Storytelling chronicles: Aprile 2020
Cari
lettori,
benvenuti
ad un nuovo appuntamento con la rubrica di scrittura creativa
“Storytelling chronicles”, ideata da Lara, del blog "La nicchia letteraria"!
Se
per il mese di marzo la regola era la tematica del papà, per
aprile abbiamo scelto di lasciarci ispirare da un’immagine, e più
precisamente da quella sottostante, che ritrae una foresta di giorno.
Il mio racconto si intitola “La staffetta” ed è in onore del 25
aprile, Festa della Liberazione. Spero che vi piaccia!
La
staffetta
“Corri,
Marisa, corri!”
Sento
dietro di me la voce del comandante della brigata che mi ha affidato
il messaggio. Sono consapevole di essere sola, eppure avverto forte e
chiaro il suo richiamo, come se egli fosse a un metro da me. Ieri
sera mi ha fatto ripetere le stesse frasi dieci volte, ma non deve
avere timore: io ho buona memoria e sono molto veloce.
La
foresta è immersa in un silenzio irreale. Grandi sempreverdi e bassi
arbusti nodosi consentono a malapena il passaggio tramite un
minuscolo sentiero di terra. Cammino più rapidamente che posso,
quando riesco corro, ma ho tanta paura di inciampare nelle radici,
che ad ogni passo sembrano diventare più grosse e minacciose. La
strada è in salita, ed all’improvviso diventa ancora più ripida:
i miei sospiri affannosi sono l’unico rumore che riesco a sentire.
Ho tanta paura di attirare l’attenzione su di me… se solo gli
uccellini cantassero! Perfino loro sembrano aver abbandonato questo
bosco di montagna che un tempo era un’oasi di felicità ed ora è
solo un insidioso percorso obbligato.
Un
passo dopo l’altro, sono arrivata all’ultimo spiazzo prima della
corsa finale. L’angusta strada che ho percorso finora si è
allargata, creando uno spazio quasi circolare. Grandi conifere dai
lunghi rami rendono il luogo quasi fiabesco, e la chiara luce del
primo mattino filtra tra un albero e l’altro. Io però so che
questo è uno dei luoghi più pericolosi, un tratto in cui sono
visibile e rischio di essere scoperta. Devo restare il più possibile
ai lati, in modo da potermi gettare in qualche cespuglio e
nascondermi. Le sterpaglie, le grosse pietre, persino le buche: tutte
quelle parti della foresta in cui mi era vietatissimo andare da
bambina, quando ero in gita con la mia famiglia ed il mio unico
pensiero era giocare, ora sono le mie migliori amiche.
È
tutto molto tranquillo, forse anche troppo. Tutto ad un tratto un
rumore secco mi gela il sangue nelle vene. Resto paralizzata dal
terrore e mi rendo conto che al suono che ho sentito se ne stanno
aggiungendo degli altri, sempre più ritmici, sempre più vicini. Dei
passi! Cerco disperatamente di raggiungere l’arbusto più vicino,
ma più corro, più quello sembra allontanarsi. All’improvviso, con
mio sommo orrore, mi rendo conto che le pietre ed i cespugli si
stanno sollevando, che la strada stessa si sta scollando da terra,
che l’intero spiazzo si sta ripiegando su se stesso, intenzionato
ad inghiottirmi ed a lasciarmi sepolta sotto gli alberi e le macerie.
Sento un terribile urlo di disperazione e poi è tutto buio.
*
* *
Mi
sveglio gridando sul mio materasso, avvolta in una ruvida coperta di
lana che mi ha fatto sudare copiosamente. Mi guardo intorno,
respirando a pieni polmoni e cercando di recuperare la calma: una
camicia da notte bianco-giallognola che aveva ricamato mia nonna e
che ha visto giorni migliori; la spessa lana marrone che ancora
avvolge le mie gambe; il cuscino che ho gettato via dal materasso
mentre mi dimenavo nel sonno, che è finito sul pavimento, dal
momento che qui non ci sono letti; la piccola sacca in cui conservo i
miei pochi averi; la sedia su cui si intravede la candela che ho
spento ieri sera, prima di addormentarmi.
Tiro più di un sospiro di
sollievo: va tutto bene, sono ancora al rifugio. Sicuramente mi sono
svegliata urlando, ma nessuno è venuto né a disturbarmi, né ad
offrirmi aiuto oppure a chiedermi come sto: sono una delle poche
ragazze, mi hanno lasciato apposta questa stanzetta, e qui la notte è
popolata da incubi per tutti. Quelle poche volte che riesco ad
addormentarmi serena vengo regolarmente svegliata dalle grida altrui.
A
giudicare dalla pochissima luce che filtra dalle persiane, forse la
notte non è più al suo culmine, ma mancano ancora delle ore prima
dell’arrivo dell’alba. Mentre recupero il cuscino e mi infilo
nuovamente sotto la coperta, perché il sudore mi si sta raffreddando
addosso, mi ripeto che sono una sciocca.
