giovedì 16 maggio 2024

PROTAGONISTE NOIR

 Due romanzi di Francesco Abate e Ilaria Tuti




Cari lettori,

tra mostre d’arte, poesie e giri nei dintorni, qualche volta riusciamo a tornare ai nostri amati libri!


Oggi, per la nostra rubrica “Letture… a tema”, vi parlo di due romanzi che sono state due mie letture a cavallo tra l’inverno e la primavera. Anche se si tratta di autori diversi, ho pensato comunque di accostarli in un unico post perché le loro protagoniste fanno entrambe parte di una serie giallo/noir, sono anticonvenzionali e dal carattere deciso.


La seconda è certamente nota a molti di voi, mentre non sono così sicura che conosciate la prima!



Il misfatto della tonnara, di Francesco Abate


La “Cagliari bene” dovrà farsene una ragione: la giovane Clara Simon, figlia del militare di origini nobili Francesco Paolo Simon e di una donna orientale dei quartieri popolari, è a tutti gli effetti parte del giornale L’Unione.


È l’inizio del XX secolo e la donna è malvista da molti, sia per il suo sangue misto che per la sua intraprendenza e modernità. Una ragazza come lei, secondo i conservatori, dovrebbe stare chiusa a casa e sperare che qualcuno la sposi nonostante la madre che ha avuto, invece che lavorare come giornalista e lottare per i diritti dei più sfortunati. Clara, però, si disinteressa del parere dei tanti che pensano solo a giudicarla e si tiene stretta i suoi affetti: il nonno paterno, burbero ma comprensivo, con cui divide il palazzo nobiliare dove avrebbero dovuto stare anche i suoi genitori, morti troppo presto; Ugo Fassberger, suo amico ed alleato al giornale, l’unico che la sostenga anche quando corre il rischio di essere rimproverato insieme a lei dai loro superiori; il tenente Rodolfo Saporito, che l’ha già aiutata più volte quando si è cacciata nei guai; un’anziana governante ed una ragazzina orfana che ha salvato da un brutto caso di sfruttamento mesi prima.


Cagliari è in continuo fermento ed il lavoro per i giornalisti non si esaurisce mai. Solo pochi anni prima è stata fondata una scuola interamente gestita da donne, compresa la direttrice: un istituto mandato avanti da giovani ragazze come Clara, felici di portare a casa uno stipendio e di avere una posizione nella società che vada oltre i ruoli tradizionali.


Una delle più apprezzate maestre della scuola, però, una sera è vittima di un incidente. Fervente femminista, sarebbe dovuta restare insieme alle altre manifestanti, ma, non si sa come, si è allontanata dal gruppo, ed è stata ritrovata in una casa abbandonata, stesa sul pavimento di legno, con un’importante ferita alla testa. Non è morta, ma le sue condizioni restano gravi, e la guarigione sembra un processo difficile.


Clara, insieme a Ugo e su istruzione dei suoi superiori – che, manco a dirlo, le intimano di attenersi ai fatti e di non volare troppo con la fantasia – si ritrova all’ospedale a raccogliere le testimonianze di due genitori sconvolti, di un fratello atterrito e silenzioso e di un gruppo di manifestanti femministe decisamente spaventate ed in preda al senso di colpa. L’ipotesi prevalente degli inquirenti, infatti, è che la donna sia stata aggredita non per un motivo personale o legato al lavoro, ma proprio come esponente del gruppo femminista.


Qualche giorno prima dell’aggressione, infatti, le manifestanti si erano scontrate con un gruppo di uomini, giovani nobili dalle idee fortemente conservatrici. Proprio il più arrabbiato di loro è stato appena arrestato dal tenente Saporito e dai suoi e si sta ostinando in un atteggiamento molto strano: nega di aver fatto del male alla vittima, e sostiene di essere stato altrove quella sera, ma non vuole rivelare il nome di chi confermerebbe il suo alibi…



Di questo autore avevo letto un paio di anni fa I delitti della salina (a questo link la recensione), il romanzo di presentazione del romanzo di Clara Simon, che indagava anche il passato e l’incontro tra i suoi genitori, e mi era molto piaciuto. Il misfatto della tonnara è il terzo volume della serie che la vede protagonista: mi manca all’appello il secondo, Il complotto dei Calafati, che prima o poi recupererò sicuramente.


