giovedì 7 aprile 2022

PICCARDA DONATI, COSTANZA E CUNIZZA DA ROMANO

 Le donne raccontate da Dante #8





Cari lettori,

è proprio vero che il tempo vola: siamo già al penultimo appuntamento con il nostro percorso dantesco tutto dedicato alla scoperta della “Donne straordinarie” della Commedia!

Dopo aver studiato insieme l’Inferno nei mesi autunnali ed il Purgatorio in quelli invernali, il mese scorso, in questo post, abbiamo conosciuto meglio Beatrice ed assistito all’ingresso di Dante nel Paradiso.


Proprio quest’ultima cantica è la protagonista del post di questo mese e di quello di maggio, che chiuderà questo lungo e spero emozionante percorso. Il Paradiso è forse la meno conosciuta e la più complessa delle Tre Cantiche: dal momento che l’Inferno è la più studiata di tutte ed il Purgatorio è – come ormai saprete – una mia passione, questa volta, nell’accostarmi alla lettura dei canti danteschi, riconosco di avere avuto qualche difficoltà in più. Al liceo ho studiato solo sei canti del Paradiso (a fronte dei dieci e dieci delle altre due cantiche), e persino all’esame di Letteratura Italiana I la mole di studio riservata ad esso era un po’ inferiore. Credo che i principali motivi di un minore soffermarsi a scuola sul Paradiso siano il linguaggio aulico e tragico (molto più complesso di quello “comico” dell’Inferno, ed ancora più difficile di quello eterogeneo del Purgatorio), le tante digressioni di stampo teologico e di astronomia del tempo – ormai superata, ovviamente – e soprattutto la minor quantità di personaggi che restano marchiati nella mente del lettore. Alcuni dannati dell’Inferno sono indimenticabili; qui, invece, ci sono spesso delle figure esemplari che si fanno portavoce del messaggio divino, oppure delle anime corali.


Con questo discorso non voglio per niente definirmi una detrattrice del Paradiso, anzi, se ci fosse più tempo ed avessi dalla mia maggiori competenze specifiche sulla teologia e/o scienza medioevale probabilmente dedicherei un altro progetto del blog solo a questa cantica, che merita maggiore approfondimento. Ho provato a “perdermi” tra le varie digressioni su macchie lunari ed orbite celesti, ma ammetto che mi stavo perdendo davvero…


Tornando a ciò che ci sta più a cuore, oggi conosciamo tre personaggi femminili che appartengono appieno al Paradiso, tre figure storiche medioevali che erano parte di famiglie di grande importanza: due beate del Cielo della Luna, che hanno dovuto sopportare l’ingiustizia di interrompere il loro percorso vocazionale, ed un’anima del Cielo di Venere con un fratello decisamente “scomodo”. Conosciamole meglio insieme!



Piccarda Donati e la felicità delle anime beate


Ed io all’ombra, che parea più vaga

Di ragionar, drizza’mi, e cominciai,

Quasi com’uom cui troppa voglia smaga:

O ben creato spirito, che a’ rai

Di vita eterna la dolcezza senti,

Che non gustata non s’intende mai;

Grazioso mi fia, se mi contenti

Del nome tuo e della vostra sorte.

Ond’ella pronta e con gli occhi ridenti:

La nostra carità non serra porte

A giusta voglia, se non come quella

Che vuol simile a sé tutta sua corte.

Io fui nel mondo vergine sorella;

E se la mente tua ben si riguarda,

Non mi ti celerà l’esser più bella,

Ma riconoscerai ch’io son Piccarda,

Che, posta qui con questi altri beati,

Beata son nella spera più tarda.

Li nostri affetti, che solo infiammati

Son nel piacer dello Spirito Santo,

Letizian del su’ ordine formati.

E questa sorte, che par giù cotanto,

Però n’è data, perché fur negletti

Li nostri voti, e vòti in alcun canto.”

(Canto III Paradiso, vv. 34-57)


Dante e Beatrice, dopo aver discusso insieme la natura delle macchie lunari, conoscono gli spiriti che abitano questo Cielo: si tratta di beati che, per motivi indipendenti dalla loro volontà (come una morte violenta in giovane età o un sopruso altrui) non hanno potuto portare avanti il loro percorso di vita consacrata, o comunque una missione per la quale Dio aveva dato la sua benedizione.


Siccome il Cielo della Luna è il più lontano dall’Empireo (la sfera celeste ove si trovano Maria, i Santi e Dio stesso), gli spiriti appaiono a Dante di un lucore perlaceo, quasi sfocati, tanto che egli, all’inizio, crede che siano il riflesso di uno specchio.


Personalmente mi ha sempre stupito molto, studiando questo canto, constatare come la Luna sia un astro considerato “puro” nell’astronomia medioevale, un luogo sgombro e sede di penitenti. Tutto ciò è molto strano, se si considera che in meno di due secoli, con i poemi di Boiardo e di Ariosto, la Luna inizierà ad essere raccontata come un punto di raccolta di tutto il ciarpame umano, reale e metafisico (come il famoso senno di Orlando). Ma si tratta pur sempre di due modi moolto diversi di fare letteratura!