Avrei dovuto capire che si
trattava di un sogno già dal richiamo iniziale, e non solo perché
il comandante della brigata non sarebbe mai potuto essere ad un metro
da me, ma anche perché, ormai, nessuno, a parte la mia famiglia (che
non vedo da tanto), mi chiama più Marisa. Qui ognuno di noi ha un
suo nome di battaglia, principalmente legato alle sue origini
(militari, studentesche…). Io per tutti sono Mia, una delle
staffette partigiane. Questo soprannome mi è stato dato da uno dei
membri più anziani del gruppo, che, quando ero appena arrivata sui
monti, non mancava mai di prendermi in giro bonariamente per il mio
entusiasmo da principiante e per la mia impertinenza: “Vuoi sempre
fare tutto tu”, mi diceva ridendo. Ed era vero, nei primi mesi, io
desideravo che ogni consegna fosse mia, appunto.
La
mia intraprendenza mi ha aiutato molto ad affrontare i primi viaggi
nel bosco. Oramai conosco le Langhe, ed in particolare questa zona,
come le mie tasche. Ci sono nata quasi diciannove anni fa, in un
paese a valle, e nei primi tempi mi sono state persino utili le
scampagnate che avevo fatto da piccola con i miei genitori ed i miei
fratelli maggiori. Da bambina ero molto serena, adoravo questo luogo.
Poi ci sono stati i primi anni della guerra: io ero un’adolescente
ed ero chiusa in casa con mia madre. I miei fratelli sono stati
chiamati alle armi, ma dopo l’armistizio del ‘43 si sono uniti ai
partigiani.
Mio padre, invece, è piuttosto anziano ed era stato
riformato per un problema ai polmoni che si porta dietro fin da
quando era ragazzo, ma ha voluto proseguire il suo lavoro di operaio
per portare qualche soldo a casa e, dopo gli scioperi del marzo ‘44,
è stato incarcerato. Le uniche due volte che sono riuscita a tornare
a valle da mia madre ho avuto sue notizie, frammentarie ma
consolanti: considerati i suoi problemi di salute, non sta male, nel
complesso. Gli hanno consentito di incontrare mia madre due volte e
forse prima di Natale lo lasceranno libero. I posti in carcere sono
limitati e destinati ad oppositori politici molto più pericolosi di
qualche operaio ultracinquantenne finito per sbaglio in mezzo ad una
rissa.
Per
quanto mi riguarda, quando mio padre è stato messo in carcere,
l’unica mia compagna di vita è stata una rabbia sorda e cieca, una
incontenibile voglia di ribellione contro chi continuava a farci del
male. È stato così che ho deciso di unirmi ai partigiani. Mia madre
ha tentato di dissuadermi, spinta dalla paura di perdermi e
dall’angoscia di restare sola in un paese che, anche se lontano
dalle zone rosse dei bombardamenti, può sempre essere attaccato. In
pochi giorni, però, si è rassegnata: secondo me, in fondo, è anche
un po’ orgogliosa.
In
aprile ho raggiunto la base dove prestano servizio anche i miei
fratelli e da quasi cinque mesi questa è la mia vita. Altre ragazze
come me, tra i 16 ed i 21 anni, del mio paese e di quelli intorno, si
sono decise e, come me, hanno scelto di aiutare i partigiani e di far
parte della Resistenza.
In
questa lunga notte, però, loro non ci sono, e neppure i miei
fratelli, che non vedo da due settimane perché sono stati incaricati
di raggiungere la zona di Alba. Sono da sola con i miei fantasmi.
La
verità è che solo pochi mesi fa ero in uno stato d’animo del
tutto diverso. C’era un desiderio di rivalsa, c’era il sangue che
ribolliva, c’era un forte orgoglio civico, c’era anche la
sensazione, forse utopica, forse no, di stare facendo qualcosa di
utile per il mio paese, per un’Italia che forse un giorno sarà
libera. Per questo motivo, durante i primi viaggi, mordevo
letteralmente la strada ed avevo così tanta energia rabbiosa in
corpo che quasi pensavo: “Sono i miei nemici a dover avere paura di
me!”
Poi,
però, la realtà mi ha duramente colpito. Ho visto compagni partire
e non tornare più; mi è capitato di arrivare a destinazione in
rifugi dove i fascisti avevano lasciato cadaveri sul prato e pochi
resti bruciati; la sera, di fronte al fuoco, ho ascoltato i tristi
destini di alcune donne del mio paese che avevano osato, come me,
fare di testa loro, e mi sono dovuta tappare le orecchie per non
sentire.
Ora, ogni giorno che passa, ho sempre più paura, sia per me
che per i miei cari: siamo tutti divisi ed ormai non mi azzardo
nemmeno più ad immaginare un giorno in cui saremo tutti finalmente
insieme e felici, perché il solo pensiero mi farebbe piangere. La
foresta è diventata il mio personale incubo. Quasi ogni notte sogno
di caderci dentro, di venire inghiottita, di perdere la strada. O che
qualcuno mi spari alle spalle mentre tento inutilmente di fuggire.
