lunedì 11 novembre 2024

DUE INDAGINI A CATANIA PER VANINA

 Due romanzi di Cristina Cassar Scalia




Cari lettori,

nuova settimana, nuovo appuntamento con le nostre “Letture...per autori”!

Sapete che ho ancora qualche lettura dell’estate da raccontarvi e qualche recensione arretrata, ma in questo mese di novembre cercherò di proporvene il più possibile, concentrandomi soprattutto sui generi che per me sono più coerenti con le atmosfere autunnali – gialli, noir, thriller – prima che arrivi il periodo prenatalizio con le sue favole e le sue storie d’amore.


Dei due romanzi che vi propongo oggi, il primo è proprio una mia lettura di quest’estate, il secondo è invece appena concluso. Ho aspettato di poter avere una coppia di libri da recensirvi perché è una serie che vorrei completare e della quale vi ho parlato più volte: quella di Vanina Guarrasi, poliziotta nata dalla penna di Cristina Cassar Scalia.


Vi lascio i link alle “puntate precedenti”:


Recensione dei volumi 1 e 2


Recensione dei volumi 3 e 4


Recensione dei volumi 5 e 6


I due libri che vi racconto oggi non sono entrambi immediatamente successivi: il primo è un prequel, Il re del gelato. L’altro è effettivamente il settimo volume della serie, La banda dei carusi. Mi mancherebbe solo l’ottavo, Il castagno dei cento acri, e – almeno per ora – avrei completato la serie.


Ma vediamo meglio insieme questi due romanzi!



Il re del gelato



Vanina Guarrasi, palermitana per nascita, è in forze alla sezione Reati contro la persona di Catania da pochi mesi. Non ha ancora affrontato il complesso delitto raccontato in Sabbia nera – che darà il via alla sua popolarità catanese -, non ha ancora incontrato il suo mentore (il commissario in pensione Patané), non si è ancora del tutto ambientata.


Solo da poco ha iniziato a conoscere quella che poi sarà la sua squadra, tra il “Grande Capo” napoletano Tito Macchia, i veterani fidati come Spanò e Fragapane ed i carusi come Nunnari e Marta Bonazzoli.


Un giorno come tanti altri arriva una segnalazione davvero insolita: qualcuno ha messo delle pillole dentro alle vaschette di gelato di una gelateria molto nota, ed alcuni clienti si sono sentiti male. Dopo una prima indagine, emerge che nessuno è in pericolo di vita, chi si è sentito male aveva già problemi di salute e le pillole sono principalmente tranquillanti di origine naturale.


Uno scherzo di cattivo gusto che assume ben presto i contorni del sabotaggio: la gelateria colpita è il principale punto vendita di una catena molto rinomata, al punto che il proprietario è definito da tutti “Il Re del gelato”.


Mentre Vanina cerca di comprendere chi abbia potuto architettare questo brutto tiro e concentra le sue ricerche su un ex dipendente scontento, qualcuno uccide “il Re del gelato” proprio nel magazzino del punto vendita incriminato.


Il caso diventa così un omicidio in piena regola, e di un personaggio molto in vista. La famiglia dell’uomo era composta da moglie e due figli adulti, che sembrano nascondere più di un segreto. Quanto alla vittima, di là di una carriera ineccepibile, c’era una sola macchia nel suo passato: una rivalità storica con l’anziano proprietario di un carretto di gelati, un suo vecchio amico che non aveva avuto la sua stessa fortuna ed aveva finito per accontentarsi di un’attività più piccola. La rivalità tra i due forse non era soltanto professionale…



Il re del gelato è un “mezzo libro”, un prequel lungo circa la metà delle altre storie di Vanina. Ammetto che conoscevo già la storia perché in aprile ho visto la fiction, ed il primo dei quattro episodi era proprio incentrato su questa indagine. È una cosa che di base sconsiglio, perché a me si è ovviamente rovinata la sorpresa, però, leggendo bene nel romanzo ogni dettaglio, sono riuscita a ricostruire alcuni punti che nella fiction (che secondo me comunque è carina) erano stati o frettolosi o un po’ troppo drammatizzati. Se avete visto la serie, vi anticipo che un paio di momenti di super tensione non sono presenti nel romanzo. È un pochino quello che è successo – per me troppo – con Lolita Lobosco, la fiction tratta dai romanzi di Gabriella Genisi (che vi racconto qui). In ogni caso qui si è verificato in misura molto minore e secondo me gli altri tre gialli portati sul piccolo schermo sono stati ancora meglio.


