giovedì 10 febbraio 2022

MATELDA, IL PARADISO TERRESTRE E LE VIRTÙ

 Le donne raccontate da Dante #6




Cari lettori,

bentornati al nostro appuntamento mensile con la rubrica “Donne straordinarie” e con il nostro percorso dantesco!


Febbraio è l’ultimo mese invernale ed oggi, prima di passare alla primavera ed al Paradiso, concludiamo la nostra trilogia di post dedicata al Purgatorio.


In dicembre avevamo conosciuto Costanza d’Altavilla e Pia dei Tolomei (in questo post), mentre avevamo dedicato gennaio ad alcune donne superbe e/o invidiose, qui. Ora risaliamo insieme il Monte del Purgatorio ed arriviamo in cima, al Paradiso Terrestre, luogo protagonista dei canti XXVIII e XXIX.


Questa parte della cantica del Purgatorio mi piace moltissimo, e spero di riuscire a trasmettervi il perché. Se ben ricordate, nel post di dicembre vi avevo spiegato quello che per me era il senso più profondo del Purgatorio, e per farlo vi avevo raccontato l’incipit del terzo canto, uno dei miei passi preferiti: il momento in cui Dante e Virgilio iniziano la salita, pieni di dubbi e di paure, ma anche animati dalla speranza che, da quel momento in avanti, ci si avvicinerà al Paradiso e le cose non potranno che migliorare. Ecco, io credo che il Paradiso Terrestre esprima appieno lo spirito dal quale è animata la cantica: è il luogo della fragilità umana e degli sbagli fatti in passato… ma anche della promessa di un futuro migliore. Un po’ come, in certe belle giornate di febbraio, si annida un sentore di primavera e di bella stagione, non trovate?


Inoltre, come avrete intuito dal momento che questa rubrica è del tutto al femminile, il Paradiso Terrestre non è deserto, ma abitato in pianta stabile da una fanciulla straordinaria, una custode che darà gioia e speranza ai due poeti, prima della loro inevitabile separazione.


Senza ulteriori chiacchiere, passiamo ad analizzare insieme i passi più significativi!



L’incontro con Matelda: il paragone con Proserpina


E là m’apparve, sì com’egli appare

Subitamente cosa che disvia

Per maraviglia tutt’altro pensare,

Una Donna soletta, che si gia

Cantando, ed iscegliendo fior da fiore,

Ond’era pinta tutta la sua via.

Deh, bella Donna, ch’a’ raggi d’amore

Ti scaldi, s’i’vo’ credere a’ sembianti,

Che soglion esser testimon del cuore,

Vegnati voglia di trarreti avanti,

Diss’io a lei, verso questa riviera,

Tanto ch’io possa intender che tu canti.

Tu mi fai rimembrar, dove e qual era

Proserpina nel tempo, che perdette

La madre lei, ed ella primavera.”

(Canto XXVIII, vv. 37 – 51)


Dante e Virgilio hanno lasciato l’ultima cornice del Purgatorio e, giunti in cima al Monte del Purgatorio, sono entrati in una selva misteriosa. È quasi come se si chiudesse un cerchio: si sono conosciuti in un bosco buio e pieno di fiere; ora che stanno per separarsi – anche se Dante ancora non lo sa - sono di nuovo in un ambiente silvestre, ma l’atmosfera è completamente diversa. Un ruscello dalle acque chiare domina il paesaggio: è il Lete, fiume in cui le anime penitenti, purgate dai loro peccati, si immergono per dimenticare il loro passato e poter così salire al Paradiso. Tutt’intorno c’è un’eterna primavera, rallegrata da fiori ad ogni angolo e dal soave canto degli uccellini.


Già nella descrizione del luogo, secondo me, si può cogliere un omaggio alla prima delle tre opere cardinali di Virgilio, le Bucoliche (le altre due sono le Georgiche ed ovviamente all’Eneide). Si tratta di una serie di poemetti silvestri, i cui protagonisti sono principalmente pastori e pastorelle insieme ad altri semidei, come ninfe e fauni. Se Virgilio, però, utilizzava il linguaggio della fantasia per dire la sua a proposito di situazioni politiche e socio-economiche delicate – celeberrima è la prima Bucolica, che cela un’amara critica alla ridistribuzione dei territori che aveva fatto l’imperatore Augusto – nel Purgatorio dantesco, come già accaduto in tanti passaggi dell’Inferno, c’è una curiosa commistione di mitologia classica e teologia.


Nel bel mezzo di questa fiorente primavera, infatti, compare all’improvviso una meravigliosa fanciulla, chiamata volutamente Donna con la D maiuscola (“signora” in latino). È Matelda, l’unica abitante e custode del Paradiso Terrestre. Ella simboleggia l’affetto che lega Dante (e qualsiasi fedele come lui) alla Chiesa Cattolica: viene rappresentata mentre sta compiendo azioni molto gioiose, come il canto e la raccolta dei fiori, perché l’attaccamento alla Chiesa porta felicità (anche se sappiamo che Dante ha avuto molte rimostranze da fare in merito a certe personalità consacrate che si fanno beffe della Fede). Il fatto stesso che sia immersa in un contesto stagionale primaverile indica un concetto di rinascita, di un affetto che va coltivato e rinnovato ogni giorno.