*
* *
Credevo
che i pensieri negativi non mi avrebbero più abbandonata. Dopo
essermi rigirata più volte sul materasso, invece, sono riuscita a
riprendere sonno ed a recuperare le energie. Sono stata svegliata da
un mio compagno poco dopo l’alba: era il momento di partire.
Come
sempre, quando la notte è terminata e devo passare all’azione, gli
incubi sembrano svaniti. L’incertezza nei confronti del futuro e la
morsa della paura lasciano il posto alla lucidità ed alla
determinazione, e so che devo semplicemente fare un passo dopo
l’altro. Così anche stamattina mi sono vestita, ho riempito la mia
sacca con qualche provvista e pochi oggetti necessari, ho intinto un po' di pane giallo nel latte ed ho cercato di mangiare con calma.
Il
comandante mi ha salutato, mi ha fatto ripetere il messaggio altre
tre volte, mi ha squadrato dalla testa ai piedi e mi ha detto: “Cerca
di restare viva”. Potrebbe sembrare un uomo duro, ma io so che è
stato così sbrigativo perché vuole il mio bene. Se tutti
indulgessimo alla commozione prima di partire per uno dei nostri
pericolosi viaggi, le emozioni avrebbero la meglio e ci renderebbero
confusi e vulnerabili.
Sto
di nuovo percorrendo la strada del mio sogno, ed è tutto uguale: gli
alberi, i cespugli, le pericolose radici, la salita. Stavolta, però,
si tratta della realtà, e la conferma mi arriva dal canto degli
uccelli, che al mattino è particolarmente garrulo, da una lepre che
mi ha tagliato la strada zampettando, dagli scoiattoli che, nel
momento in cui mi vedono, graffiano rapidamente la corteccia dei pini
per poi sparire tra le fratte.
Solo negli incubi più angoscianti il
silenzio ti avvolge come la coperta soffocante sotto la quale stai
scalciando. Nella realtà, la natura si disinteressa dei drammi
umani. Se non viene toccata personalmente, essa continua a far
spuntare meravigliosi fiori in primavera, a far splendere il sole
come in questa incantevole mattinata di fine agosto, a far
addormentare tutto sotto un placido strato di neve. Anzi, dove gli
uomini si sono fatti del male a vicenda ed hanno abbandonato il
territorio, la natura, in breve tempo, se ne riappropria, con una
sicurezza quasi crudele.
Continuo
a camminare spedita, stando all’erta e cercando di non inciampare,
né nelle radici né negli animali. Al termine della salita mi prende
un puerile desiderio di fermarmi, ma non posso farlo: devo superare
lo spiazzo del mio sogno di stanotte. Ancora due passi… ed ecco lo
slargo dove sono passata più volte e che tormenta i miei incubi.
Di
nuovo, è tutto come lo avevo sognato: la terra battuta piena di
radici ed aghi secchi, le ampie conifere, i raggi del sole, il
profumo di pino. È l’ultima zona boschiva prima della corsa nel
prato verso il rifugio che devo raggiungere. Lì mi attende una
signora, la moglie di un fattore che deve ancora tornare dalla
guerra, una donna che si è rivelata utilissima ai partigiani perché
ha messo a disposizione la sua casa come punto d’incontro e di
ricezione dei messaggi. Almeno, così mi hanno detto. L’ultima
volta che sono passata di lì sono andata ad est, in un altro
rifugio, ma erano passati prima i fascisti… e preferisco non
ripensare a ciò che ho trovato ed al viaggio di ritorno che ho
dovuto affrontare per comunicare al comandante l’insuccesso della
mia missione.
Mentre
attraverso la spianata, sento un rumore secco.
“Basta,
Mia, ancora con quel sogno?” Mi ripeto, cercando di farmi coraggio.
Ma
non mi sto immaginando nulla. Sono dei passi, cadenzati e ritmici,
accompagnati da una canzonaccia che conosco fin troppo bene. Devo
nascondermi. Per pochi secondi ho la terribile, irrazionale paura che
non riuscirò a raggiungere gli arbusti, perché essi, come nel mio
incubo, si allontaneranno, ma in poche falcate sono dietro a delle
rocce sporgenti, attorniate da cespugli: un perfetto nascondiglio per
una ragazza minuta come me.
Mi
sono già trovata in situazioni simili, ed ogni singola volta mi è
parso che il tempo si dilatasse all’infinito. Quando vuoi che un
pericolo passi, un singolo secondo può diventare lungo quanto
un’ora. Anche stavolta, sembra che le camicie nere stiano
impiegando una vita ad attraversare uno spiazzo di poche decine di
metri.
Anche se non posso vederli, tutti i miei sensi sono all’erta,
e posso sentire ogni singolo dettaglio della loro presenza. Il passo
a tratti cadenzato a tratti strascicato, tipico di persone abituate
ad una disciplina militare ma per quel giorno in uscita libera; le
risate che accompagnano il canto sguaiato, come se fosse appena
successo qualcosa di molto divertente; il pungente odore di vino,
segno che qualcuno di loro, anche se è mattina, ha bevuto troppo.
