Un tour della mostra a Palazzo Reale
Cari lettori,
come promesso, dopo aver visto e commentato insieme l’esposizione di Valerio Adami, dedichiamo un post dei nostri “Consigli artistici” alla mostra di Edvard Munch a Palazzo Reale!
Munch è noto come “l’artista dell’Urlo” e questa sua opera sembra costituire la summa della sua attività artistica: esiste in versione poster, tazza, ombrello, persino emoji. Tutti la conoscono, è quasi una Gioconda nordica. Eppure l’universo di Munch è molto, molto più ampio.
Nemmeno io me l’aspettavo, ma questa è sicuramente l’esposizione più grande tra tutte quelle che ho visto nel 2024 – e per mia fortuna ne ho viste un po’ - e penso una delle più ampie che io abbia mai visitato in generale.
Attraversare questo lungo percorso è stata una vera e propria formazione per me: ho scoperto un artista che purtroppo la nostra società contemporanea sta banalizzando, perché anche lo stesso Urlo, una volta conosciuto il resto della sua produzione artistica, assume un significato profondo, al di là dell’icona che è diventato.
Cercherò di raccontarvi al meglio tutto quello che ho appreso, anche se, come vedrete, c’è parecchia carne al fuoco…
La drammatica storia familiare
Edvard Munch, nato e vissuto in Norvegia tra il 1863 e il 1944, ha avuto una storia familiare intensa e travagliata. I lutti hanno funestato la sua infanzia e la sua giovinezza: prima la madre, poi una sorella in tenerissima età, infine il padre, a cui era molto legato, scomparso mentre egli era distante per lavoro. Ci sono sue opere d’ispirazione familiare che richiamano proprio l’atmosfera che c’è in una casa quando nella stanza accanto c’è un moribondo, e parenti ed amici si raccolgono in preghiera e in attesa. Egli si ritrae sempre di lato, in una posizione di osservatore, come a ribadire quanto prendere parte a questi eventi drammatici sia stato determinante nella sua vita e nella sua arte.
Un nemico ancora più costante della morte è la malattia fisica: sia lui che i fratelli e sorelle superstiti sono continuamente tormentati dalla minaccia della tubercolosi, malattia alla quale sono evidentemente predisposti per via familiare. Ci sono delle sue pagine di diario davvero toccanti, in cui egli descrive quale incubo fosse per tutti trovare macchie di sangue sul fazzoletto, o come importanti giornate di festa siano trascorse al capezzale di questo o quel familiare malato.
Una sorella a cui egli è particolarmente legato, e che egli ritrae in una tela intitolata Malinconia, è stata invece affetta per tutta la vita da una seria depressione. Ricoverata più volte in strutture psichiatriche, che al tempo miravano più a nascondere il malato dal mondo che a curarlo, ella non viene mai abbandonata dal fratello, che prova un dolore crescente nel vedere lo sguardo della donna sempre più vuoto.
Oltre ai familiari, Munch ritrae più volte anche se stesso: giovane e di belle speranze, in posizione defilata, come protagonista di tele dal forte significato metaforico. Solo verso la fine della sua vita egli arriva ad una serena accettazione del fatto che il tempo è trascorso e che la malattia presto prenderà anche lui, dipingendo un Autoritratto tra il letto e l’orologio.
Amici, amori, società
Anche Munch, come tanti altri artisti, frequenta in gioventù un circolo di filosofi, letterati, pittori che aiuta a farsi strada nell’ambiente degli intellettuali ed a riconoscersi in persone simili a lui. Proprio a questi personaggi egli dedica dei quadri corali del suo primo periodo.
Una tela che mi piace particolarmente, perché testimone di collegamenti emozionanti tra mondi artistici differenti, è questo bozzetto per la scenografia del dramma Fantasmi di Ibsen. In questo caso, pittura e teatro si incontrano.
Il rapporto di Edvard Munch con le donne che ama è complesso ed altalenante. Forse è per questo che, in quadri come Madonna, egli sembra richiamare Maria, ma finisce per proporre un’iconografia che è a tutti gli effetti quella della Maddalena, e delle donne di facili costumi in generale.
L’ossessione per le figure femminili dai lunghi capelli rossi, quasi aranciati, nasce insieme alla sua tormentatissima relazione con una donna di nome Tulla Larsen. Dopo anni di tira e molla, un giorno, al culmine di un litigio, ella spara al pittore, ferendolo ad una mano (e, come dice l’audio guida con tono imperturbabile, “pose bruscamente fine alla loro relazione”, e vorrei ben vedere). Poi se ne va, sposando un altro artista, e Munch ne muore, fisicamente per il dolore della ferita, e soprattutto spiritualmente. La morte di Marat è una tela che ritrae proprio la disperazione dell’abbandono, che assume i contorni di un assassinio.