Dante, però, nonostante sia intenzionato a mettere in secondo piano la mitologia classica ed a porre al centro dell’attenzione la teologia man mano ci si avvicina al Paradiso, non può fare a meno di paragonare Matelda a Proserpina (versione latina di Persefone), la dea della primavera figlia della gelosissima Demetra/Cerere. La fanciulla, rapita da Ade/Plutone che l’aveva resa sua sposa, era stata costretta da Zeus/Giove a trascorrere sei mesi nell’Aldilà con il marito (l’autunno e l’inverno) e sei mesi sulla Terra, nei dintorni di Enna, con la madre (la primavera e l’estate).


Inoltre, Matelda viene definita “colpita dai raggi dell’amore”, che sono ovviamente quelli del Paradiso e quindi del legame con Dio. Poco dopo, tuttavia, l’aprire gli occhi di Matelda davanti al sole ed alle figure dei poeti viene paragonato al momento in cui Venere, colpita dal figlio Eros, si innamora di Adone.


Dante è ancora sospeso tra due mondi: quello classico che ha conosciuto grazie a Virgilio e quello che presto gli si dischiuderà con Beatrice…



La cacciata degli uomini dal Paradiso Terrestre


Ond’ella: I’ dicerò come procede

Per sua cagion ciò ch’ammirar ti face,

E purgherò la nebbia che ti fiede.

Lo sommo Ben, che solo esso a sé piace,

Fece l’uom buono a bene, e questo loco

Diede per arra a lui d’eterna pace.

Per sua diffalta qui dimorò poco;

Per sua diffalta in pianto ed in affanno

Cambiò onesto riso e dolce giuoco.”

(Canto XXVIII, vv. 88 -96)


Il Paradiso Terrestre è un luogo meraviglioso, ma è stato, prima di tutto, sede della prima grande tragedia umana: la scoperta del peccato e la caduta in disgrazia.


Matelda – che ricorda così a Dante ed a Virgilio la sua natura simbolica e sovrumana - rievoca il momento in cui il Paradiso Terrestre era stato lasciato in custodia ai primi umani, Adamo ed Eva, e la loro cacciata a causa del tentatore (solitamente identificato con il serpente) dopo che questi li aveva convinti ad assaggiare i frutti dell’Albero della Conoscenza.


L’inserimento di questo episodio può avere differenti funzioni. Innanzitutto Matelda, rievocandolo, ribadisce che gli esseri umani, anche in forma di anime penitenti, possono solo transitare per il Paradiso terrestre, ma non risiedervi, perché rischierebbero di rovinare questo luogo incontaminato con il loro desiderio di controllo. Non per dire che Matelda – e quindi Dante – sia un’ecologista ante litteram, ma ci manca poco…


Inoltre, ancora una volta si pone l’attenzione sulla duplice natura dei luoghi del Purgatorio: la destinazione è il Paradiso e dunque la speranza nei confronti del futuro pervade lo spirito di ogni cosa, ma non si deve dimenticare che sia il Monte che il Paradiso Terrestre sono luoghi dove passano anime che, per quanto sostanzialmente meritevoli, hanno comunque commesso degli errori, talvolta anche gravi.


Così, nel luogo dove i primi uomini hanno fatto i primi sbagli, le anime si preparano ad abbandonare ogni male e, a differenza di Adamo ed Eva che avevano dovuto scendere sulla Terra, si preparano ad un’eternità di beatitudine.



I fiumi e l’epigramma sui Poeti antichi


Da queste parti con virtù discende,

Che toglie altrui memoria del peccato;

Dall’altra, d’ogni ben fatto la rende.

Quinci Letè, così dall’altro lato

Eunoè si chiama, e non adopra,

Se quinci e quindi pria non è gustato.

A tutt’altri sapori esto è di sopra;

Ed avvenga ch’assai possa esser sazia

La sete tua, perch’io più non ti scopra,

Darotti un corollario ancor per grazia,

Nè credo che il mio dir ti sia men caro,

Se oltre promission teco si spazia.

Quelli che anticamente poetaro

L’età dell’oro e il suo stato felice,

Forse in Parnaso esto loco sognaro.

Qui fu innocente l’umana radice;

Qui primavera sempre, ed ogni frutto;

Nettare è questo di che ciascun dice.

Io mi rivolsi addietro allora tutto

A’ miei Poeti, e vidi che con riso

Udito avean l’ultimo costrutto;

poi alla bella Donna tornai il viso.”