Ogni dettaglio mi atterrisce, mi immobilizza, mi fa aderire alla
roccia con disperazione.
Alla
mia destra gli arbusti si diradano appena: non abbastanza perché io
sia individuata, ma solo un pochino, in modo da creare uno spiraglio
da cui posso vedere quello che sta succedendo. Con la coda
dell’occhio, mi rendo conto che i miei lenti e svogliati nemici si
stanno allontanando. Ancora qualche minuto e potrò uscire,
riprendere la mia corsa, arrivare al rifugio.
D’un tratto più
rilassata, abbasso il braccio, forse un po’ troppo in fretta… e
mi rendo conto che non sono l’unica ospite di quel riparo
improvvisato. Ritraggo la mano orripilata, ma il contatto con la
lucida pelle è stato inequivocabile: lì con me, sotto quelle
frasche, accanto alla pietra, c’è una vipera che sta dormendo.
Sembra non essersi accorta di me: è arrotolata su se stessa, con la
testa reclinata sul corpo.
Un
istinto fortissimo di fuga si impadronisce di me, ma mi rendo conto
che, anche se i fascisti non sono più in vista, non si sono
allontanati da molto: potrebbero sentire i miei passi come ho fatto
io con loro e tornare indietro. Non ho altra scelta: devo restare lì,
a due passi da un animale che potrebbe colpirmi con un veleno
mortale, aspettare, e sperare che il pericolo al mio fianco non si
riveli più mortale di quello dall’altro lato della pietra.
Non
so quanti minuti siano passati, ma non sento più nemmeno l’eco di
una canzonaccia. La vipera di fianco a me non si è mossa: forse è
ferita o malata, dal momento che non è ancora il tempo del letargo.
Con estrema cautela esco dal mio nascondiglio, mi guardo intorno e,
non appena comprendo di essere nuovamente sola, ricomincio a
camminare più spedita che posso.
In
pochi passi sono fuori dalla foresta, e mi trovo all’inizio di una
radura assolata. Inizio a correre verso ovest, cercando di trattenere
la paura che mi serra lo stomaco. Non si tratta solo di apprensione,
perché il prato non offre i medesimi ripari della foresta, ma anche
di preoccupazione per l’immediato futuro, che ho cercato di
trattenere finora, ma che ora incombe su di me come una minaccia.
E
se il rifugio fosse stato trovato dai fascisti che ho appena
incontrato, o da altri? Che cosa farò, dove mi nasconderò? Corro
con le lacrime che mi scorrono sulle guance. Più cerco di non
pensare al mio recente passato e più i cadaveri riversi sul prato,
il legno bruciato, il sangue sull’erba mi accerchiano come spietati
fantasmi. Ed all’improvviso non sono più Mia, l’intrepida
staffetta partigiana, ma la piccola Marisa, l’ultima di tre figli,
la ragazza più minuta del paese.
Tra
le lacrime riesco a scorgere un edificio in legno: il mio traguardo!
È completamente serrata, ma sembra integra. Con un ultimo sforzo
arrivo di fronte alla porta e busso secondo il segnale convenuto. La
serratura scatta, la porta si apre di poco, ed intravedo una signora
con un fazzoletto in testa. Sgattaiolo dentro e, anche se sto
entrando al buio ed al freddo, è come se all’improvviso avessi
visto la luce.
*
* *
Di
nuovo un risveglio nell’oscurità in una stanza. Questa volta,
però, sono su un vero letto, dalle persiane filtra la luce del
tramonto, e la mia missione è finalmente compiuta. Norma, la donna
che abita in questo rifugio, è stata felice di accogliermi.
Ovviamente questo non è il suo vero nome: mi ha detto che le è
stato dato dal comandante a cui fa riferimento, un ex professore di
musica che ha perso il posto durante la guerra e dà a tutte le donne
e ragazze dei soprannomi derivanti dall’opera lirica. Le ho
riferito il messaggio, ho mangiato un po’ di formaggio e poi
credo di essere crollata, perché non ricordo nulla.
Mentre
mi alzo e cerco di capire se ho davvero dormito tutto il pomeriggio,
Norma entra nella stanza.
“Ah,
ti sei svegliata! Bene. Tra poco è pronta la zuppa. Puoi cenare con
me e restare qui per la notte. Domani farai ritorno alla tua base.”
Poco
dopo, siamo entrambe sedute su un piccolo tavolo di legno spesso, in
una povera cucina, di fronte a due scodelle fumanti. Norma è
silenziosa, ma, anche se sembra una donna dal carattere chiuso, ho
l’impressione che la mia presenza le faccia piacere.
“A
chi verrà consegnato il mio messaggio?” le chiedo in tono quasi
casuale.
“Tra
due giorni arriverà qui un’altra staffetta, da Alba.”