Clara non si è mai avvicinata ai gruppi di femministe, presa com’è sempre stata (anche giustamente, eh) a dividere il mondo tra poveri in difficoltà e ricchi privilegiati come lei che a suo parere dovrebbero aiutare chi annaspa. Quando si avvicina a questo mondo, comprende però che ci sono sofferenze che accomunano tutte le donne, anche quelle di classe sociale più agiata: c’è chi non può vivere liberamente la sua vita sentimentale perché è una vedova con figlia ed un nuovo legame farebbe vacillare la sua posizione, chi sceglie di proseguire con il suo lavoro ed i suoi interessi e perde l’uomo che aveva dichiarato di amarla, chi è terrorizzata all’idea di perdere per sempre la sua buona reputazione. Potremmo dire che questo romanzo, dal punto di vista della protagonista, è la storia di una donna che non sa ancora di essere femminista, di una giornalista dedita unicamente alla lotta dal punto di vista della classe sociale che si trova a scoprire quello che oggi chiameremmo “intersezionalità”.


Accanto a lei ci sono Ugo ed il tenente Rodolfo, due uomini dall’ideologia molto simile alla sua, che a differenza sua, però, non hanno mai avuto problemi nell’affermarla (e anche qui Clara è costretta a rendersi conto delle difficoltà derivanti dall’essere donna). Entrare in un bar ritrovo di giovani rampolli annoiati di ultra destra è per loro una dura prova (lo sarebbe anche per me), però devo ammettere che si tratta di alcune delle scene più divertenti del romanzo.


Nel recensire I delitti della salina vi avevo raccontato che tra i tre protagonisti c’è aria di triangolo sentimentale, e confermo quello che avevo già detto: i due uomini sono entrambi attratti da Clara; lei secondo me non se n’è ancora resa conto per bene, ma credo che per lei Ugo sia più un amico ed un alleato, mentre per il tenente Rodolfo i sentimenti sono sicuramente più complessi. Purtroppo credo che quest’ultimo dettaglio sia ben chiaro anche al povero Ugo. Comunque, neanche stavolta l’autore si sbilancia. Vediamo come proseguirà la serie…


Ricordo anche di aver trovato il primo romanzo sicuramente ben scritto ma un po’ lento e forse molto descrittivo in alcune parti. Questa volta, forse per i temi trattati o forse perché I delitti della salina presentava molti personaggi e situazioni, la lettura è scorsa fin troppo in fretta.


Vi farò sapere quando trovo in biblioteca anche Il complotto dei Calafati…



Madre d’ossa, di Ilaria Tuti


Il male segreto del commissario Teresa Battaglia ormai è impossibile da nascondere. Da qualche settimana, ormai, i segni dell’Alzheimer precoce dal quale la donna è affetta si sono verificati anche in presenza della sua squadra investigativa, ed in particolare del suo braccio destro Massimo Marini, che teme di perdere quella superiore che per manifestargli affetto non fa altro che maltrattarlo in modo burbero.


Teresa, inoltre, è stata recentemente sconvolta da un avvenimento che l’ha riportata al passato. Giacomo Mainardi, il primo serial killer che ella ha catturato da giovane, ha ammesso di aver ucciso Sebastiano, l’uomo che è stato suo marito, il mostro che la picchiava regolarmente e che le ha provocato un aborto spontaneo. Un frammento di osso di Sebastiano è stato trovato all’interno di un mosaico situato in un luogo di culto friulano. Teresa sapeva che le sue terre custodivano tanti segreti, ma non si sarebbe mai immaginata che riguardassero lei.


Dopo questa scoperta – e la confessione di Giacomo di aver agito per ordine di un ipotetico “mandante” - Teresa è stata messa parzialmente a riposo, in attesa che la dirigenza decida che cosa ne sarà di lei. Un giorno, però, proprio Massimo Marini viene convocato da lei in un luogo boschivo molto al di fuori dei centri abitati. Lo spettacolo che si trova davanti il giovane ispettore è a dir poco inquietante: la nebbia dell’alba si sta a poco a poco sollevando tra gli alberi della foresta, a terra qualcuno ha composto il simbolo di una spirale con dei sassi chiari… e poco distante c’è Teresa Battaglia che tiene in braccio il cadavere di un ragazzo che sembra dissanguato.


Solo per un attimo, Marini pensa che Teresa si sia ammalata al punto da diventare violenta; poi, però, si rende conto che la donna è in uno dei suoi momenti di lucidità ed ha effettivamente ritrovato una vittima di omicidio.


