giovedì 4 luglio 2024

LA POESIA

 Novecento in poesia #11




Cari lettori,  

oggi il nostro percorso alla scoperta del "Novecento in poesia" arriva alla sua conclusione.

Sono un po' dispiaciuta, perché mi sembra ieri - o quasi - che rispolveravo l'antologia del mio corso di Letteratura italiana contemporanea. Però da settembre a qui abbiamo affrontato insieme davvero tantissimi temi, dal contatto con la natura ai personaggi da ricordare, dall'amore alla morte, dal senso del tempo ai luoghi del cuore. 

Oggi lascio che i poeti riflettano... sulla poesia stessa, e sull'arte in tutte le sue sfaccettature!



Da “Proclama sul fascino”, di Dario Bellezza


Oggi, dopo una notte d’insonnia,

coltivata da mille barbiturici

pillole colorate che danno ansia

ripresi a scrivere poesia

contro la poesia, con pudore

fastidio, inesorabile declino,

con la certezza idiota dei deboli.



Bando, di Sergio Corazzini


Avanti! Si accendono i lumi

nelle sale della mia reggia!

Signori! Ha principio la vendita

delle mie idee.

Avanti! Chi le vuole?

Idee originali

a prezzi normali.

Io vendo perché voglio

raggomitolarmi al sole

come un gatto a dormire

fino alla consumazione

de’ secoli! Avanti! L’occasione

è favorevole. Signori,

non ve ne andate, non ve ne andate;

vendo a così poco prezzo!

Diventerete celebri

con pochi denari.

Pensate: l’occasione è favorevole!

Non si ripeterà.

Oh! Non abbiate timore di offendermi

con un’offerta irrisoria!

Che m’importa della gloria!


E non badate, Dio mio, non badate

troppo alla mia voce

piangevole!



Le stirpi canore, di Gabriele D’Annunzio


I miei carmi son prole

delle foreste,

altri dell’onde,

altri delle arene,

altri del Sole,

altri del vento Argeste.

Le mie parole

sono profonde

come le radici

terrene,

altre serene

come i firmamenti,

fervide come le vene

degli adolescenti,

ispide come i dumi,

confuse come i fumi

confusi,

nette come i cristalli

del monte,

tremule come le fronde

del pioppo,

tumide come le narici

dei cavalli

a galoppo,

labili come i profumi

diffusi,

vergini come i calici

appena schiusi,

notturne come le rugiade

dei cieli,

funebri come gli asfodeli

dell’Ade,

pieghevoli come i salici

dello stagno,

tenui come i teli

che fra due steli

tesse il ragno.



Nominativo, di Milo De Angelis


Foglie volano tra i centri nervosi. Est

è la parola più scossa. Non è il peso

della sua sillaba. A lungo guardi la lettiga

gremita d’inchiostro: metà

nella terra che discende, metà nella

prima ora. «Abbiamo visto un lago,

abbiamo parlato.» Penetrazione dei vetri

nella fame. Padre che mi chiama padre.



Grido, di Luigi Fallacara


Ma se tutti i colori aperti e pieni

d’un calice non fanno di luce onda!

Tenebra v’incorona, astri sereni,

e la notte del sole in ombra abbonda!


O parola, parola, tu che tieni

ogni cuore se dentro sovrabbonda,

fa che, quando al mio labbro accesa vieni,

il silenzio non abbia ove s’asconda.


Cantami il canto delle vette chiare,

vasto, sui venti più ripidi d’ale,

rombo di terra che in cielo si svita,


senza mai appagarti ad ascoltare

l’urlo che in carne opaca più prevale,

per far del nulla ardenza di salita.



Da “Esercizi di tiptologia”, di Valerio Magrelli


Il bagno che allenta, che disfa,

scioglie, ma perché sciogliersi

se io sono il nodo,

l’intreccio,

se io, nodo, sono

il fiocchetto

delle paure?



I limoni, di Vincenzo Montale


Ascoltami, i poeti laureati

si muovono soltanto fra le piante

dai nomi poco usati: bossi ligustri o acanti.

Io, per me, amo le strade che riescono agli erbosi

fossi dove in pozzanghere

mezzo seccate agguantano i ragazzi

qualche sparuta anguilla:

le viuzze che seguono i ciglioni,

discendono tra i ciuffi delle canne

e mettono negli orti, tra gli alberi dei limoni.


Meglio se le gazzarre degli uccelli

si spengono inghiottite dall’azzurro:

più chiaro si ascolta il sussurro

dei rami amici nell’aria che quasi non si muove,

e i sensi di quest’odore

che non sa staccarsi da terra

e piove in petto una dolcezza inquieta.

Qui delle divertite passioni

per miracolo tace la guerra,

qui tocca anche a noi poveri la nostra parte di ricchezza

ed è l’odore dei limoni.


Vedi, in questi silenzi in cui le cose

s’abbandonano e sembrano vicine

a tradire il loro ultimo segreto,

talora ci si aspetta

di scoprire uno sbaglio di Natura,

il punto morto del mondo, l’anello che non tiene,

il filo da disbrogliare che finalmente ci metta

nel mezzo di una verità.

Lo sguardo fruga d’intorno,

la mente indaga accorda disunisce

nel profumo che dilaga

quando il giorno più languisce.

Sono i silenzi in cui si vede

in ogni ombra umana che s’allontana

qualche disturbata Divinità.


