Novecento in poesia #7
Cari lettori,
benvenuti all'appuntamento di marzo con "L'angolo della poesia"! Abbiamo già parlato di passato e di futuro... oggi affrontiamo insieme il tempo in tutte le sue sfumature. Dall'arrivo dell'estate al Capodanno, dai momenti in cui il tempo sembra fermo a quelli cruciali, vediamo insieme come la pensano i grandi autori italiani del Novecento!
Il canto smarrito, di Angelo Barile
Ora che la ginestra
intenerisce anche le scabre
rupi sul nostro mare,
ora vengono i giorni
grandi, d’argento. Li apre
a prim’ estate
questo favellìo di campane
che c’invita domani
ai canti del Corpus Domini.
Domani andremo per campi
a far bracciate di rami
e riempir d’oro canestre;
paveseremo le finestre,
rallegreremo di frasche
le vecchie vie dove le case
si tengono strette abbracciate
in una fuga d’archi – e laggiù
palpita un riso di mare.
Forse domani le anziane
donne apprenderanno alle spose
in processione con loro
la laude che non cantano più
da tanto tempo: e questi
erano i giorni. Saliva
all’allegrezza della fede
un coro d’anime in festa.
Oh, ravvivaci ancora,
nostra laude disimparata,
canto di gioia smarrito
nella penosa memoria
irta di sterpi… Domani
forse domani t’udremo
ritremare sgorgare vivo
quando passa Gesù.
Fra terra e mare, di Pietro Bigongiari
L’onda che si accavalla
trova in se stessa sponda all’infinito,
ha udito, nel suo orecchio, in una stalla
il muggito più fievole dei secoli
che propone a finito ed infinito
di toccarsi fra loro, trastullarsi
in un piccolo corpo infreddolito.
Se le eriche là al vento rosseggiano
e il mare trova in schiume l’elemento
del suo frangersi in luce, chi, chi attento
al quasi nulla sente quasi tutto
stringersi in sé mentre intorno a sé espande
anche il pianto d’un re. Ande remote
nevano l’orizzonte: è qui che è grande.
Il qui che non è qui. Se si sgranchiscono
le gambe di chi tanto ha camminato
sul suo qui, è il suo qui, tese le rande,
che ascolta il vento empirgli del profumo
dell’altrove le nari: ancora ballano
sulle maree le navi, ascolta lungo
i travi scricchiolare
nelle murate il soffitto degli avi.
Per l’ultimo dell’anno 1975 ad Andrea Zanzotto, di Franco Fortini
Come nel buio si ritrae lento,
Andrea, questo anno già da sé diviso.
Ora nel vischio del suo fiele intriso
starà così per sempre dunque spento.
Ma quel che in noi di anno in anno è deriso
o incompiuto o deforme non lamento:
se uno è vinto e un altro è stato ucciso,
uno ha durato contro lo sgomento.
Qui stiamo a udire la sentenza. E non
ci sarà, lo sappiamo, una sentenza.
A uno a uno siamo in noi giù volti.
Quanto sei bella, giglio di Saron,
Gerusalemme che ci avrai raccolti.
Quanto lucente la tua inesistenza.
A vacanza conclusa, di Vivian Lamarque
A vacanza conclusa dal treno vedere
chi ancora sulla spiaggia gioca si bagna
la loro vacanza non è ancora finita:
sarà così sarà così
lasciare la vita?
Nell’imminenza dei quarant’anni, di Mario Luzi
Il pensiero m’insegue in questo borgo
cupo ove corre un vento d’altipiano
e il tuffo del rondone taglia il filo
sottile in lontananza dei monti.
Sono tra poco quarant’anni d’ansia,
d’uggia, d’ilarità improvvise, rapide
com’è rapida a marzo la ventata
che sparge luce e pioggia, son gli indugi,
lo strappo a mani tese dei miei cari,
dai miei luoghi, abitudini di anni
rotte a un tratto che devo ora comprendere.