(Canto XXVIII, vv.127-148)


Matelda spiega a Dante l’importanza del fiume che scorre al centro del Paradiso Terrestre, che è chiamato in due modi diversi a seconda della riva presso cui ci si bagna o si bevono le acque. Da una parte c’è il Lete, che fa dimenticare il male compiuto; dall’altra l’Eunoè, dal greco “buona mente”, che rinsalda il ricordo delle buone azioni compiute. Il passaggio al Paradiso può avvenire soltanto se si sono compiuti i due passaggi: fuor di metafora, pentirsi soltanto del male fatto senza puntare sui propri punti di forza per migliorarsi è sterile, così come pensare solo al bene compiuto senza ammettere le proprie fragilità e debolezze è vanaglorioso.


Matelda si permette anche di aggiungere un epigramma, ovvero un’osservazione pungente, nei confronti dei tre poeti che si trova di fronte: Dante, Virgilio e Stazio, che sta accompagnando i due per l’ultimo tratto di Purgatorio. Stazio è un poeta latino del I secolo d.C. e, proprio come Virgilio, è principalmente un poeta epico, uno dei più famosi dell’età dei Flavi. È autore di un poema sulla guerra fratricida di Tebe, di uno sulla storia di Achille e di un altro ancora, Silvae, che è ambientato nei boschi (proprio come le Bucoliche di Virgilio! Decisamente la scelta degli accompagnatori non è casuale…). Ella sembra criticare l’eccessiva fantasia dei poeti, specie di quelli classici, che hanno cantato l’età dell’Oro ed immaginato il mitico Monte Parnaso, “fingendo” (ovvero creando con la loro fantasia di artisti) qualcosa che in realtà esiste solo lì, nel Paradiso Terrestre.


Dante si volta verso Virgilio e Stazio, forse aspettandosi un atteggiamento offeso da parte dei poeti che hanno ricevuto una sorta di frecciatina, ma si stupisce nel vedere che essi gli rispondono con un riso orgoglioso. Questi versi contengono una metafora che, a mio parere, è molto importante per un poeta cristiano come Dante: l’affetto per la Chiesa (simboleggiato da Matelda) spinge a provare un senso di vergogna per l’attaccamento a fantasie pagane, ma l’orgoglio creativo e la propria dignità di artista rivendicano invece l’importanza di un immaginario che è stato importante per la propria formazione.



Le virtù teologali e cardinali


Tre donne in giro, dalla destra rota,

Venian danzando; l’una tanto rossa,

Ch’a pena fora dentro al fuoco nota;

L’altr’era, come se le carni e l’ossa

Fossero state di smeraldo fatte;

La terza parea neve testè mossa:

Ed or parevan dalla bianca tratte,

Or dalla rossa, e dal canto di questa

L’altre togliean l’andare e tarde e ratte.

Dalla sinistra quattro facean festa,

In porpora vestite, dietro al modo

D’una di lor, ch’avea tre occhi in testa.”

(Canto XXIX, vv. 121 – 132)


Dopo aver concluso la sua conversazione con Matelda, Dante assiste all’apparizione di una serie di figure teologali che richiama molto i personaggi de l’Apocalisse di San Giovanni. Prima c’è una sfilata di beati dall’aspetto anziano, poi quattro grossi animali che simboleggiano gli Evangelisti, infine due gruppi di giovani fanciulle.


Il primo gruppo è quello delle Virtù Teologali personificate: la Carità, in rosso, la Speranza, in verde, e la Fede, in bianco. I vestiti della Carità e della Fede sono un chiaro richiamo ad un’altra importantissima opera di Dante, la Vita Nova: nel corso dei due primi incontri con il Poeta, Beatrice indossa proprio due abiti di questi colori. La Speranza non può condurre, perché è tratta (nasce) dalle altre due. L’intensità del canto della Carità, dell’Amore divino, modula anche il percorso della Fede.



Il secondo gruppo è invece costituito da quattro donne vestite di porpora: le Virtù Cardinali, ovvero la Giustizia, la Prudenza (con tre occhi), la Fortezza e la Temperanza.


Le fanciulle stanno per introdurre Beatrice, che presto scenderà dal Cielo e finalmente si ricongiungerà a Dante.





Eccoci giunti alla fine di questo viaggio nel Paradiso Terrestre!

Mi rendo conto di aver scritto un post “di cuore”… che novità, eh? Ormai conoscete il mio temperamento quando mi infervoro per qualcosa che mi piace!

Per il mese prossimo vi preparerò un post di transizione tra Purgatorio e Paradiso e conosceremo meglio Beatrice. Qui ho citato la Vita Nova, opera in cui la donna è protagonista assoluta: vi anticipo già che è un’altra mia passione…

Vi lascio qui il link al mio racconto dello scorso aprile, Un viaggio per un sogno, in cui vi parlo di alcuni argomenti danteschi in maniera un po’ più romanzata.

Spero che per tutti voi questo viaggio continui ad essere un piacere. Fatemi sapere che cosa ne pensate!

Grazie per la lettura, al prossimo post :-)


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