Ma l’illusione manca e ci riporta il tempo

nelle città rumorose dove l’azzurro si mostra

soltanto a pezzi, in alto, tra le cimase.

La pioggia stanca la terra, di poi; s’affolta

il tedio dell’inverno sulle case,

la luce si fa avara – amara l’anima.

Quando un giorno da un malchiuso portone

tra gli alberi di una corte

ci si mostrano i gialli dei limoni;

e il gelo del cuore si sfa,

e in petto ci scrosciano

le loro canzoni

le trombe d’oro della solarità.



Da “Ossi di seppia”, di Eugenio Montale


Potessi almeno costringere

in questo mio ritmo stento

qualche poco del mio vaneggiamento;

dato mi fosse accordare

alle tue voci il mio balbo parlare: -

io che sognava rapirti

le salmastre parole

in cui natura ed arte si confondono,

per gridar meglio la mia malinconia

di fanciullo invecchiato che non doveva pensare.

Ed invece non ho che le lettere fruste

dei dizionari, e l’oscura

voce che amore detta s’affioca,

si fa lamentosa letteratura.

Non ho che queste parole

che come donne pubblicate

s’offrono a chi le richiede;

non ho che queste frasi stancate

che potranno rubarmi anche domani

gli studenti canaglie in versi veri.

Ed il tuo rombo cresce, e si dilata

azzurra l’ombra nuova.

M’abbandonano a prova i miei pensieri.

Sensi non ho; né senso. Non ho limite.



Da “Cartoline di mare”, di Nico Orengo


Se scrivo rosa

e una rosa poi scompare…;

se scrivo mare e

il mare poi, si va

ad abbassare…;

se scrivo cielo

e il cielo poi,

diventa un buco nero…;

se scrivere è consumare.



Chi sono?, di Aldo Palazzeschi


Chi sono?

Son forse un poeta?

No, certo.

Non scrive che una parola, ben strana,

la penna dell’anima mia:

follia.

Son dunque un pittore?

Neanche.

Non à che un colore

la tavolozza dell’anima mia:

malinconia.

Un musico, allora?

Nemmeno.

Non c’è che una nota

nella tastiera dell’anima mia:

nostalgia.

Son dunque… che cosa?

Io metto una lente

davanti al mio core,

per farlo vedere alla gente.

Chi sono?

Il saltimbanco dell’anima mia.



Da “Giovanili ritrovate”, di Sandro Penna


La mia poesia non sarà

un giuoco leggero

fatto con parole delicate

e malate

(sole chiaro di marzo

su foglie rabbrividenti

di platani di un verde troppo chiaro).

La mia poesia lancerà la sua forza

a perdersi nell’infinito

(giuochi di un atleta bello

nel vespero lungo d’estate).



Nietzsche, di Umberto Saba


Intorno a una grandezza solitaria

non volano gli uccelli, né quei vaghi

gli fanno, accanto, il nido. Altro non odi

che il silenzio, non vedi altro che l’aria.



Commiato, di Leonardo Sinisgalli


O musa, vecchia musa decrepita, il poeta è ogni anno più cieco.

Il tuo riso à una smorfia Calliope nel losco mattino. In una

striscia di sole il gattino va a caccia di mosche. Anche il

poeta reumatico stenta a cogliere al volo un pensiero, sempre

meno matematico, sull’essenza dello Zero.



Il porto sepolto, di Giuseppe Ungaretti


(Cima Quattro il 22 dicembre 1915)


Vi arriva il poeta

e poi torna alla luce con i suoi canti

e li disperde


Di questa poesia

mi resta

quel nulla

d’inesauribile segreto



Commiato, di Giuseppe Ungaretti


(Locvizza il 12 ottobre 1916)


Gentile

Ettore Serra

poesia

è il mondo l’umanità

la propria vita

fioriti dalla parola

la limpida meraviglia

di un delirante fermento


Quando trovo

in questo mio silenzio

una parola

scavata è nella mia vita

come un abisso



Generare, di Valentino Zeichen


In questa estesa tipografia della natura che è il mondo

si ristampano tutte le memorie genetiche; siamo ancora

i successori di coloro che sono appena nati che già

di noi lo saranno quelli che intanto sono giunti.


L’amore per la stampa accomuna i corpi

che compongono con caratteri ereditari,

stampiamo biglietti da visita,

per l’occasione la fedeltà anastatica ci tradisce,

quale variante si legge il nome dei figli.


Noi vorremo eternarci nella copia

ma la natura più inventiva di noi

varia la monotonia dell’amor proprio

facendoci riprodurre il nostro dissimile

così

cadiamo nell’errore ortografico.




E così, anche questo progetto letterario giunge alla fine! 

Io per ora vi do appuntamento ai prossimi post della rubrica "Il momento dei classici" (sto cercando di leggere un classico ogni bimestre e per ora ci sto riuscendo). Non so ancora bene quali altri progetti letterari proporvi dall'autunno in avanti, ma a luglio non lo so mai... ci penserò e vi farò sapere, come al solito! 

Nel frattempo mi piacerebbe davvero sapere quali dei tanti temi toccati vi è piaciuto di più, o quali autori vi hanno colpito... 

Grazie per la lettura e per il supporto di questi mesi, al prossimo post :-)


Nessun commento :

Posta un commento