L’albero di dolore scuote i rami…
Si sollevano gli anni alle mie spalle
a sciami. Non fu vano, è questa l’opera
che si compie ciascuno e tutti insieme
i vivi i morti, penetrare il mondo
opaco lungo vie chiare e cunicoli
fitti d’incontri effimeri e di perdite
o d’amore in amore o in uno solo
di padre in figlio fino a che sia limpido.
E detto questo posso incamminarmi
spedito tra l’eterna compresenza
del tutto nella vita nella morte,
sparire nella polvere o nel fuoco
se il fuoco oltre la fiamma dura ancora.
Gloria del disteso mezzogiorno, di Eugenio Montale
Gloria del disteso mezzogiorno
quand’ombra non rendono gli alberi,
e più e più si mostrano d’attorno
per troppa luce, le parvenze, falbe.
Il sole, in alto, - e un secco greto.
Il mio giorno non è dunque passato:
l’ora più bella è di là dal muretto
che rinchiude in un occaso scialbato.
L’arsura, in giro; un martin pescatore
volteggia s’una reliquia di vita.
La buona pioggia è di là dallo squallore,
ma in attendere è gioia più compita.
Tremolio, di Fabio Pusterla
In questa vasta desolazione d’inverni,
mentre la terra rannicchiata si torce
e qualcosa declina, che certi chiamano secolo
o con fierezza immotivata millennio,
e il signor Swatch propone un nuovo tempo
universale, rivoluzionano, che scandisca
il giorno in mille unità uguali per tutti,
e tutti finalmente saranno in orario
nella rete, nel sacco, nel disastro
pilotato, felicemente privi di tempo o passato,
inutilmente tesi a un futuro virtuale
globale e inesistente, grazie al quale
la gleba del presente sarà lieve,
in questa vastissima desolazione di inverni,
mia nonna Idelma Formenti Bussolini
di anni novantanove, sorda quasi del tutto,
elusa la sorveglianza, è uscita sul balcone
e lì guarda e declama.
Le quattro cifre, di Silvio Ramat
No, non ci sarà posto per entrambi.
Ma sarebbe insensato dire: o io
o lui. Vista ch’è sua tutta la forza,
la facile irruenza del futuro.
Lui: l’anno 2000. Un colpo di mano,
una bravata, cancellare a freddo -
sostituirle in una sola notte -
tutte e quattro le cifre della vita.
Chi per dodici lustri ha militato
in un secolo, non vorrà servire
di punto in bianco sotto nuove insegne.
Chiudere gli occhi, far finta di niente?
No. Ma, ai primi chiari, imboccare un’erta
e nel gelo che iberna bacca e rovo
bussare al monastero. Esser dei loro.
Imparare arti schiette – svinatura,
torchio – e poi, a ore fisse, la lettura
in una cerchia d’angeli canuti
ai quali i secoli sono farfalle,
non idoli o catene. Coltivare,
potare: attingere acqua tacendo
mentre giù a valle accendono il 2000.
Frammento VI, di Clemente Rebora
Sciorinati giorni dispersi,
Cenci all’aria insaziabile:
Prementi ore senza uscita,
Fanghiglia d’acqua sorgiva:
Torpor d’àttimi lascivi
Fra lo spirito e il senso;
Forsennato voler che a libertà
Si lancia e ricade,
Inseguita locusta tra sterpi;
E superbo disprezzo
E fatica e rimorso e vano intendere:
E rigirìo sul luogo come cane,
Per invilire poi, fuggendo il lezzo,
La verità lontano in pigro scorno;
E ritorno, uguale ritorno
Dell’indifferente vita,
Mentr’echeggia la via
Consueti fragori e nelle corti
S’amplian faccende in conosciute voci
[…]
Oh per l’umano divenir possente
Certezza ineluttabile del vero,
Ordisci, ordisci de’ tuoi fili il panno
Che saldamente nel tessuto è storia
E nel disegno eternamente è Dio:
Ma così, cieco e ignavo,
Tra morte e morte vil ritmo fuggente,
Anch’io t’avrò fatto; anch’io.
