coltivare,

potare: attingere acqua tacendo

mentre giù a valle accendono il 2000.



Frammento VI, di Clemente Rebora


Sciorinati giorni dispersi,

Cenci all’aria insaziabile:

Prementi ore senza uscita,

Fanghiglia d’acqua sorgiva:

Torpor d’àttimi lascivi

Fra lo spirito e il senso;

Forsennato voler che a libertà

Si lancia e ricade,

Inseguita locusta tra sterpi;

E superbo disprezzo

E fatica e rimorso e vano intendere:

E rigirìo sul luogo come cane,

Per invilire poi, fuggendo il lezzo,

La verità lontano in pigro scorno;

E ritorno, uguale ritorno

Dell’indifferente vita,

Mentr’echeggia la via

Consueti fragori e nelle corti

S’amplian faccende in conosciute voci

[…]

Oh per l’umano divenir possente

Certezza ineluttabile del vero,

Ordisci, ordisci de’ tuoi fili il panno

Che saldamente nel tessuto è storia

E nel disegno eternamente è Dio:

Ma così, cieco e ignavo,

Tra morte e morte vil ritmo fuggente,

Anch’io t’avrò fatto; anch’io.



Frammento XI, di Clemente Rebora


O carro vuoto sul binario morto,

Ecco per te la merce rude d’urti

E tonfi. Gravido ora pesi

Sui telai tesi;

Ma nei ràntoli gonfi

Si crolla fumida e viene

Annusando con fàscino orribile

La macchina ad aggiogarti.

Via dal tuo spazio assorto

All’aspro rullare d’acciaio

Al trabalzante stridere dei freni,

Incatenato nel gregge

Per l’immutabile legge

Del continuo aperto cammino:

E trascinato tramandi

E irrigidito rattieni

Le chiuse forze inespresse

Su ruote vicine e rotaie

Incongiungibili e oppresse,

Sotto il ciel che balzano

Nel labirinto dei giorni

Nel bivio delle stagioni

Contro la noia sguinzaglia l’eterno,

Verso l’amore pertugia l’esteso,

E non muore e vorrebbe, e non vive e vorrebbe,

Mentre la terra gli chiede il suo verbo

E appassionata nel volere acerbo

Paga col sangue, sola, la sua fede.



Dall’imagine tesa, di Clemente Rebora


Dall’imagine tesa

Vigilo l’istante

Con imminenza di attesa -

E non aspetto nessuno:

Nell’ombra accesa

Spio il campanello

Che impercettibile spande

Un polline di suono -

E non aspetto nessuno:

Fra quattro mura

Stupefatte di spazio

Più che un deserto

Non aspetto nessuno:

Ma deve venire,

Verrà, se resisto

A sbocciare non visto,

Verrà d’improvviso,

Quando meno l’avverto.

Verrà quasi perdono

Di quanto fa morire,

Verrà a farmi certo

Del suo e mio tesoro,

Verrà come ristoro

Delle mie e sue pene,

Verrà, forse già viene

Il suo bisbiglio.



Un nuovo giorno comincia, di Rocco Scotellaro


Un nuovo giorno comincia con un pensiero non nuovo

di te, della vita, delle strade di città dove andremo a finire.

Non posso dimenticare quante ne conobbi, tutte

simili e belle e cattive che mi volevano – dicevano – mangiare.

Né si può scordare i malfattori che solo

mi vollero male scostandomi lo sguardo

per paura o per degnazione.


Ma ecco i grandi amici numerosi

come le mosche e come le stelle

venivano sempre quando non li cercavo.

Se sono vicini, nello stesso paese o città,

ora dormono ancora e sono già

nei loro posti di lavoro o nelle terre lontane.

Se sono lontani, a quest’ora possono

morire e io non ho nulla da fare per loro.

Viene mia madre: - Quando ti farai grande? -

C’è nei nostri modi quello di essere

grandi, a una certa età, per tenere come

figli il padre e la madre. E io non sto

crescendo abbastanza.



L’onda, di Maria Luisa Spaziani


L’onda che batte mi consuma il tempo.

Rosicchia il golfo, sbriciola scogliere,

dissotterra pugnali circassi,

rapina ossa di gabbiani e tori.


L’onda che scava è un grosso cane pazzo,

non sa la morte e sfida ogni millennio.

È un cane da tartufi vittima di un equivoco.

Il suo tartufo è il disperante vuoto.



Che mi dite? Quale componimento vi è piaciuto di più? 

Io credo che il più incisivo, per quanto mi riguarda, sia quello di Lamarque. 

Mi piace tanto anche quello di Mario Luzi: ci tengo però a dire che, anche se ho messo una mia foto, io ho 34 anni, non sono proprio nell'imminenza dei quaranta... aspettiamo ancora un po'! 

Scherzi a parte, aspetto un vostro parere nei commenti! 

Grazie per la lettura, al prossimo post :-)



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