È un prequel e come tale va preso: siccome è stato pubblicato dopo i primi e più celebri casi di Vanina, qui si sente che manca qualcosa, prima tra tutti la presenza rassicurante ma anche divertente dell’inarrestabile commissario Patané. E poi, nonostante la mia simpatia per un altro personaggio maschile della serie – Vanina non sarebbe molto d’accordo con me, o forse sì, sotto sotto – manca anche Paolo, il magistrato che la nostra protagonista ha lasciato precipitosamente dopo avergli salvato la vita, presa dalla paura di rimanere “vedova” prima ancora di sposarlo (e di rivivere quel che è successo al padre). Volume dopo volume, i due si avvicineranno, ma al momento la protagonista è appena arrivata a Catania e non ne vuole proprio sapere.


Diciamo che questo volume è qualcosa “in più”, che comunque consiglio se avete già letto qualche libro della serie di Vanina e vi è piaciuto.



La banda dei carusi



Catania, aprile. Emanuela Greco, ragazza di buona famiglia, esce dalla casa dove vive con il padre Vincenzo e la matrigna Rosi (ex moglie dell’ispettore Spanò) e si dirige a scuola, ma… non riesce ad entrare. È troppo sconvolta dopo che la sera prima il fidanzato, Thomas Ruscica, uno dei ragazzi salvati dalla droga da Don Rosario Limola, l’ha lasciata. La notte in bianco ha portato una mattina di angosce, e così Emanuela decide di fuggire dalla scuola per la prima volta in vita sua e di andare allo stabilimento balneare dove Thomas lavora. La ragazza sospetta che il suo fidanzato non abbia voluto lasciarla perché non la ama più, ma per un suo tormento interiore di altro genere. Ed in un certo senso ha ragione.


Poche ore dopo, Vanina ed i suoi corrono affannati sulla scena del delitto. Emanuela ha trovato Thomas in una cabina marittima adibita a ripostiglio, morto dopo aver subito dei colpi di rastrello in testa. La ragazza è sotto shock ed ha imprudentemente toccato sia il corpo che l’arma del delitto, ma Vanina è convinta che ella sia estranea a quanto è successo.


L’omicidio di Thomas ha scosso la poliziotta molto più profondamente del solito: guardando Emanuela, una liceale che di certo non meritava di ritrovarsi di fronte al cadavere di una persona amata e spirata per una morte violenta, non può fare a meno di ripensare al suo primo giorno di superiori ed al brutale assassinio del padre.


Anche Spanò è agitato quanto lei: i rapporti con la ex moglie ed il nuovo compagno, padre di Emanuela, si erano distesi da poco dopo dei trascorsi difficili, ed egli farebbe di tutto pur di scagionare la ragazza.


Il più sconvolto di tutti, però, è padre Rosario Limoli, che nella sua parrocchia aveva creato una comunità di recupero che accoglieva adolescenti e ventenni in crisi per vari motivi: tossicodipendenti che si volevano riabilitare, ragazzine costrette a prostituirsi e, come nel caso di Thomas, figli di boss della malavita che non volevano avere più a che fare con la famiglia e relativi affari. Per questo motivo il primo dubbio che si affaccia alla mente degli inquirenti è il fatto che la vittima potesse essere considerato in qualche modo un “traditore”. La dinamica del delitto, però, non è compatibile con le modalità di assassinio della malavita organizzata, non certo improvvisate.


In questo senso, il supporto del commissario Patané si rivela questa volta non solo investigativo, ma anche morale. Insieme a lui, Vanina conosce meglio la comunità di Don Rosario, che era già stata toccata dalla perdita di un professore che lì faceva il volontario (vicenda raccontata ne L'uomo del porto). I Carusi che ne fanno parte sono una vera e propria banda, comprensiva di aspirante poliziotta: insieme essi si aiutano, si spalleggiano e forniscono preziose indicazioni agli inquirenti.