Sul luogo del delitto arriva subito tutto il resto della squadra, che insiste perché Teresa si riposi e si faccia da parte. La donna, però, sente confusamente un legame tra questo ritrovamento ed alcuni suoi vecchi casi che avevano lasciato in lei una sensazione di mistero. In effetti, il ragazzo morto apparteneva alla popolazione resiana, che lei e Marini avevano conosciuto indagando sul caso della Ninfa dormiente (a questo link la recensione). Qualcosa non va in quella famiglia: il padre è duro e sfuggente, la madre è misteriosamente sparita, la sorellina sembra una donna in trappola più che una ragazza.


Giorno dopo giorno, il nuovo caso si sovrappone ai vecchi e, chiunque sia l’assassino, sembra che si tratti di qualcuno che vuole a tutti i costi chiamare a sé Teresa: un braccialetto che la commissaria aveva perso viene ritrovato addirittura tra le catacombe, e, pochi giorni dopo, il cadavere di un uomo che le aveva fornito informazioni su un vecchio caso viene ritrovato in un santuario piuttosto sperduto. È come se il male arrivasse dai luoghi storici del territorio, da posti che per tutti rappresentano un passato da conservare e rispettare.


In effetti, nascosta tra resti antichi non meglio identificati, c’è una “madre d’ossa” che sta per avere un bambino e che, come una matriarca, sembra dirigere le operazioni criminali…



Dopo una lunga (lunga, lunga) attesa dovuta alla lista giustamente infinita, Madre d’ossa è arrivato a me sul finire di quest’inverno. Chi come me ha letto Figlia della cenere saprà bene che il romanzo si è concluso in un crescendo di misteri, sia per quanto riguarda le indagini che per Teresa stessa. Madre d’ossa mantiene quel che aveva promesso: i delitti, i misteri, i colpi di scena si moltiplicano capitolo dopo capitolo, anzi, oserei dire pagina dopo pagina.


La cosa più inquietante è il fatto che Teresa stessa non è più lucida, quindi la sua mente è un ulteriore tassello da interpretare. Spesso le capita di compiere dei gesti apparentemente senza motivo (risistemare camera sua in modo inspiegabile, cercare un oggetto che sembra non c’entrare in quel momento) perché il suo inconscio le sta suggerendo un collegamento che sfugge persino a lei. Quando i momenti di lucidità tornano, però, sono sconvolgenti. Sono sincera: Teresa Battaglia non è una di quelle protagoniste che ho amato subito, anche perché lei non è proprio una campionessa nel farsi amare, però, sul lungo corso, si è rivelata una delle più interessanti e meno scontate.


Grazie – o malgrado – lei, il buon Massimo Marini si sta liberando del carico di dolore e sta molto maturando, sia come professionista che come giovane padre di famiglia.


Il protagonista assoluto di questa serie era e resta il Friuli Venezia Giulia: Ilaria Tuti è una espertissima conoscitrice della sua terra, dalla geografia alla storia, dalle antiche religioni pagane all’arte romana e cristiana, dal folklore antico alle tradizioni moderne, e lo dimostra bene nei suoi romanzi, mescolando tutti questi elementi con grande maestria.


Inutile dire che è un romanzo che si divora e che non so bene se ci sarà un futuro investigativo per Teresa Battaglia, considerate anche le sue condizioni di salute, ma l’autrice fa sperare di sì… e ci spero anche io.




Cosa vi ispira di più? La giornalista immersa nella Sardegna di inizio XX secolo o la poliziotta divisa tra contemporaneità e mondo antico?

Io spero che ci siano presto nuove uscite che riguardino entrambe!

Fatemi sapere se conoscete queste autrici, se avete letto qualcosa, che ne pensate.

Grazie per la lettura, al prossimo post :-)


lunedì 13 maggio 2024

UN GIRETTO A... GENOVA

 Vi racconto la mia gita del 29 marzo




Cari lettori,

oggi sono contenta di proseguire con voi la serie delle “gite fuori porta” che avevo iniziato l’anno scorso! Dopo Cremona e Bellano, oggi facciamo un piccolo throwback alle vacanze di Pasqua (sigh). Come vi ho già raccontato nei preferiti di aprile, sono stata a Varazze con la mia famiglia, però il tempo, stavolta, non ci ha proprio assistito (mi domando chi abbia assistito in questa primavera piovosa, in realtà), così abbiamo pensato di fare anche dell’altro ed il venerdì abbiamo fatto un bel giro per Genova.