“Come
mai sempre da Alba? Anche i miei fratelli sono stati mandati lì.”
“Hai
mai sentito parlare della creazione delle Repubbliche partigiane?”
“Sì,
certo. Delle zone completamente libere dal nazifascismo, gestite dai
nostri comandanti. Mi hanno detto che l’anno scorso ci hanno
provato nella zona di Caporetto, ma è stata una faccenda breve.”
“A
Caporetto si sono fatti cogliere impreparati, erano in una zona
isolata” risponde Norma scuotendo la testa. “Ma se riusciamo a
formarne due vicine ed alleate… una qui nelle Langhe, ed una ad
Alba… uniti possiamo essere più forti.”
Resto
in silenzio, non sapendo bene che pensare della novità.
“Che
c’è, hai paura dei fascisti? Dei repubblichini? I nostri
comandanti ne hanno più di noi, stai sicura.”
“Sai
che al limitare della foresta ne ho trovata una banda? Li ho evitati
per un pelo. Erano ubriachi, cantavano sguaiatamente. Mi hanno messo
i brividi” le confesso, ripensando ai terribili minuti che ho
passato nascosta.
“Sono
allo sbando” replica Norma, con espressione dura e rabbiosa. “Hanno
perso la loro guida. Tanti di loro si sono aggregati al Partito o,
peggio, alle camicie nere per poter essere intoccabili. Per fare
quello che volevano, per ferire ed umiliare chi era più debole, per
essere liberi di uccidere un nemico personale. Ed ora… l’Armistizio
li ha distrutti, li ha sparsi per l’Italia come e peggio di noi
partigiani. Tocca anche a loro sentirsi braccati, finalmente.”
conclude, non nascondendo una certa soddisfazione.
Per
qualche minuto nessuno parla. Finisco le ultime cucchiaiate di zuppa
e bevo un sorso d’acqua, chiedendomi se è il caso di confidare a
Norma quello a cui ho pensato mentre i fascisti si allontanavano ed
osservavo il serpente dormire accanto a me.
Alla
fine mi decido: “A volte penso che, più delle camicie nere, mi
spaventano le vipere.”
Norma
mi osserva incuriosita: “In che senso?”
“Ho
aspettato tra pietre ed arbusti che i fascisti se ne andassero, ma mi
sono resa conto che la mia compagna di nascondiglio era una vipera. E
quando li ho sentiti allontanarsi, mi sono resa conto di aver avuto
quasi più paura di lei.
Quello
che voglio dire è che la violenza del prepotente atterrisce, ma non
sorprende. Alcuni ragazzi del mio paese si erano uniti alle camicie
nere anni fa, ma erano egoisti che cercavano il loro tornaconto anche
quando portavano solo degli sbrindellati pantaloni da lavoro. Certo,
non lascia tranquilli il pensiero che un gruppo di persone arroganti
ed egocentriche si riuniscano tutte sotto una guida, ma non
sorprende. Sono quasi prevedibili, con il loro farsi forza in gruppo,
le loro ubriacature per recuperare quel coraggio che in fondo non
hanno, il cieco richiamo del sangue a cui obbediscono senza farsi
domande.
Ma
ciò che mi agghiaccia, che mi toglie il sonno, che a volte mi fa
perfino dubitare di me stessa, è la vipera. L’animale dormiente
che tu consideri inoffensivo e che aspetta che tu ti addormenti ed
abbassi la guardia per consegnarti ad un’orribile fine.
Persone
che conoscevo, che erano amiche dei miei genitori, che stimavo. Che
prima della guerra facevano meravigliosi discorsi contro il Regime,
che predicavano la tolleranza, che talvolta aiutavano persino i più
deboli.
Prima
di decidere di salire qui sui monti, ho visto quelle stesse persone
trasformarsi in bestie sotto i miei occhi. Le vedevo stare dietro
alle loro finestre, osservare chi si comportava male, denunciare ai
fascisti un minimo comportamento sospetto. Non c’erano più i
discorsi di ribellione in piazza e nelle taverne: solo una
chiacchiera diffidente da balcone a balcone, scrutandosi con astio
malcelato, rendendosi conto che la lotta per la sopravvivenza non
cessava neanche per un minuto, e poteva essere tra vicini, tra amici,
persino tra parenti.”
Mentre
mi sfogavo, Norma mi osservava, annuendo leggermente con il capo.
“Che
cosa ti fa maggiormente paura?” mi chiede, infine.
“Ho
paura di svegliarmi una mattina e vedere che la vipera non è più di
fianco a me, ma dentro di me. Ho paura che esca dal mio cuore e
faccia del male a qualcuno. Ho paura della bestia che è dentro di
me.”
Norma
non ha dato una risposta alle mie angoscianti domande, ma so che ha
capito. Sa che sta pensando anche lei a quello a cui penso io: le
rappresaglie, le esecuzioni, quella guerra sui monti senza esclusione
di colpi che sembra ancora peggiore di quella ufficiale. Ha portato
la sua sedia accanto all’ingresso, dove una persiana rotta mostra
una minima parte del paesaggio esterno.