Da qualche tempo Thomas aveva iniziato a collaborare con Don Rosario ed a salvare altre persone in difficoltà, portandole in parrocchia. Questi interventi generosi, manco a dirlo, non piacevano certo a tutti. Anche se il dubbio che Emanuela fosse stata tradita e ci fosse di mezzo un’altra ragazza purtroppo permane.



La banda dei Carusi riprende dove La carrozza della Santa si era interrotta. Qualcuno potrebbe dire che Catania non è molto cambiata: prima c’era la festa patronale di Sant’Agata, ora c’è Pasqua, ma non manca la voglia di divertirsi – e di mangiare – nonostante le difficoltà di ogni giorno.


Quella che a me sembra piuttosto cambiata è Vanina. Leggendo tutti i volumi della serie di fila si nota come il personaggio che all’inizio si presenta come estremamente dedito al lavoro, schivo e solitario, a volte persino un po’ anaffettivo… si sia pian piano perso. Solo la vocazione per il mestiere da poliziotta è rimasta. Per il resto, Vanina ha pian piano accettato l’ondata di affetto che ha trovato a Catania, tra mentori e vicine di casa, amici e colleghi.


Persino il mondo palermitano dal quale è sfuggita si fa di giorno in giorno più vicino, soprattutto perché pian piano Vanina riconosce il suo dolore ed il suo trauma passato e si rende conto di essersela presa con chi non ha colpe (il nuovo marito della madre e la sorellastra Costanza) e di aver allontanato l’uomo che ama. Mi dispiace soltanto per il pediatra Manfredi, inevitabilmente relegato al ruolo di amico – ma chissà che non ci sia qualche sorpresa anche per lui – e per Giuli, l’amica avvocato, che si porta dietro un segreto enorme ed il dolore dell’aborto spontaneo.


Vediamo se Il castagno dei cento acri porterà qualcosa di positivo anche a questi personaggi!





Ecco la mia recensione delle “penultime” indagini di Vanina!

Fatemi sapere se avete letto i romanzi, se vi sono piaciuti, che cosa ne pensate :-)

Ditemi anche se per caso avete visto la serie su Canale 5!

Grazie per la lettura, al prossimo post :-)


giovedì 7 novembre 2024

NIKI DE SAINT PHALLE

 Un tour virtuale della mostra al Mudec




Cari lettori,

l’autunno ha portato un po’ di mostre a Milano, così eccoci di nuovo alle prese con i nostri “Consigli artistici”!


Dopo aver salutato l’estate con la chiusura dell’esposizione gratuita del contemporaneo Valerio Adami ed esserci addentrati in atmosfere più cupe con Munch, oggi conosciamo meglio un’artista che ha incarnato appieno tanti aspetti del Novecento, la franco-americana Niki De Saint Phalle.


Artista vissuta tra il 1930 ed il 2002, qui in Italia è nota soprattutto per aver creato le statue del Giardino dei Tarocchi a Capalbio (in Toscana). Al Mudec di Milano, in via Tortona, è invece protagonista di una mostra che ha aperto ad inizio ottobre e ci accompagnerà fino a febbraio.


Forse perché quando vado a vedere artisti che già conosco so un po’ più cosa aspettarmi, ma devo dire che stavolta sono rimasta davvero senza parole per l’originalità ed il coraggio di quest’artista, che per me non ha solo incarnato lo spirito del tempo da tanti punti di vista, ma ha anche precorso i tempi.


Come mio solito, vi porto con me tra le sale della mostra, e spero di farvi scoprire qualcosa di speciale!



Contro le guerre e le imposizioni religiose



Le prime opere di Niki de Saint Phalle subiscono l’influenza dei movimenti pacifisti che prendono piede dopo la Seconda Guerra Mondiale ed acquistano una grande importanza mediatica a partire dagli anni ‘60. Una delle sue prime opere propone tutto ciò che viene “sepolto sotto la terra” dalle guerre, a partire dalle armi di chi viene sconfitto, passando per oggetti cari che un soldato si porta sempre con sé, fino ad arrivare al cuore stesso di chi non c’è più.