Ho già condiviso qualche scatto, ma spero che non vi dispiacerà riepilogare insieme questa giornata e magari scoprire qualche posto nuovo!



Boccadasse e Corso Italia


Partendo da Varazze, abbiamo preso il treno regionale fino a Genova Sturla e, dopo un breve tratto a piedi, siamo arrivati nel borgo di Boccadasse. Pur essendo stata sempre così vicina, non avevo mai visto questo quartiere così caratteristico di Genova, e ce l’avevamo in mente da così tanto! Essere finalmente lì è stato proprio un bel momento, anche se il tempo era grigio e tirava un vento terribile e freddo.



Oltre alla piazzetta ed alle case colorate non c’è moltissimo, ma gli interni sono molto caratteristici e ci sono persino delle decorazioni con le conchiglie.



Ci sono anche due targhe commemorative: un ricordo di Luigi Tenco e la poesia di un’autrice del luogo, che fu deportata ad Auschwitz.



Usciti da Boccadasse, abbiamo proseguito lungo Corso Italia, una grande arteria della città che, oltre a consentire lo scorrimento delle auto, presenta anche una larghissima passeggiata. Immagino che le sere d’estate sia piuttosto frequentata!



Abbiamo fatto un bel pezzo del viale ed ammirato delle ville davvero belle. Poi, visto che era ora, ci siamo fermati a pranzare in una trattoria che abbiamo trovato in una delle traverse del corso. Il menù era super interessante, metà ligure e metà toscano. Noi comunque abbiamo scelto piatti a base di stoccafisso, che è un po’ un classico del venerdì in Liguria!



Il centro della città


Dopo pranzo ci siamo incamminati nuovamente. Eravamo diretti verso la zona della vecchia Genova e Palazzo della Meridiana, ma, come spesso accade quando ci capita di fare queste gite, il tragitto è diventato quasi più importante della destinazione.

Appena usciti dalla trattoria, per esempio, ci siamo imbattuti in un arco di origine romana di cui non conoscevamo nemmeno l’esistenza.



Subito dopo una galleria, poi, siamo finiti a sorpresa nella zona medioevale di Genova, con le vecchie mura e quella che era la casa che ha dato i natali a Cristoforo Colombo.



Di fianco c’è anche un bellissimo chiostro con un colonnato quasi del tutto integro.



Infine siamo arrivati nella piazza forse più rappresentativa di Genova: da una parte il palazzo della Regione Liguria con una grande fontana, dall’altra il teatro Carlo Felice.



La mostra “Libri nell’arte”


Una volta arrivati nella zona più vecchia di Genova – quella vicina al porto ed al celeberrimo acquario – ci siamo diretti verso Palazzo della Mirandola. Proprio il giorno prima, infatti, aveva aperto la mostra Libri nell’arte: avendolo visto al tg regionale, ci eravamo incuriositi, così abbiamo pensato di includerla nella nostra gita genovese. So che ve l’ho ripetuto già qualche volta, ma vi prometto che entro fine mese caricherò sul blog una recensione un po’ più dettagliata, perché secondo me si merita un approfondimento!



Per ora vi posso solo anticipare che la mostra è abbastanza piccola ma secondo me, in un certo senso, esaustiva. Essa racconta il percorso del libro, sia come oggetto che come fonte d’ispirazione, nel mondo artistico, a partire dal Medioevo fino ad arrivare all’epoca contemporanea. Ovviamente quelli presentati sono pochi esempi per ogni secolo, ma li ho trovati significativi. Ci sono sia dipinti che libri miniati che opere di altro genere.



Se passate per Palazzo della Mirandola e non ci sono mostre che vi possano interessare, vi consiglio comunque di entrare a vedere l’edificio perché è spettacolare!