“Vieni
qui a vedere” mi dice infine, alzandosi e cedendomi il posto.
Mi
siedo ed osservo fuori dal minuscolo spiraglio, ma vedo solo una
porzione di prato ed i primi alberi della foresta che, ora che sta
calando la notte, sembra esattamente quel che è: un bosco di
montagna, la meta delle gite felici della mia infanzia.
“Vedi,
Mia?” prosegue Norma. “Quella foresta, oggi, è stato il tuo
incubo, vero?”
Annuisco.
“Forse lo sarà anche domani” aggiunge lei. “O forse domani ti
faranno più paura le vipere, o le camicie nere, o chissà cos’altro
ancora. Non possiamo prevedere gli incubi che ci attanaglieranno tra
due o tre mesi, ma nemmeno tra due o tre giorni. Dobbiamo pensare a
quello quotidiano, ed essere felici se l’abbiamo superato. Ed un
giorno dopo l’altro, un incubo dopo l’altro, in qualche modo
andremo avanti. Anche se siamo due povere donne chiuse in una baracca
e non possiamo nemmeno goderci il tramonto e l’estate, noi stiamo
andando avanti. E il mondo con noi. Io non lo so se riusciremo a
creare queste Repubbliche partigiane. Magari no. Magari la
liberazione verrà da un’altra parte. Ma usciremo da tutto questo.”
Mi
volto verso Norma con un briciolo di sorriso. “Sì, dobbiamo
crederci. Un giorno sarà tutto finito. E quel giorno saremo
finalmente liberi.”
FINE
Come
già lo scorso mese, attendo con curiosità i vostri commenti!
Vi
invito anche a seguire gli altri post del mese appartenenti alla
rubrica “Storytelling chronicles”, in modo da scoprire altri
racconti ambientati nella foresta.
Nel
frattempo, buon 25 aprile a tutti voi!
Grazie
per la lettura, al prossimo post :-)
Wow Silvia che bello questo racconto. Wow è l'esclamazione giusta perchè mi hai fatto vivere l'angoscia e la paura insieme a Mia mentre correva. Trovo questo racconto bellissimo, sei stata brava a prendere spunto da una piccolissima immagine e trasformarlo in qualcosa di vero soprattutto considerato il periodo storico che è realmente esistito quindi davvero, bravissima.
RispondiEliminaPer quanto Mia sia la voce narrante e quindi la protagonista principale mi è piaciuto molto l'intervento di Norma e quel finale di speranza dona esattamente questa emozione.
Complimenti
Ciao Susy! Ho pensato subito a questo periodo storico perché aprile è il mese della Liberazione, ma non ero certa che il risultato sarebbe stato buono. Proprio per questo sono contenta che le emozioni di Mia ti siano arrivate chiare e forti! Norma è un po' la "voce della saggezza e dell'esperienza" che completa la giovinezza piena di incertezze e domande di Mia. Grazie mille, sono contenta che la storia ti sia piaciuta :-)
Elimina
RispondiElimina" Ya, kita harus percaya. Suatu hari semuanya akan berakhir. Dan hari itu akhirnya kita akan bebas. "
This is an interesting part of the sentence and I am glad to read it. Nice story, friend.
Keep working.
Greetings from Indonesia
Hi! I'm glad you liked the ending and the whole story. This is part of an appointment that my blog has with creative writing every month. So I'll surely keep working and writing! Greetings from Italy :-)
EliminaCara Silvia, sai che leggendo mi sono detto!
RispondiEliminaUn racconto che ci si commuove, sai io che ho vissuto quel tempo lo capisco...
Ciao e buona giornata con un forte abbraccio e un sorriso:-)
Tomaso
Ciao Tomaso! Sapere che questa storia ti è piaciuta è una grande soddisfazione per me...quando scrivo qualcosa di storico ho sempre paura di inserire particolari poco realistici, ma se è piaciuto a te che hai vissuto questo tempo, allora sono tranquilla! So che ami la montagna, spero che ti sia piaciuta anche l'ambientazione. Buona giornata anche a te :-)
EliminaPerò!
RispondiEliminaComplimenti! Non sarei mai riuscita ad arrivare a tanto dalla semplice immagine di una foresta.
Mi sembrava di correre avvertendo la stessa angoscia della protagonista.
Il tuo mi sembra un modo creativo e perfetto per ricordare le lotte per la liberazione.
Brava.