Con la serie delle “Cattedrali” Niki De Saint-Phalle aderisce con grande decisione ai primi movimenti di stampo anticlericale. La maggior parte delle “chiese” che crea incollando ad una tela bianca svariati oggetti e tante piccole sculture sono inizialmente candide, ma destinate a tingersi di ben altro colore. L’artista, infatti, gira l’Europa mettendo in scena delle performance durante le quali spara vernice rossa sulle sue stesse opere. Anche a Milano, nella galleria Vittorio Emanuele, mette in atto una di queste esibizioni, creando tutto lo scandalo che si può immaginare nella città del Duomo.




La sua opera più impressionante di questa serie, secondo me, è un vero e proprio polittico dorato… in versione “dissacrata”. I crocifissi e le statue di santi trovano posto accanto a veri e propri mostri, armi da fuoco, cadaveri seppelliti in fosse comuni, un enorme pipistrello che nasconde bombe a mano tra le sue ali – forse ad indicare tutte le guerre che la Chiesa ha voluto nel corso della storia – e persino una treccia d’aglio per scacciare vampiri. Un’opera decisamente forte e destinata a colpire lo spettatore.



La prima femminista intersezionale?



Niki De Saint Phalle è nata nel 1930 ed è stata una mia quasi coetanea durante il ‘68 e la nascita della prima ondata femminista. Con le sue compagne di lotta condivide tante idee cardine di quel periodo, primo tra tutti il concetto di matrimonio come “trappola”. 

In questo senso, la sua opera più esplicativa è sicuramente la statua di una sposa a cavallo, che non viene ritratta come una donna felice, bensì come una sorta di “cavaliere dell’Apocalisse” a cavallo di un nero destriero che porta sul suo manto tantissimi oggetti, simboleggianti le conseguenze del matrimonio (più negative che positive). 

Nella sala che ospita la statua c’è anche uno schermo che riproduce il video di un’intervista in cui il giornalista accusa Niki De Saint Phalle di aver prodotto un’opera poco femminile e lei lo rimette a posto in modo magistrale :-)




A mio parere, però, Niki De Saint Phalle va oltre le pur fondamentali e rivoluzionarie idee della prima ondata femminista. Potremmo dire che è una femminista intersezionale ante litteram. Questo termine non è stato coniato prima del XXI secolo, eppure delle sue interviste che vengono proiettate alla mostra evidenziano come già negli anni ‘70 e ‘80 il suo impegno per la parità di genere andasse di pari passo con la lotta contro il razzismo. 

L’artista è in parte statunitense ed ha assistito a fin troppe discriminazioni contro gli afroamericani: sostiene con forza l’idea che, se femminismo e antirazzismo “viaggiassero insieme”, potrebbero muovere il mondo.




Per questo motivo ella crea le sue Nana, statue di donne che ricordano moltissimo le matriarche dell’arte primitiva, e sono in buon numero di colore nero. La mostra ne è piena, dalle più piccole a quelle giganti, come queste “Tre Grazie” dagli abiti fatti di specchi.




Forse è proprio per la sua capacità di guardare già oltre che Niki De Saint Phalle non abbandonerà mai la lotta femminista, nemmeno quando nuove ondate metteranno in dubbio i concetti con cui ella è cresciuta. Fino ai primi anni 2000 ella lotterà contro Bush e le sue politiche antiabortiste, creando anche una litografia molto esplicativa.



Il Giardino dei Tarocchi



Fin dalle sue origini artistiche, Niki De Saint Phalle è molto attratta dall’Italia. Un suo collage dei primi tempi, per esempio, si ispira ai grandi quadri medioevali che ritraggono una città intera vista dall’alto.




Il Giardino dei Tarocchi omaggia quella che per l’artista è una tradizione folkloristica italiana. Ritrarre la Stella, la Luna, la Giustizia come donne magiche e potenti le dà la possibilità di riprendere alcune delle idee che ella ha comunicato creando le Nana.

La Stella, ad esempio, si affaccia su quella che potrebbe sembrare una sorta di piscina ed è in realtà il cielo stellato. Da notare come all’artista piaccia molto utilizzare il materiale specchio, in linea con altri artisti suoi contemporanei.