Oltre al colonnato ed agli splendidi vetri istoriati, sono notevoli anche gli affreschi: la struttura è sormontata da una serie di cupole e/o di capriate tutte dipinte, ognuna in modo diverso dalle altre…



La vecchia Genova


Prima di ritornare a riprendere il treno (da Brignole, perché ormai Sturla era troppo lontana) ci siamo persi un po’ per i vicoli della vecchia Genova. Chi ci è già stato penso che lo sappia: La città vecchia di De André non è il ricordo di un’epoca che fu, ma è una fotografia ancora attuale. Rispetto a quello che raccontava lui, sicuramente la città è arricchita da una grande multiculturalità, però la sensazione di entrare in un piccolo mondo a parte dove non batte il sole è intatta. Ci sono case vecchie, caruggi che sembrano il pezzo di un labirinto, tipologie di negozi che io non ho mai visto da altre parti. Vale la pena di fare un giro, anche se a questo punto della gita eravamo piuttosto stanchi!



Non potevamo non concludere il giro con due luoghi che avevo già visto, ma anni fa: il primo è il Duomo…



ed il secondo è Palazzo Ducale. Ho visto lì una mostra sugli impressionisti e Gauguin più di dieci anni fa ormai, ma non avevo molti ricordi della location. Stavolta abbiamo visto solo l’esterno: avevamo già visto una mostra ed era proprio ora di tornare a casa!




Ecco il nostro giro di Genova in breve!

Come avrete visto, è stata una giornata molto ricca. Io sono stata molto contenta di questa idea, e con il senno di poi lo sono ancora di più. 

L’anno scorso, infatti, c’era stata una primavera più mite e non solo avevamo potuto goderci un po’ di spiaggia già a Pasqua, ma avevamo anche sfruttato il ponte del 25 aprile per vedere, appunto, Cremona e Bellano. Purtroppo quest’anno c’è stato moltissimo maltempo ed anche il ponte di fine aprile è stato decisamente casalingo, quindi meno male che almeno siamo riusciti a “passare tra una goccia e l’altra”, come si suol dire, ed a goderci Genova.

Voi avete visto questa città? La conoscete? Vi piacerebbe andare?

Fatemi sapere che cosa ne pensate!

Grazie per la lettura, al prossimo post :-)


giovedì 9 maggio 2024

LA FINE

 Novecento in poesia #9




Cari lettori, 

benvenuti all'appuntamento di maggio con il nostro "Novecento in poesia"! 

Dopo aver parlato d'amore, oggi ci tocca il suo eterno rivale letterario, ovvero... la morte, ahinoi. Come direbbe il mitico Terence Hill, "Dov'è il dilemma? Meglio l'amore, no?". Io sono d'accordo con lui, ma vi garantisco che queste poesie meritano una lettura. Non si parla solo di morte fisica, ma anche di una fine metaforica, da più punti di vista. 

Proviamo a leggerle insieme... 



Morte segreta, di Dario Bellezza


Salgo e scendo le scale di una casa non più

castello di forti speranze o di robusti amori, ma

che tessendo le fila dei miei disfatti giorni

annunzia inesorabile la voragine della sventura.

Lì, durante la scalata faticosa al vecchio

maniero abitato dai fantasmi sento voci precise

che appartengono all’incubo di notti cadute

addosso alla mia infanzia celeste nutrita

di ardori sconosciuti e angelici languori.


Fantasmi di amori morti, amicizie consumate

dal tempo rapitore di gioventù, inesorabile

abitatore di malate menti sconvolte dal nulla.

Dio non c’è, non c’è speranza per me se rientro

a casa furtivamente, sospetto di morire

per mano di un giovane assassino dietro

un angolo buio. Così appena arrivato, pieno

di sgomento ed eccitato dal mio sangue

non versato, alzo a me stesso la preghiera

solitaria di chi non s’innamora più

del suo assassino innocente e reale.



Ritratto di uomo malato, di Attilio Bertolucci


Questo che vedete qui dipinto in sanguigna e nero

e che occupa intero il quadro spazioso

sono io all’età di quarantanove anni, ravvolto

in un’ampia vestaglia che mozza a metà le mani


come fossero fiori, non lascia vedere se il corpo

sia coricato o seduto: così è degli infermi

posti davanti a finestre che incorniciano il giorno,

un altro giorno concesso agli occhi stancantisi presto.


Ma se chiedo al pittore, mio figlio quattordicenne,

chi ha voluto ritrarre, egli subito dice

«uno di quei poeti cinesi che mi hai fatto

leggere, mentre guarda fuori, una delle sue ultime ore».


È sincero, ora ricordo d’avergli donato quel libro

che rallegra il cuore di riviere celesti

e brune foglie autunnali; in esso saggi, o finti saggi, poeti

graziosamente lasciano la vita alzando il bicchiere.