Tra le anime desiderose di parlare con Dante c’è un gruppetto di donne che hanno dovuto affrontare tutte lo stesso sopruso: chi prima, chi dopo, sono state portate via dal convento (dove si erano rifugiate per loro spontanea volontà) ed obbligate a sposare qualcuno per motivi politici.


Colei che gli parla è Piccarda, sorella di Corso Donati, un famoso condottiero ed importante uomo politico della Firenze medioevale. A lei Dante chiede se non si senta infelice di ritrovarsi nel Cielo più lontano dall’Empireo: ciò che le è accaduto non è stato certo a causa sua, e forse il suo sacrificio avrebbe meritato un premio più grande.


Piccarda risponde a Dante che lei e le sue sorelle sono felici, perché essere in Paradiso significa già essere in comunione con Dio, e che la Divina Provvidenza ha tolto qualunque traccia di insoddisfazione e frustrazione umana dal cuore dei beati, così che ogni anima è felice di trovarsi esattamente dov’è. D’altra parte, sarebbe davvero un controsenso trovarsi in Cielo e non essere d’accordo con le decisioni prese da Dio.



Costanza ed il voto mancato


Donna più in su, mi disse, alla cui norma

Nel vostro mondo giù si veste e vela,

Perché infino al morir si vegghi e dorma

Con quello sposo ch’ogni voto accetta,

Che caritate a suo piacer conforma.

Dal mondo, per seguirla, giovinetta

Fuggi’mi, e nel suo abito mi chiusi,

E promisi la via della sua setta.

Uomini poi, a mal più ch’a bene usi,

Fuor mi rapiron della dolce chiostra;

Dio lo si sa qual poi mia vita fusi.

E quest’altro splendor, che ti si mostra

Dalla mia destra parte, e che s’accende

Di tutto il lume della spera nostra,

Ciò ch’io dico di me di sé intende:

Sorella fu, e così le fu tolta

Di capo l’ombra delle sacre bende.

Ma poi che pur al mondo fu rivolta

Contra suo grado e contra buona usanza,

Non fu dal vel del cor giammai disciolta.

Quest’è la luce della gran Gostanza,

Che del secondo vento di Soave

Generò il terzo, e l’ultima possanza.”

(Canto III Paradiso, vv. 98-120)


Dante, che si mostra, ancora una volta, profondamente umano, non solo tra le atrocità dell’Inferno ma anche nel mondo ideale del Paradiso, non si accontenta della spiegazione teologica che gli è stata fornita e desidera anche quella terrena: il resoconto di ciò che è accaduto all’anima di Piccarda Donati quando ella era ancora in vita.


La donna racconta di essere entrata di sua spontanea volontà nel convento delle Clarisse e magnifica la figura di Santa Chiara e del suo virtuoso ordine, che nel Medioevo aveva raccolto intorno a sé moltissime consorelle, proprio come, sempre in Centro Italia, erano stati tanti i seguaci di San Francesco. Ella ricorda poi di essere stata costretta ad abbandonare – fisicamente e spiritualmente – il convento e di aver dovuto avere una vita che non desiderava, sulla quale sembra reticente.


Probabilmente Dante qui non racconta più di tanto per lasciare il lettore libero di scegliere tra leggenda e realtà. Quel che è certo è che la scelta di prelevare Piccarda dal monastero fu del fratello Corso, che mandò i suoi sgherri a rapirla per obbligarla a sposare un facinoroso rappresentante dei Guelfi Neri (e in questo caso Dante non può fare a meno di lanciare una frecciatina, dal momento che è appartenuto per anni al movimento rivale, i Bianchi). La leggenda, poi, racconta che la lebbra avesse stroncato la giovane donna poco prima delle nozze. In realtà è molto più probabile che questa storia sia stata inventata per una sorta di concetto di pietas medioevale, e che la poveretta abbia dovuto sopportare una vita secolare poco gradita.



Mentre Piccarda racconta, accanto a lei c’è una silenziosa consorella che sembra approvare con lo sguardo, proprio perché, come verrà rivelato pochi versi dopo, ha subito la stessa sorte. Si tratta di Costanza (qui Gostanza per motivi fonetici), figlia di Ruggieri, re di Puglia e di Sicilia. Si narra che ella fu levata dal monastero nel 1186 tramite l’Arcivescovo di Palermo, per volere di Tancredi, un parente che aveva sostituito sul trono suo nipote Guglielmo, morto senza eredi. Si racconta che Costanza fu costretta a sposarsi “in età tarda” (e qui potrei offendermi, perché aveva 32 anni proprio come me), ed è certo che divenne madre dell’imperatore Federico III. A Piccarda, però – e quindi a Dante – piace immaginare che Costanza, leale e fedele proprio come il suo nome, abbia conservato nel cuore la sua fede e la sua devozione monastica.