Ci sono tutti Tarocchi più famosi: l’Appeso, la Giustizia, la Luna. La mostra ospita delle miniature preparatorie, che hanno anticipato ed accompagnato il progetto. Le statue del Giardino, invece, hanno ben altra dimensione!



In giro per il mondo



Una problematica non indifferente degli anni ‘80 e ‘90 è la lotta contro l’AIDS. Anche Niki de Saint Phalle prende parte alla campagna informativa con moltissime fotografie e delle enormi ed originali sculture che ritraggono dei profilattici colorati.




L’attrazione per l’Africa non cessa mai: alcune sue statue sembrano proprio imitare l’arte locale. Il continente che ha dato vita ai primi esseri umani e l’ispirazione tratta dalla scultura primitiva vanno di pari passo.




Nei suoi ultimi anni, l’artista rivolge il suo interesse verso il Messico ed in particolare verso il culto dei morti che esercita questa nazione. Questo teschio – palla da discoteca è un po’ inquietante, lo ammetto, ma ha una sua bellezza.




Dopo Capalbio, ella decide di dare vita ad un nuovo giardino di statue, questa volta in California, e dall’ispirazione messicana. L’ultima sala della mostra ospita dei coloratissimi Totem che, proprio come nel caso dei Tarocchi, sono stati creati nella fase preparatoria.




Ci sarebbe tanto ancora da dire ma non voglio svelare troppo!

Non so se sono riuscita a rendere l’idea con le mie foto, ma vi assicuro che si tratta di un’esposizione sorprendente, colorata, in qualche modo audace. Alcune sale della mostra vi lasceranno a bocca aperta! Sono veramente felice di aver conosciuto una personalità così importante del Novecento e credo che in un’ora e mezza di mostra mi abbia insegnato tanto. Vi anticipo già che quel giorno ho visto un’altra esposizione di un grandissimo artista, ma ve ne parlerò tra qualche settimana per alternare un po’ gli argomenti sul blog.

Nel frattempo, fatemi sapere se vi ho incuriosito! Avete tempo fino al 16 febbraio per fare un salto al Mudec…

Grazie per la lettura, al prossimo post :-)


lunedì 4 novembre 2024

IL COLORE DEL TEMPO

 Recensioni classiche 2024




Cari lettori,

concludiamo insieme questo percorso fatto nel 2024 con “un classico per ogni bimestre”!


Prima di parlarvi dell’argomento odierno, un breve recap delle “puntate precedenti”.


Mi sono concentrata sulla letteratura e narrativa italiana e senza dubbio la scoperta più significativa è quella di Federigo Tozzi, che è stato protagonista del bimestre gennaio/febbraio con Con gli occhi chiusi (Link) e di maggio/giugno con Tre croci e un’antologia composta da miscellanea (Link).


In primavera, a marzo/aprile, ci siamo dedicati ai racconti di Matilde Serao con Fior di passione (Link).


In piena estate, tempo di letture brevi e in viaggio, ho scelto Il servitore di due padroni di Carlo Goldoni, un testo teatrale buffo ed istruttivo al tempo stesso (Link).


Infine a settembre/ottobre ho puntato sulla poesia, o meglio sulla biografia di una grande poetessa, con Alda Merini: l’eroina del caos (Link).


Questo mix di poesia, prosa, racconti e teatro mi ha fatto pensare che mancava solo un po’ di saggistica. Così ho puntato su uno dei classici che avevo sul Kindle da tempo innumerevole e che aspettava solo un’occasione adatta: Il colore del tempo di Federico De Roberto.


Non particolarmente lungo, coerente con l’epoca di altri autori che abbiamo visto quest’anno, diviso in capitoli che trattano alcune importanti tematiche di quei tempi. Facile, no?


No, affatto. Per quanto sia stata una lettura di media lunghezza (mi aspettavo un “mattone” maggiore ed avevo pensato anche di alternarlo ad altre letture per spezzare un po’, ma alla fine non è stato necessario) e la scrittura si sia rivelata più piana e scorrevole di altre opere letterarie tra il XIX ed il XX secolo, non si tratta per niente di una lettura facile. Cercherò di raccontarvi quel che ho compreso e che mi ha trasmesso, per quanto complesso e frutto del pensiero di un uomo d’altri tempi.