Sono io appartenente ad un secolo che crede

di non mentire, a ravvisarmi in quell’uomo malato

mentendo a me stesso: e ne scrivo

per esorcizzare un male in cui credo e non credo.



Da “Poesie del sabato”, di Carlo Betocchi


Avrò la mia tomba; sarai tu che verrai,

morte procace, non squallida come quei timidi

dicono: io son tuo amante, morte, mia morte

che raccogli la vita tra le braccia e la

tramandi, dalle sue spoglie grano traendo,

e vita, nuova vita nel sole dei morti,

invisibile nella loro pace fruttifera,

da cui un’altra né mai diversa vita risorge,

nulla finisce, anzi tutto continua, o morte,

o amata morte, o amata.



A mani giunte, di Carlo Betocchi


Ha detto: «Io sono quello che sono»

e tu non temere mai nulla: poiché,

se tu credi, non sarà tua l’esistenza,

ma sua: né sarà mai protetta, tuttavia,

come tu speri e credi: anzi, gettata

nelle fosse. Chi crede in Dio

si appresti ad essere l’ultimo

dei salvati, ma sulla croce, ed a bere

tutta l’amarezza dell’abbandono.

Poiché Dio è quello che è.



I lamenti, III, di Giorgio Caproni


Io come sono solo sulla terra

coi miei errori, i miei figli, l’infinito

caos dei nomi ormai vacui e la guerra

penetrata nell’ossa! … Tu che hai udito

un tempo il mio tranquillo passo nella

sera degli Archi a Livorno, a che invito

cedi – perché tu o padre mio la terra

abbandoni appoggiando allo sfinito

mio cuore l’occhio bianco? … Ah padre, padre

quale sabbia coperse quelle strade

in cui insieme fidammo! Ove la mano

tua s’allentò, per l’eterno ora cade

come un sasso tuo figlio – ora è un umano

piombo che il petto non sostiene più.



I coltelli, di Giorgio Caproni


«Be’?» mi fece.

Aveva paura. Rideva.

D’un tratto, il vento si alzò.

L’albero, tutto intero, tremò.

Schiacciai il grilletto. Crollò.

Lo vidi, la faccia spaccata

sui coltelli: gli scisti.

Ah, mio dio. Mio Dio.

Perché non esisti?



Non morirai se morirai sempre, di Elio Fiore


Non morirai se morirai sempre, un patto

chiedo alle tue stelle di notte, un dialogo

fra le mura squarciate da fantastiche finestre.

Altro non chiede l’anima: né solitudine che rifugga in versi.


Duro sei cuore se non gridi alla promiscuità

coinvolta nella calma della città.

Viscida sei anima, se fingi una bellezza

degna di esistere soltanto nell’irrealtà.

Non fuggo, mi guardo bene; in questo buco

smusso gli eventi le nostre asprezze, incauto

stralcio illeciti pesi e, nel sottecchio

seppure nulla al mio tempio assicuro,

carpisco eresia della mente, una realtà misura.



Morto ai paesi, di Alfonso Gatto


Bambino festoso incontro alla strada

del giorno chiamato lungamente

sarò morto nel gioco dei paesi:

prima che la sera cada

porta a porta si sente

la quiete fresca del mare, stormire.


Il bambino festoso dove muore

nel suo grido fa sera

e nel silenzio trova bianco odore

di madre, la leggera

sembianza del suo volto.


Resta vergogna calda sulla fronte,

a rare

voci ritorna

lungo le porte ad ascoltare

il paese cantato sui carri.



Coro sul Lete, di Adriano Grande


«Noi siamo in pace: eppur, frequenti volte,

se memoria riaccende un fioco lume,

incantati palazzi, piante folte

e giardini odorosi, quali un tempo

agognavamo, s’alzano dal fiume.


O dolce vita! E non per il possesso

che in cenere si muta e rende i cuori

opachi e grevi; sì, per la bellezza

intravveduta, per i desiderii

che sbocciavano in noi, da rami fiori.


Ora sappiamo il nulla d’ogni cosa:

ma per vivere ancora accetteremmo

d’esser la pietra su cui l’acqua scorre,

il fango ove l’insetto si riposa,

l’erba sulle rovine di una torre».



Ceppo, di Giovanni Pascoli


È mezzanotte. Nevica. Alla pieve

suonano a doppio; suonano l’entrata.