Cunizza da Romano e la politica contemporanea


Onde la luce che m’era ancor nuova,

Del suo profondo, ond’ella pria cantava,

Seguette, come a cui di ben far giova:

In quella parte della terra prava

Italica, che siede tra Rialto

E le fontane di Brenta e di Piava,

Si leva un colle, e non surge molt’alto,

Là onde scese già una facella,

Che fece alla contrada grande assalto.

D’una radice nacqui ed io ed ella;

Cunizza fui chiamata, e qui refulgo,

Perché mi vinse il lume d’esta stella.

Ma lietamente a me medesma indulgo

La cagion di mia sorte, e non mi noia,

Che forse parria forte al vostro vulgo.

Di questa luculenta e cara gioia

Del nostro cielo, che più m’è propinqua,

Grande fama rimase, e, pria che muoia,

Questo centesim’anno ancor s’incinqua.

Vedi se far si dee l’uomo eccellente,

Sì ch’altra vita la prima relinqua!

E ciò non pensa la turba presente,

Che Tagliamento ed Adice richiude,

Nè per esser battuta ancor si pente.

Ma tosto fia che Padova al palude

Cangerà l’acqua che Vicenza bagna,

Per esser al dover le genti crude.

E dove Sile e Cagnan s’accompagna,

Tal signoreggia e va con la testa alta,

Che già per lui carpir si fa la ragna.

Piangerà Feltro ancora la diffalta

Dell’empio suo pastor, che sarà sconcia

Sì, che per simil non s’entrò in Malta.”

(Canto IX Paradiso, vv. 22-54)


Concludiamo il post odierno con una figura la cui presenza mi ha molto sorpreso la prima volta che ho studiato il Paradiso. Credo che il suo inserimento all’interno di questa Cantica sia la riprova – una delle tante, in realtà – che essere un uomo del Medioevo può non significare essere anche obnubilato dai pregiudizi, e Dante di sicuro ne è un esempio. Così come egli ha avuto la lucidità necessaria nel riconoscere che il suo stimato maestro Brunetto Latini si era macchiato di una pratica considerata peccato per i tempi e che quindi era necessario scrivere di lui nell’Inferno, così ora egli riesce a scindere un crudele tiranno dal resto della sua famiglia.


Stiamo parlando di Ezzelino III da Romano, dei conti Onara di Bassano, un nobile efferato che aveva terrorizzato il Nord Est italiano, ma soprattutto della sorella Cunizza, che si trova nel Cielo di Venere, sede degli spiriti che si sono distinti per aver provato un amore molto simile a quello divino.


Dante ha appena concluso una lunga – e attualissima, e meravigliosa – conversazione con Carlo Martello sull’importanza che ognuno di noi segua i talenti e le passioni che Dio gli ha donato. È lo spirito di Cunizza ad avvicinarsi spontaneamente a lui, come se avesse qualcosa da dirgli.


La donna parte da lontano, ricordando di essere figlia e sorella di due tiranni e di aver impiegato tutta la vita a perdonarsi l’appartenenza ad una famiglia così ingombrante: il fatto di essere sempre stata una persona caritatevole è stato motivo della sua salvezza. Ella rievoca il passato, le zone del Nord Est dalle quali proviene ed il fatto che sua madre, quando era incinta del fratello, avesse sognato una fiaccola accesa: un chiaro presagio di sventura, perché la leggenda narra che fosse accaduto lo stesso ad Ecuba mentre aspettava Paride.


Dal passato, però, Cunizza passa con un passaggio quasi brusco al futuro, che è quello che le sta realmente a cuore. La donna si dichiara scontenta dei suoi concittadini in vita, che non si preoccupano affatto delle conseguenze ultraterrene delle loro azioni. In particolare, ella predice che la marca Trevigiana è in grande pericolo e che i cittadini padovani verranno sconfitti per ben tre volte dai Ghibellini di Vicenza. Tra i terribili eventi che dovranno accadere ci sarà la morte dell’onesto signore di Treviso, Ricciardo da Cammino, ucciso a tradimento durante una partita a carte (si dice da un marito geloso, ma molto più probabilmente per mano di sicari prezzolati dai nemici).


Nemmeno nel Paradiso mancano le invettive verso la Chiesa: il vescovo di Feltre, infatti, viene descritto da Cunizza come un traditore.





Eccoci giunti alla fine di questo post… tra i Cieli del Paradiso!

Fatemi sapere se conoscevate già questi personaggi, se ricordate qualcosa dai tempi della scuola, se invece vi ho fatto conoscere qualcosa di nuovo.

Come sempre, ringrazio moltissimo tutti coloro che stanno seguendo questo percorso: so che non è sempre facile, ma spero possa essere interessante anche per chi non è proprio del settore. Vi do appuntamento a maggio per l’ultima tappa dantesca.

Nel frattempo grazie per la lettura e al prossimo post :-)


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