Ciao Claudia! All'inizio anche io non sapevo bene che idea trarre da quest'immagine... abbiamo votato il tema sul gruppo Facebook della rubrica e l'alternativa sarebbe stata la panchina di un parco di sera. Chissà che idea mi sarebbe venuta in mente in quel caso! Comunque grazie di cuore per i complimenti! Sono contenta che la storia ti sia piaciuta! :-)
EliminaSilvia, che dire, se non chapeau? Hai fatto un lavoro grandioso. Partiamo dal fatto che, pur essendo davvero lungo, il tuo racconto non annoia, mai. La scrittura è scorrevole, bello il lessico, curata la sintassi. A parte il problemino della D eufonica, di cui spero ti sbarazzerai, e Paese (Italia) scritto con la minuscola, si vede che hai scritto con amore e attenzione. La cosa che spicca più di tutte è la capacità che hai avuto di calarti nei panni di una staffetta e creare così un personaggio credibile. In più, sei stata bravissima a comunicare ogni stato d'animo, a farmelo vivere. La riflessione sulla paura della vipera è bellissima, profonda, e mi parla un po' di te, quindi l'ho apprezzata tantissimo. Secondo me c'è anche un gran bell'equilibrio tra flusso di pensieri, parti descrittive e dialoghi. Bella e suggestiva anche l'ambientazione.Questo è un racconto che vedrei benissimo al'interno di una qualche prestigiosa antologia pubblicata in occasione della Festa della Liberazione. Hai fatto centro alla grande, complimenti.
RispondiEliminaAl prossimo racconto!
Ciao Debora! Leggere il tuo commento è stata davvero una bella soddisfazione per me. Sono così felice che tu abbia apprezzato tanto il mio racconto! Pensare, poi, che lo immagini addirittura incluso in una raccolta "seria"... è davvero emozionante!
EliminaLa prossima volta dovrò veramente stare attenta a queste benedette "d", visto che me lo avete fatto notare in tante!
Ancora grazie per le tue belle parole :-)
La tua scelta di creare questa storia in onore della Festa della Liberazione mi ha molto commosso come il racconto in sè. Mi sono sentita ansimare dall'ansia e dalla paura nel leggere di Mia e della sua corsa. Ammetto che, nonostante ami gli storici, questo non è tra i periodi storici che più apprezzo, tuttavia sei riuscita a tenermi incollata alle tue parole dall'inizio alla fine. Brava.
RispondiEliminaCiao Tania! Sono super contenta che ti siano arrivate le emozioni della protagonista, per me è una bella soddisfazione! Anche io non conosco moltissimi romanzi sulla Resistenza… ma ho apprezzato quelli che ho letto. Grazie ancora :-)
EliminaCiao Silvia! Hai scritto proprio un bellissimo racconto! Reale, sincero, ben scritto e pieno di emozioni che mi sono arrivate dritte al cuore, una dopo l'altra, dalla prima all'ultima parola. La cosa più bella è stata riuscire quasi a vederle, Mia e Norma, che osservano il mondo dallo squarcio della persiana, senza nessuna difficoltà: la tua capacità di descrivere le scene è davvero ottima, devo farti i complimenti. Ho apprezzato tantissimo anche la parte finale, dove Mia riflette sulla vipera e Norma ci regala una vera perla di saggezza. Un ottimo scritto, sotto tutti gli aspetti! Bravissima, davvero! Alla prossima lettura, Stephi
RispondiEliminaCiao Steph! Grazie mille per le belle parole, sono davvero felice che la storia ti sia piaciuta. Nella parte finale, con Mia e Norma nella capanna, ho proprio voluto alternare immagini più reali ed ordinarie, come quella delle due donne che osservano dalla finestrella, e riflessioni più profonde. Sono contenta di essere riuscita nell'intento!
EliminaGrazie ancora per aver letto e commentato :-)
Ciao Silvia! Sono ancora col fiatone e i brividi dopo la lettura del racconto tutto d'un fiato... Non riuscivo a fermarmi, l'ho "divorato" perché dovevo vedere come andava a finire, quale sarebbe stata la sorte della fantastica Mia. Un'idea quella di creare un personaggio simile a dir poco originale, con il tuo stile serrato e coinvolgente poi mi hai catapultata nel suo mondo, permettendomi di assistere con i miei stessi occhi ai suoi incubi, al suo viaggio, alla discussione con Norma. Che bel messaggio hai dato, una perfetta interpretazione di un periodo storico molto controverso e spesso "sorvolato". Davvero, ti faccio i miei più sentiti complimenti, mi hai tenuta incollata alla pagina con una facilità impressionante. È il primo racconto che leggo della tua penna ma adesso sono curiosissima di leggere tutti gli altri! ���� Ancora bravissima!
RispondiEliminaCiao Anne Louise! Mi fa sempre tanto piacere leggere commenti entusiasti come il tuo, quindi ti ringrazio tanto per le tue belle parole :-) Sono contenta soprattutto di averti coinvolta ed averti convinta a proseguire la lettura… è una bella soddisfazione! Se ti interessa, puoi trovare online anche il racconto del mese di marzo dedicato alla Festa del Papà. Grazie ancora per la lettura ed il commento!