Per quanto Munch resti legato tutta la vita alla sua Oslo/Christiania, la passione per i viaggi non gli manca. Parigi e Berlino sono due città importanti per la sua vita artistica, ed anche la nostra Roma ha un posto nel suo cuore. Molto bella è una sua tela che ritrae il cimitero romano dove è sepolto lo zio, di professione storico.
Paesaggi cittadini, campagnoli, metafisici
Anche la paesaggistica è molto presente nella produzione artistica di Munch, ed ha una sua evoluzione nel tempo. In gioventù egli è molto ancorato alla realtà ed alla sua città natale. I protagonisti, in questo periodo, sono gli scorci cittadini, dalle vie più importanti al romantico parco.
Più in là, l’artista attraversa una fase in cui la protagonista è invece la campagna, con una serie di opere che noi oggi definiremmo testimonianze “di vita lenta”: il lavoro nei campi, gli animali attaccati al carro, i boschi che circondano le aree coltivate. Il falciatore è sicuramente una delle opere più rappresentative di questo filone.
Quando gli viene richiesto di abbellire con le sue opere alcune aule dell’Università di Christiania, egli sperimenta un nuovo tipo di pittura paesaggistica: quella ideale, dai pochi tratti essenziali e dal profondo significato metaforico. Purtroppo queste sue opere sono state meno capite di altre e non particolarmente apprezzate. A distanza di un secolo, invece, risulta chiaro quanto Munch sia riuscito ad anticipare i tempi in materia di tendenze pittoriche.
Anche negli ultimi anni della sua vita egli non smette di dipingere paesaggi: inverni innevati, notti stellate, ragazze su un ponte di campagna. Sarà proprio per poter ritrarre un’alba gelida che egli si prenderà l’influenza che lo stroncherà.
Il grido interiore
Fin qui abbiamo ritratto una vita piena, anche se con alti e bassi: familiari perduti troppo presto ma con cui c’è stato un rapporto autentico, circoli di intellettuali, viaggi, vita nella natura, amicizie, donne amate anche se non sempre con successo, persino un incidente che sarebbe potuto andare molto peggio.
Edvard Munch, però, non sta bene, per tutto il corso della sua vita. Malattia e morte bussano alla sua porta fin dalla più tenera età; lo spettro della depressione della sorella lo tormenta; l’abbandono violento della donna amata mette una pietra tombale sulla sua vaga aspirazione di sposarsi; la sua condizione di artista dalla spiccata sensibilità lo fa sentire spesso diverso dagli altri. Mi ha colpito una sua pagina di diario che, per certi versi, mi ha ricordato Il battello ebbro di Rimbaud. Proprio come la nave protagonista della poesia, egli ha “visto troppo”, e non può più tornare a vivere nel mondo della gente comune.
In una tela intitolata Visione egli esplicita questa sua sensazione. Tutt’intorno alla persona ritratta c’è un’atmosfera di rarefatta serenità: il laghetto, il cigno, i colori pastello. Eppure la protagonista di questo quadro, l’alter ego femminile del pittore, non riesce a vedere altro che il suo tormento. E di lei è visibile solo la testa, quasi tutto il corpo non esistesse più, come se contasse solo questa mente che galleggia ma non vuole morire, che pesa come un macigno ma resta attaccata alla vita e non va a fondo.
È da questo tormento che nasce il “grido interiore”, il senso di smarrimento che si tramuta in una paura esistenziale, rappresentato perfettamente ne L’Urlo. La mostra espone una sua litografia, ma non gli originali, che sono tutti molto fragili e sono già stati soggetto di numerosi furti.
Edvard Munch non si arrende al suo male di vivere: nei primi del ‘900, dopo la sparatoria, si fa ricoverare presso la clinica di un medico suo amico per “problemi nervosi”. Il soggiorno gli è di grande aiuto: elimina i suoi problemi di dipendenza da alcool ed altre sostanze e gli consente di poter trascorrere altri decenni della sua vita in uno stato tutto sommato discreto. La malinconia, però, è parte di lui, e lo accompagnerà per tutta la vita.
La mostra resterà a Palazzo Reale fino al 26 gennaio, quindi avete ancora un bel po’ di tempo a disposizione per fare un giretto, comprese le vacanze di Natale!
Secondo me vale davvero la pena di conoscere meglio questo grande artista…
Fatemi sapere se ci siete stati, se vi è piaciuta, se passerete prossimamente!
Grazie per la lettura, al prossimo post :-)
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