Devo ammettere che “dialogare” metaforicamente con un letterato così lontano nel tempo e nello spazio mi ha sorpreso: nonostante tutto, egli si è rivelato ben distante dai manierismi di alcuni intellettuali di oggi, che sembrano puntare ad arroccarsi sulla famosa torre d’avorio ed a non farsi comprendere da quanti considerano “troppo popolari” per i loro gusti. Tutto sommato preferisco non essere d’accordo con una persona che si esprime chiaramente – e che quindi mi stimola a pensare da dove nasce il mio disaccordo, e che cosa gli risponderei – piuttosto che leggere i pensieri di chi condivide la mia visione su tanti temi ma la tratta in modo da farla sembrare un sapere esclusivo.


Detto così può sembrare tutto un po’ fumoso, quindi cercherò anche io di essere franca e diretta come l’autore e di farvi capire che cosa si racconta in questo saggio.



L’ispirazione tratta dai quotidiani



Com’è, dunque, per Federico De Roberto, il “colore del tempo”? La risposta arriverà nell’ultima pagina, ma già il capitolo introduttivo, Il secolo agonizzante, potrebbe far intuire qualcosina: il colore del tempo che egli si ritrova a vivere è, a suo dire, decisamente fosco.


Questo è un saggio scritto e pubblicato proprio nel 1900 e sul “tavolo degli imputati” c’è l’Ottocento, responsabile di aver consegnato una pessima eredità al Novecento, che, appunto, inizia già “in agonia”.


Con una premessa simile, si potrebbe pensare che questo sia un saggio pessimista, ma ad essere sincera io non ho avuto esattamente questa impressione.


Il primo capitolo è programmatico, e spiega da dov’è nata l’idea scelta per organizzare e suddividere questo libro. Federico De Roberto afferma infatti di provare dei sentimenti contrastanti per l’invenzione del quotidiano, che dura solo un giorno e porta via con sé la notizia più importante di quelle 24 ore. Da un lato, se l’umanità ha scritto una pagina di storia brutta e da dimenticare, il giorno dopo si potrà voltare, letteralmente. Dall’altro, soprattutto per quanto riguarda le pagine di analisi letteraria, storica e politica, tanti approfondimenti rischiano di perdersi per sempre.


Per questo motivo egli si dichiara grande fan – forse in minoranza, come dice lui, ma non credo – di quei volumi di miscellanea che raccolgono svariati articoli di giornale, ognuno dei quali contiene un articolo su un argomento differente. Libri del genere, a suo dire, danno davvero l’idea de il colore del tempo, sia più limpido che più fosco. E così è il saggio che ci troviamo davanti: un insieme di lunghi articoli di giornale dal taglio prevalentemente letterario, storico e politico (o un mix dei tre ambiti).


Ogni capitolo ha per protagonista un autore, un’opera, un filosofo/pensatore, un movimento politico. Tutte entità e persone di cui secondo me Federico De Roberto ha una gran stima, anche se non con tutte è perfettamente allineato: a volte, infatti, si ritrova a fare una critica ragionata di ciò che comunque apprezza, altre volte invece confuta le tesi altrui senza girarci troppo intorno.


E così, per tornare a quello che dicevamo all’inizio, io non ho avvertito un pessimismo del tutto disfattista e rassegnato: anche quando si trova in palese disaccordo, l’autore cerca sempre di salvare il salvabile. Per lui, il semplice fatto che qualcuno abbia dato il suo contributo all’umanità con una sua opera è già qualcosa che rende il colore del tempo meno oscuro.


Devo dire che è un volume che spinge a ragionare tantissimo. L’autore critica l’opera di altri pensatori, creando lui stesso un pensiero, spingendo il lettore (me) a dirsi in accordo o no sia con lui che con chi sta criticando. È tipo l’Inception della filosofia. Ma proviamo un attimo ad addentrarci…



Due opposti, un compromesso?



I primi quattro capitoli del saggio si concentrano sull’analisi di due opposti.