Frammento XI, di Clemente Rebora
O carro vuoto sul binario morto,
Ecco per te la merce rude d’urti
E tonfi. Gravido ora pesi
Sui telai tesi;
Ma nei ràntoli gonfi
Si crolla fumida e viene
Annusando con fàscino orribile
La macchina ad aggiogarti.
Via dal tuo spazio assorto
All’aspro rullare d’acciaio
Al trabalzante stridere dei freni,
Incatenato nel gregge
Per l’immutabile legge
Del continuo aperto cammino:
E trascinato tramandi
E irrigidito rattieni
Le chiuse forze inespresse
Su ruote vicine e rotaie
Incongiungibili e oppresse,
Sotto il ciel che balzano
Nel labirinto dei giorni
Nel bivio delle stagioni
Contro la noia sguinzaglia l’eterno,
Verso l’amore pertugia l’esteso,
E non muore e vorrebbe, e non vive e vorrebbe,
Mentre la terra gli chiede il suo verbo
E appassionata nel volere acerbo
Paga col sangue, sola, la sua fede.
Dall’imagine tesa, di Clemente Rebora
Dall’imagine tesa
Vigilo l’istante
Con imminenza di attesa -
E non aspetto nessuno:
Nell’ombra accesa
Spio il campanello
Che impercettibile spande
Un polline di suono -
E non aspetto nessuno:
Fra quattro mura
Stupefatte di spazio
Più che un deserto
Non aspetto nessuno:
Ma deve venire,
Verrà, se resisto
A sbocciare non visto,
Verrà d’improvviso,
Quando meno l’avverto.
Verrà quasi perdono
Di quanto fa morire,
Verrà a farmi certo
Del suo e mio tesoro,
Verrà come ristoro
Delle mie e sue pene,
Verrà, forse già viene
Il suo bisbiglio.
Un nuovo giorno comincia, di Rocco Scotellaro
Un nuovo giorno comincia con un pensiero non nuovo
di te, della vita, delle strade di città dove andremo a finire.
Non posso dimenticare quante ne conobbi, tutte
simili e belle e cattive che mi volevano – dicevano – mangiare.
Né si può scordare i malfattori che solo
mi vollero male scostandomi lo sguardo
per paura o per degnazione.
Ma ecco i grandi amici numerosi
come le mosche e come le stelle
venivano sempre quando non li cercavo.
Se sono vicini, nello stesso paese o città,
ora dormono ancora e sono già
nei loro posti di lavoro o nelle terre lontane.
Se sono lontani, a quest’ora possono
morire e io non ho nulla da fare per loro.
Viene mia madre: - Quando ti farai grande? -
C’è nei nostri modi quello di essere
grandi, a una certa età, per tenere come
figli il padre e la madre. E io non sto
crescendo abbastanza.
L’onda, di Maria Luisa Spaziani
L’onda che batte mi consuma il tempo.
Rosicchia il golfo, sbriciola scogliere,
dissotterra pugnali circassi,
rapina ossa di gabbiani e tori.
L’onda che scava è un grosso cane pazzo,
non sa la morte e sfida ogni millennio.
È un cane da tartufi vittima di un equivoco.
Il suo tartufo è il disperante vuoto.
Che mi dite? Quale componimento vi è piaciuto di più?
Io credo che il più incisivo, per quanto mi riguarda, sia quello di Lamarque.
Mi piace tanto anche quello di Mario Luzi: ci tengo però a dire che, anche se ho messo una mia foto, io ho 34 anni, non sono proprio nell'imminenza dei quaranta... aspettiamo ancora un po'!
Scherzi a parte, aspetto un vostro parere nei commenti!
Grazie per la lettura, al prossimo post :-)
Nessun commento :
Posta un commento