Va la Madonna bianca tra la neve:

spinge una porta; l’apre: era accostata.

Entra nella capanna: la cucina

è piena d’un sentor di medicina.

Un bricco al fuoco s’ode borbottare:

piccolo il ceppo brucia al focolare.


Un gran silenzio. Sono a messa? Bene.

Gesù trema; Maria si accosta al fuoco.

Ma ecco un suono, un rantolo che viene

di su, sempre più fievole e più roco.

Il bricco versa e sfrigge: la campana,

col vento, or s’avvicina, or s’allontana.

La Madonna, con una mano al cuore,

geme: Una mamma, figlio mio, che muore!


E piano piano, col suo bimbo fiso

nel ceppo, torna all’uscio, apre, s’avvia.

Il ceppo sbracia e crepita improvviso,

il bricco versa e sfrigola via via:

quel rantolo… è finito. O Maria stanca!

Bianca tu passi tra la neve bianca.

Suona d’intorno il doppio dell’entrata:

voce velata, malata, sognata.



La discussione sul ponte, di Giovanni Raboni


Io sto a sentirlo: ma lui, chi può dire

se lo vede sul serio, lì dov’era,

con le quattro Sorelle di ghisa, le spallette

sul buio del Naviglio? Ma sì, è buio,

i coni d’ombra oscillano, il respiro

del Naviglio interrato striscia d’ombra

sulle facciate livide, danneggia

i sopralzi, restaura i cornicioni

bassi di via Mulino delle Armi,

di via Senato, di dov’era il Tombone

di San Marco e nell’ombra, oltre i portoni,

sembra che il verde sollevi la sua groppa

consunta, i giardini fatti a pezzi

dal notaio, spianati dai bulldozer

del monopoli… Io non gli chiedo di credere

ai miei poveri simboli, all’orrore

dell’ingiustizia anonima, più cieca,

più decorosa. Ma anche quei suoi giochi

con le ombre: e avere pietà

dei morti, sempre dei morti… Forse è questo

che dovrebbe sapere: da che parte

ci tirano le ombre, se bisogna

vivere con i vivi o con i morti.



In un cimitero di monti, di Ceccardo Roccatagliata Ceccardi


Tarda il sentiero in un silenzio d’erba

che ingialla di rammarico, e rinverde

non mietuta, tra un vel d’aridi gambi.

Una rosa selvatica, una stella

di iride azzurra, affacciansi talora

da quel deserto come un sogno…; un sogno

che intende co le pallide pupille

a un altro sogno, lungi, interminato.


Un suon di foglia, che sul gambo oscilla,

il voi silenzïoso d’una magra

farfalla bianca, il canto d’un uccello:

o il vento che tra gli alberi viaggia

il monte, con il sole, con le stelle

e con vele di nubi, variando

colloquî d’ombre e immagini di luce…


E in aria pende a l’infinito un’eco

di mar che rompa un’invisibil riva,

o ne la valle o dietro il monte.

Ed ora

è questa la tua vita, o madre mia.

(giugno 1899)



Campi Elisi, di Leonardo Sinisgalli


Di là dalla dolce provincia dell’Agri

Siete approdati alle rive sognate,

Oscuri morti familiari.

Le vostre salme hanno dato salute

Al verde degli orti.

I campi di fave si sono allargati

Oltre i cancelli:

Dove arse superba l’età delle rose

Le capre pestano la terra

Nei giorni di siccità.



Sono una creatura, di Giuseppe Ungaretti


(Valloncello di Cima Quattro il 5 agosto 1916)


Come questa pietra

del S.Michele

così fredda

così dura

così prosciugata

così refrattaria

così totalmente

disanimata


Come questa pietra

è il mio pianto

che non si vede


La morte

si sconta

vivendo



Preghiera, di Giuseppe Ungaretti


Quando mi desterò

dal barbaglio della promiscuità

in una limpida e attonita sfera


Quando il mio peso mi sarà leggero


Il naufragio concedimi Signore

di quel giovane giorno al primo grido



Che ne pensate? A me piacciono particolarmente le poesie di Alfonso Gatto e Dario Bellezza... ma anche quelle di Ungaretti sono dei classici che credo tutti conosciamo! 

Fatemi sapere che cosa vi ha colpito di più... 

Grazie per la lettura, al prossimo post :-)