La prima delle due coppie è composta da due autori dalle idee completamente diversa l’una dall’altra: Tolstoj e Nietzsche. Non potrebbe essere altrimenti, dal momento che il primo dei due esalta la semplicità della vita in campagna e un’utopia di stampo comunista (se vi può interessare la mia recensione di Anna Karenina, la trovate a questo link) e l’altro incentra tutto sul concetto di “superuomo” ed è diventato uno dei pensatori a cui più hanno attinto i gruppi politici conservatori.


Non sono stata molto sorpresa nel constatare che De Roberto non si schiera né con l’uno né con l’altro, ma ha da criticare su entrambi. La sua analisi è precisa e puntuale, con tanto di citazioni ed esempi, ma io ho avuto l’impressione che per l’autore il problema di entrambe le teorie fosse uno solo: tanta “bellezza” in teoria, poca possibilità di attuazione nella pratica. L’uomo, quello vero, difficilmente si accontenta di vivere con quel poco che altri hanno deciso di fornirgli, perché la vita stessa lo spinge a volere sempre qualcosa di più, ed anche i rapporti con la sua comunità, di conseguenza, non possono essere sempre idilliaci. Ma non è realistico pensare nemmeno che in ogni uomo alberghi un supereroe, e che tutti siano in grado di elevarsi “sugli altri” (gli altri chi, poi? Gli altri siamo noi). De Roberto fa notare come, di fronte ad esempi specifici, o alla prova dei fatti, queste teorie cadano in contraddizione, rimanendo così solo delle utopie, che sono salvabili e da tenere in considerazione solo come linee guida, come idee a cui ispirarsi.



L’altra delle due coppie è composta dalla dicotomia filosofia/poesia. De Roberto prende in considerazione due nomi meno noti del XIX secolo, prima Sully Proudhomme (“la poesia del filosofo”) e poi Maurizio Maeterlink (“la filosofia del poeta”). Che ne pensa l’autore, in una riga? Si potrebbe riassumere così: se ognuno continua a fare il suo mestiere forse è meglio, ma uscire dal seminato a volte è frutto di idee impreviste ed interessanti. Esattamente come le teorie di Tolstoj e di Nietzsche, anche le tesi di questi due autori si rivelano piuttosto contraddittorie, ma hanno l’innegabile pregio di unire il pensiero (filosofico) all’arte (poetica), pregio che comunque secondo me l’autore riconosce. Un po’ a fatica, eh, perché avrete capito che è un soggetto difficile, e mi meraviglio che non lo abbiano tacciato di essere un “pessimista cronico” com’è accaduto al povero Leopardi. Io, come vedete, sto provando a difenderlo…



Questioni storiche e politiche



La parte centrale del saggio è dedicata ad alcune questioni di ordine storico e politico, tre in particolare.


C’è un capitolo sul femminismo che, vi avviso, vi farà venire voglia di lanciare il Kindle contro il muro, fare un falò con i romanzi dell’autore sulla pubblica piazza e invocare gli spiriti delle donne bruciate perché “streghe” riconsiderare la vostra stima dell’autore e pensare che tutto sommato questo paese non ce la farà mai in materia di parità di genere. Questo capitolo è piuttosto indifendibile e mi verrebbe da dire che non sembra neanche scritto dall’autore, però poi mi ricordo che oggettivamente stiamo parlando di un uomo di un secolo e mezzo fa e, insomma, certe bestialità purtroppo erano comuni ai tempi, anche tra gli intellettuali più emancipati. Se non altro, è stato profetico nel prendersela più con gli “uomini che difendono i diritti altrui” che con le “donne che vorrebbero migliorare la propria posizione” (e senza volerlo ci ha azzeccato: da quando, negli ultimi anni, il femminismo è diventato performativo, alcuni uomini ci tengono a ribadire che sono più bravi ed attivi di noi persino in questo).


Poi si parla della Cina e dell’influenza innegabile che già al tempo aveva sull’Occidente. L’epoca di De Roberto consente di vedere già le ombre lunghe di quello che arriverà: un impero di grande importanza commerciale, la capacità del popolo cinese di diventare competitivo per le industrie occidentali, una potenza temibile anche dal punto di vista politico. Quanto ad una vera e propria unione tra culture, egli si mostra scettico, e devo dire che anche secondo me la nostra società contemporanea ha visto una contaminazione tra Oriente e Occidente, ma non una fusione: certe differenze restano troppo grandi ed è giusto che ognuna delle due parti preservi la sua unicità.