EliminaLasciatelo dire, Silvia. Avevo capito fossi brava nella scrittura, ma non immaginavo potessi arrivare al livello che tutti qui hanno recepito! *-*
RispondiEliminaIl racconto di aprile è davvero strepitoso e te lo dice una che rifugge la storia -soprattutto nostrana... Sì, sono poco patriottica considerando questo punto di vista e me ne vergogno assai :(- come farebbero i bambini con l'uomo nero nascosto sotto al letto o nell'armadio XD
La lettura è simile a un fiume in piena per quanto il testo scorre veloce -praticamente, non ti accorgi che, subito dopo averlo iniziato, già lo hai finito, in barba alla lunghezza non indifferente: straordinario, assolutamente straordinario!- e le emozioni più disparate ti investono come un tir con rimorchio -un po' sei angosciata, un po' in allerta, un po' triste, un po' consapevole, un po' speranzosa, un po' lieta: ho provato un caleidoscopio di sentimenti variegati, sì XD-.
La ciliegina sulla torta, però, è stata la chiusura de "La staffetta", quel piccolo dialogo dalla bellezza disarmante con il quale Norma e Mia intrattengono il tuo pubblico: nonostante detta così sembri fuori contesto, ci credi se ti dico che ho rabbrividito dal piacere assaporando quelle parole? Che testo ci hai proposto, una goduria *-*
In sostanza, riassumo il mio commentino così: se mai pubblicassi un giorno uno storico, avvisami che lo voglio in formato cartaceo e autografato! <3 ;)
Ciao Lara! Come tu ti sei emozionata leggendo la mia storia, così io mi sono emozionata leggendo il tuo commento! è veramente una soddisfazione ricevere dei pareri così positivi e pieni di gioia! La chiusura è forse una "licenza poetica", nel senso che magari due persone nelle condizioni di Norma e Mia avrebbero tirato un sospiro di sollievo e sarebbero andate a dormire senza fare grandi discorsi o riflessioni, ma mi è piaciuto inserirla così, per esplicitare il "sugo della storia", come direbbe il buon Manzoni :-)
EliminaConosco qualche altra persona, oltre a te, che mi punzecchia dicendomi che dovrei dedicarmi a un romanzo a sfondo storico… con te la lista si allunga, ci dovrei proprio pensare! Ci vuole "l'idea"...
Grazie ancora per tutti i complimenti!
Ciao. Inizio il mio commento facendoti i complimenti. Hai creato una storia emozionante, mi hai fatto sentire la rabbia, l'angoscia, la paura, e persino la speranza e il desiderio di essere liberi.
RispondiEliminaHo letto e sentito alcuni racconti sui partigiani e sulle donne che portavano i messaggi sui monti e devo dire che hai trattato benissimo il tema. Il racconto è verosimile, hai trattato con rispetto e nel modo giusto sia il modo in cui si sente Mia sia l'ambiente circostante. Complimenti ancora, sei stata bravissima.
Ciao Christine! Mi avete detto in tanti di aver sentito le emozioni della protagonista, e ne sono felicissima, perché questo era uno dei miei obiettivi principali quando ho scritto questo racconto. Mi fa ancora più piacere sapere che l'intreccio è verosimile, perché nei racconti/romanzi storici questo è particolarmente importante. Grazie ancora per i complimenti :-)
EliminaCiao Federica! Ho notato che la riflessione di Mia sulla vipera e sulle camicie nere ha riscosso un bel po' di consensi e ne sono davvero contenta :-) Nemmeno per me il periodo della guerra è facile da raccontare, ed è la prima volta che ne scrivo, ma alcune buone letture mi hanno aiutato! Temo che alla lunghezza vi dovrete un po' abituare… non ho il dono della sintesi :-) Grazie mille per i complimenti!
RispondiEliminaUna bella storia che tocca corde profonde del nostro passato. Tutti ci riconosciamo negli eventi storici che descrivi, anche se non li abbiamo vissuti per una questione anagrafica.
RispondiEliminaCredo però che questo racconto abbia anche un'altra chiave di lettura. La vipera non è solo paragonabile ai delatori, ma anche ai nostri demoni interiori che ci potrebbero spingere a ferire gli altri.
Molto bello e ben narrato.
Ciao Simona! Sono d'accordo con te: anche se non abbiamo vissuto quest'epoca, ci può capitare di sentirla molto vicina, anche solo sentendo i racconti dei nonni, oppure in determinati momenti. In effetti, pensando all'immagine della vipera, la mia intenzione era riferirmi un po' ad entrambe le cose. Grazie mille per i complimenti :-)
EliminaCiao Silvia. Sono Silvia di Silvia tra le righe. Che meraviglia. Non poteva esserci modo migliore di omaggiare il mese di aprile e il 25 aprile, sfruttando la foto di Lara. Scrivi benissimo e inoltre sono riuscita a provare tutte le emozioni di Marisa, tanta ansia e tanta paura. Complimenti. Silvia.
RispondiEliminaCiao Silvia, grazie mille, sono contenta che la storia ti sia piaciuta! Avendo omaggiato già il 25 aprile altri anni con poesia, letteratura o musica, quest'anno ho pensato di farlo con la scrittura creativa :-)
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