Infine si tratta di eventi storici che hanno riguardato sia la Spagna che gli Stati Uniti, racconti di guerre, scontri civili ed internazionali, questioni che hanno un unico comune denominatore: la sete di potere. Questo capitolo è più informativo che argomentativo, ma penso che non ci voglia molto per comprendere che uno dei motivi principali per cui, secondo Federico De Roberto, il XIX secolo è stato “fosco” è il continuo spargimento di sangue per gli interessi dei potenti. Credo che se egli potesse vedere questo XXI secolo, anche solo questi 24 anni, sprofonderebbe in una totale disperazione…



L’uomo e l’artista



Gli ultimi quattro capitoli, forse più scorrevoli dei precedenti – esattamente come accade in un volume di miscellanea di quotidiani, con articoli più corposi che vengono subito posti all’attenzione del lettore ed altri più agevoli che trovano posto in coda -, trattano tematiche più umanistiche, nel senso etimologico del termine.


Chi è l’uomo del XIX secolo? Quale sarà quello del XX? Quali sono le caratteristiche irrinunciabili come essere umano e come artista o professionista?


Il genio e l’ingegno tratta una questione molto discussa, forse ancora ai giorni nostri: quanto è talento naturale e quanto invece è impegno e dedizione? Come in tanti casi, la virtù sta nel mezzo…


Critica e creazione parte dall’esempio di Max Nordau, critico letterario e romanziere: è possibile conciliare le due carriere senza cadere in una sorta di conflitto di interessi? La risposta dell’autore sembra essere: più sì che no, ma chi è portato per la critica solitamente non ha il talento folgorante per il racconto di chi è romanziere e basta, si limita ad opere godibili…


La timidezza espone il problema della paura che blocca l’uomo, dai momenti di inevitabile fragilità al problema del mal di vivere (con riferimenti a Baudelaire).


La volontà è infine ritenuta la scintilla più importante che anima l’uomo, sia quello del recente passato che quello del futuro. Una luce che, come già detto, rende meno oscuro “Il colore del tempo”.





Come vedete, non è stato semplice approcciarsi a questo testo. Io ho cercato di esporvi quello che ho compreso e che ho pensato nel modo più semplice e chiaro che ho potuto. A mio parere tante questioni trattate sono ancora attuali. Volendo essere un po’ pessimisti, potremmo dire che l’uomo non impara mai da certi errori; guardando però il bicchiere mezzo pieno – e sapete che su questo blog la linea generale è questa – possiamo dire che il passato non è poi così lontano da noi ed abbiamo tanti maestri a cui chiedere consiglio, e credo che De Roberto sia decisamente uno di questi.


Siamo giunti al termine del nostro mini-percorso di sei classici da leggere nel 2024 e mi sento molto soddisfatta. Non so perché, ma mi sentivo un po’ pessimista al riguardo: pensavo che sarei riuscita ad essere costante per i primi due bimestri e che poi gli impegni lavorativi e non mi avrebbero travolto, riportandomi sulla mia classica TBR. Ma ciò che all’inizio mi sembrava un impegno un po’ oneroso, un buon proposito, si è trasformato ben presto in una boccata d’aria, in una possibilità preziosa di “tornare alle origini”, visto che dopo la Magistrale ho avuto tante vite lavorative diverse – principalmente nel mondo della scuola, come penso sappiate – e non tutte con mansioni proprio coerenti con ciò che più ho amato studiare.


Quindi non so ancora se per il 2025 proseguirò con questa buona abitudine, ma vi anticipo che sono molto tentata, soprattutto se non mi verrà in mente un progetto letterario più specifico da riportare sul blog. Comunque vi terrò aggiornati…


Mi piacerebbe avere una vostra opinione su quello che ho scritto oggi, o sul mini percorso di classici in generale. Anche spunti per prossime letture sono molto graditi.

Fatemi sapere! Grazie per la lettura, al prossimo post :-)